La ricetta dei testaroli

di
P. Da Pontelungo (Ferrari, Pietro)

tempo di lettura: 10 minuti


I testaroli sono una gloria esclusiva dell’alta Valdimagra.

E chi, quassù, non ha assaporato la gioia di sedere a una mensa imbandita, davanti a un piatto fumante della piccante pietanza?

I testaroli sono ancora, nell’alta Valdimagra, gli emuli dei tortelli. Ma mentre questi, attraverso a sempre più raffinate manipolazioni, hanno raggiunto il fastigio di una invidiata nobiltà e sono preferiti dagli stomachi deboli, i testaroli, invece, si sono mantenuti fedeli alla loro origine paesana e guerriera; e, anche oggi, conservano la loro primitiva caratteristica di cibo semplice e gagliardo, fatto per stomachi sani e invitti.

I testaroli, infatti, fecero la loro comparsa a Pontelungo, tra il cozzare delle armi e l’imperversare delle fazioni.

Ed ecco come ciò avvenne.

Quando scese in Italia l’Imperatore Arrigo, l’«alto Arrigo» di Dante, per pacificare le fazioni e risuscitare tra gli italiani l’idea imperiale, a Pontelungo ardevano, più sanguinose che mai, le lotte tra guelfi, ribelli all’Impero, e ghibellini, fedeli all’Imperatore.

I guelfi occupavano la parte superiore del borgo turrito, i ghibellini quella inferiore; ed erano rispettivamente capeggiati dalla due avverse famiglie degli Enreghini e dei Filippi. E da vari anni durava implacabile la guerra e non accennava a cessare.

Il buon Arrigo, desideroso di ristabilirvi la pace, inviò a Pontelungo, nell’aprile del 1313, un suo messo fidato, Iacopo da Cassio, con l’incarico di far deporre le armi ai guelfi, di riconciliarli coi ghibellini e di restaurare nel paese la pienezza dell’autorità imperiale.

Iacopo da Cassio era un brav’uomo, nativo di un paese d’oltre Appennino, non molto lontano da Pontelungo, e che qui aveva conoscenze e relazioni. Così, appena giunto a Pontelungo, Iacopo da Cassio prese alloggio, col suo seguito, nel Convento di S. Francesco, situato fuori delle mura, che aveva il vantaggio di essere terreno neutrale e di cui era Padre Guardiano Frà Giuliano da Parma, suo vecchio conoscente. Aiutato dal Padre Guardiano, benvoluto anche dalla parte guelfa, il messo imperiale si mise subito all’opera per assolvere il suo incarico; ma s’accorse che la sua missione incontrava le più grandi difficoltà.

Infatti, Ottobono degli Enreghini e gli altri capi di parte guelfa, coi quali Iacopo da Cassio aveva preso contatto, gli erano larghi di promesse e di belle parole; ma non si decidevano a venire a una conclusione. E, intanto, le ruberie, gl’incendi, le devastazioni, i ferimenti e le uccisioni crescevano da entrambe le parti, dentro al borgo e nel circostante territorio.

Iacopo da Cassio ne era avvilito e, al pensiero che l’Imperatore non sarebbe rimasto contento del suo operato, passava le sue giornate triste e silenzioso.

Un giorno, mentre il povero messo imperiale passeggiava da solo nel chiostro del convento, arrovellandosi il cervello per trovare una via d’uscita con quei dannati di guelfi, lo raggiunse Frà Gorpino, che era il cuoco del convento: un cuoco di fama in Valdimagra e in parte vicina.

— Buon giorno a Vostra Signoria – lo salutò inchinandosi Fra Gorpino.

— Buon giorno, Frà Gorpino – rispose il messo imperiale, continuando la sua passeggiata.

— Perdoni, Vostra Signoria – azzardò il frate – E… l’affare dei guelfi come va?

Al va mäl, cär al me Frà – rispose un po’ seccato Iacopo da Cassio, che, quando era di cattivo umore, usava volentieri il suo spicciativo dialetto parmigiano di monte.

— Eppure – disse Frà Gorpino, con aria sorniona – ci sarebbe il mezzo per pacificare guelfi e ghibellini e terminare la guerra, come è desiderio del nostro Imperatore.

Iacopo da Cassio si fermò e guardò il frate con fare interrogativo.

— Sì – riprese Frà Gorpino – il mezzo c’è…

— Parlate – incalzò Iacopo da Cassio, nascondendo a stento la sua impazienza – Che cosa intendete di dire?

— Ecco – riprese Frà Gorpino, dandosi un contegno – si tratta di questo. C’è, nel mio repertorio di cucina, una pietanza inventata da me, che ancora nessuno ha assaggiato e di cui conservo il più geloso segreto. È una vera meraviglia! Si può fare così: Vostra Signoria invita a un convegno, nel convento, i capi delle due fazioni nemiche ed io faccio trovare pronta, nel refettorio, una mensa imbandita con quella pietanza. Ma, poichè si tratta di un cibo piccante, s’intende che bisogna accompagnarlo con vini di cartello; dei quali lascio la scelta a Vostra Signoria. E se, a pasto finito, la pace non è conclusa io non sono più Frà Gorpino.

Iacopo da Cassio, che non sapeva più a che santo votarsi, accettò con entusiasmo e per poco non abbracciò il frate.

— E che cos’è questa vostra pietanza? – volle sapere il messo imperiale.

— Sono i «testaroli» – rispose il frate – Ma, per ora, Vostra Signoria non deve chiedere di più.

Pochi giorni dopo, i capi delle due fazioni, catafratti d’armi, col loro seguito d’armati, si presentarono alla porta del convento. Era a riceverli Iacopo da Cassio, che dopo il cerimoniale dei saluti, invitò gli ospiti a passare nel refettorio, dove, dopo aver assaggiato una specialità della cucina del convento, egli doveva fare alcune comunicazioni a nome dell’Imperatore.

Nel refettorio, erano già preparate le mense, con piatti trionfali di testaroli, tra lunghe teorie di coppe, colme dei più rinomati vini di Pontelungo, da quelli di Giaredo a quelli di Oppilo: quelli della Costa non si erano ancora affacciati alla ribalta della storia. Il messo imperiale, con ai lati i due capi delle fazioni e intorno le persone del seguito, il Padre Guardiano e i Frati del convento presero i posti loro assegnati e il pasto cominciò.

Le cose andarono come Fra Gorpino aveva previsto. Appena assaggiata la novissima pietanza, fu una meraviglia generale e un coro di approvazioni si levò da tutti i commensali. E poichè, come aveva detto fra Gorpino, si trattava di un cibo piccante, tutti bevettero a garganella e mangiarono fino a scoppiarne; e il pasto si prolungò fra sorso e boccone, come se questo aguzzasse desiderio di quello e quello richiedesse l’aiuto di questo.

Quando parve giunto il momento buono e gli animi si dimostrarono disposti a sentimenti concilianti e fraterni, Iacopo da Cassio si levò e così disse: Signori guelfi e signori ghibellini, l’Imperatore, mio Signore, ha il suo cuore paterno straziato da questa guerra e vuole che la pace ritorni tra voi, per il bene di voi tutti e per la maggior gloria dell’Impero.

— Noi siamo pronti a fare la pace – dichiarò subito Spagnoletto Filippi, a nome dei ghibellini.

— Siamo pronti anche noi – confermò Ottobono degli Enreghini, a nome dei guelfi.

Il momento fu solenne. Gli avversari si strinsero le mani, si abbracciarono, piansero di gioia e si scambiarono dichiarazioni di pace, d’amicizia e di fratellanza, per il bene di Pontelungo e per la gloria dell’Impero.

Fu un gran successo per Iacopo da Cassio; ma il merito era di Fra Gorpino.

Fu, poi, deciso che, il giorno seguente, al suono della campana, tutto il popolo di Pontelungo fosse adunato a parlamento nel gran prato vicino al convento, per assistere alla solenne stipulazione del patto di pace tra guelfi e ghibellini. Ma Iacopo da Cassio volle anche che la pace venisse festeggiata con una grande imbandigione di “testaroli” e relativo innaffiamento di vini, cui avrebbe partecipato tutto il popolo di Pontelungo. E aggiunse:

— Paga l’Imperatore!

— Evviva l’Imperatore! – gridarono per primi i guelfi, abbracciando i ghibellini.

Le cose andavano a meraviglia e Iacopo da Cassio quasi ne pianse di gioia.

Il giorno dopo, all’ora stabilita, tutto il popolo di Pontelungo si trovava adunato a parlamento nel gran prato vicino al convento, dove già erano state preparate le mense all’aperto. E là, sotto un albero di fico, alla presenza di Iacopo da Cassio, dei capi guelfi e ghibellini, del Padre Guardiano e di tutti i frati del convento, l’atto della pace venne solennemente steso dal notaio Alberto degli Alfieri, tra il silenzio religioso di tutto il popolo adunato. Dopo di che, Iacopo da Cassio, a gloria dei testaroli, che avevano operato il miracolo della pacificazione, e per attestare a Fra Gorpino la sua riconoscenza per la parte da lui avuta nel suo successo, volle che la ricetta della nuova pietanza, dettata dallo stesso Frà Gorpino, venisse, seduta stante, consacrata in pubblico atto, per tramandarla ai posteri “ad aeternam rei memoriam”: atto che, con quello della pace, doveva conservarsi, in un apposito scrigno, nell’archivio del Comune.

Ciò fatto, guelfi e ghibellini e tutto il popolo di Pontelungo, con al posto d’onore Iacopo da Cassio, i capi delle fazioni e il Padre Guardiano, presero posto alle mense, su cui, portati a riprese dai buoni frati, vennero serviti piatti enormi di testaroli fumanti, preparati dalla cucina del convento, sotto la direzione di Frà Gorpino.

Il successo superò quello del giorno precedente. E quando guelfi e ghibellini e tutto il popolo di Pontelungo si furono ben rimpinzati di testaroli e di vino, l’entusiasmo superò ogni limite e tutti, tra pianti di gioia e proteste d’amore, inneggiarono a Iacopo da Cassio, all’Imperatore e più ai testaroli.

E viva i tëstarö!

Tanto più che pagava l’Imperatore!

E anche Fra Gorpino, il Padre Guardiano e i frati del convento ebbero la loro parte in quel trionfo.

La gazzarra continuò anche quando, levate le mense, la folla dei commensali (ormai non c’erano più guelfi e ghibellini!) si riversò nel borgo turrito, dove, come sempre succede in simili casi, tra grida e acclamazioni, furono abbattuti gli stemmi e gli emblemi delle opposte fazioni, a suggello della pace conclusa.

L’arguzia popolare battezzò quella pace la pace dei testaroli. Ma, purtroppo, essa durò quanto la digestione di quella pantagruelica scorpacciata.

Infatti, pochi giorni dopo, la lotta riprese più accanita che mai tra guelfi e ghibellini.

Ma se sfumò la pace, restò la gloria dei testaroli. E, certamente, se Iacopo da Cassio, ripartendo da Pontelungo con le pive nel sacco, avesse portato con sè la ricetta di Frà Gorpino e avesse fatto servire alla mensa imperiale la piccante vivanda, il buon Imperatore Arrigo avrebbe sorriso con benevolenza al suo messo, malgrado l’insuccesso coi guelfi di Pontelungo.

L’atto originale con la ricetta dei testaroli, conservato per ordine di Iacopo da Cassio, nell’archivio del Comune, andò distrutto nell’incendio del 1495, appiccato a Pontelungo dagli Svizzeri di Carlo VIII. Ma ne è giunta, fino a noi, una copia autentica, nella quale, malgrado alcune corrosioni della pergamena, dovute al tempo e ai topi, si può ricostruire il testo dell’atto. Il quale dice così:

In nomine Domini, amen. Anno incarnationis eiusdem McccXIII, die XV mensis maii. Fra Gorpino – traduciamo liberamente dal grosso latino del notaio – cuoco emerito del convento di S. Francesco e indegno servo di Dio, per la delizia del popolo di Pontelungo rende di pubblica ragione la «regula» dei testaroli, da lui composta dopo molti anni di prove e, oggi, solennemente collaudata da tutto il popolo adunato a parlamento, in occasione della pace tra guelfi e ghibellini, alla presenza del magnifico Iacopo da Cassio, messo dell’Imperatore Arrigo ecc. ecc. Et haec est regula de conficiendis testarolis, secundum dictum Fratem Gorpinum:

Prepara una pastetta con farina bianca di ottimo grano e spalma il fondo di un «testo» di terra, prima riscaldato al fuoco, in modo da ricavarne una sfoglia sottile.

Cotta e tolta la sfoglia, taglia in piccoli riquadri, che metterai a rinvenire in acqua bollente.

Togli i riquadri dall’acqua e disponi a strati in un piatto; condisci, strato per strato, con buon pesto, fatto con basilico, poco aglio e molto olio d’oliva e cospargi con formaggio nostrano.

Questi sono i testaroli: servi ancora fumanti e aiuta il pasto con vin generoso.

Adnotatio: preferisci i «testi» fatti con terra nera di Castagnetoli.

Actum in Pontelungo, in prato apud Monasterium Sancti Francisci, presentibus venerabilis Padre Iuliano de Parma et caeteris Fratribus dicti Monasterii, necnon pluribus aliis testibus, coram Iacopo de Cassio, misso domini Imperatoris et toto populo de Pontelungo. Ego notarius ecc.»

Come fra Gorpino riuscì a trovare la ricetta dei testaroli? La storia non lo dice.

Ma, da quel giorno memorando, la gloria dei testaroli, solennemente e irrevocabilmente proclamata dal popolo di Pontelungo, adunato a parlamento, si propagò, trionfalmente, in tutta l’alta Valdimagra. E, da allora, quel piatto paesano delizia le case dei poveri e le dimore dei ricchi: pauperum tabernas, regumque turres, come avrebbe cantato il vecchio poeta latino.

Anche oggi, i testaroli sono l’orgoglio di Pontelungo. E se ancora, per le vie del borgo turrito, irrompessero in armi altri Enreghini e altri Filippi, pronti all’offesa, è certo che, davanti a un piatto trionfale di testaroli, offerto a scopo pacificatore, col debito ausilio di convenevoli vini, anche una volta si ripeterebbe il miracolo della pacificazione, come nel tempo antico, e non sarebbe sparso sangue fraterno.

Ma, oggi, chi si ricorda più di Frate Gorpino?

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: La ricetta dei testaroli
AUTORE: P. Da Pontelungo (Ferrari, Pietro)

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: Novelle di Valdimagra / P. da Pontelungo.
- Pontremoli : Artigianelli, 1944. - 226 p. ; 23 cm.

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)