In un’epoca che vedeva in scuole contrapposte i veristi e gli scapigliati alcuni scrittori seppero ritagliarsi uno spazio autonomo e originale anche se non tale da dare alla letteratura italiana pagine memorabili. Privo dei tratti fantastici di derivazione romantica tipici della scapigliatura e lontano quanto mai dal verismo è il ligure Barrili che con questo Diana degli Embriaci prosegue, dopo Castel Govone, la sua esperienza nel romanzo storico che arriverà al suo vertice migliore con I misteri di Genova (I rossi e i Neri).

La storia d’amore tra Diana, la bella figliola di Guglielmo Embriaco, e Arrigo di Carmandino si dipana tra la morte presunta del valoroso cavaliere durante la presa di Cesarea, il suo ritrovamento grazie a un salvataggio miracoloso da parte di un “infedele”, il tradimento del rivale che porta al rapimento della bellissima protagonista e la nuova impresa per poterla ricondurre felicemente in patria. Ma tutta questa vicenda d’amore sembra in realtà solo lo sfondo sul quale innestare la vicenda storica della partecipazione decisiva dei genovesi alla crociata di Goffredo di Buglione, il quale, accampato per mesi fuori di Gerusalemme, sembrava impotente senza la forza e l’inventiva dei 200 giovani combattenti agli ordini di Guglielmo Embriaco detto “Testa di Maglio”.

Il romanzo inizia con il ritorno dei genovesi in patria dopo la presa di Cesarea e termina con il vittorioso assalto alla città di Tortosa, guidato questa volta da Arrigo di Carmandino. Ma per tutto il testo Barrili sembra voler mettere l’accento costante sulla propria genovesità. Inizia descrivendo le cinte murarie dell’epoca – con qualche imprecisione che gli scusiamo perché non poteva essere al corrente di studi a lui successivi – e la Torre degli Embriaci, ancora oggi esistente, pur sapendo attualmente che si tratta in realtà della torre De Castro, mentre della vera torre degli Embriaci restano solo i blocchi del basamento.

Alla base della torre De Castro è posta ancor oggi la lapide che ricorda come la sua altezza sia sopravvissuta all’ordinanza del 1196 che imponeva a tutte le torri di Genova di essere “mozzate” all’altezza di 80 palmi (circa venti metri) mantenendo la sua originale altezza di 165 palmi. La descrizione della presa di Cesarea è narrata in prima persona dal primo degli annalisti genovesi, Caffaro di Rustico da Caschifellone, che di molte imprese di Guglielmo Embriaco fu testimone oculare e, anche lui, innamorato della bellissima Diana. Caffaro è tuttavia leale verso l’amico Arrigo, al contrario di Gandolfo del Moro che tradisce ma muore espiando il suo peccato.

Barrili trova modo di spiegare anche l’origine etimologia del “preboggion” – tipico minestrone di verdura del contadino genovese – che deriverebbe dal cuoco che esclamò per la sua estemporanea ricetta apprezzata dai crociati francesi “le preux Bouillon”.

Non mi nascondo che l’opinione di Benedetto Croce, che di Barrili salva solamente le memorie garibaldine, è certamente pertinente e argomentata. Croce mette in rilievo un’inutile “erudizioncella mitologica” che farcisce tante pagine dello scrittore e le battute “da farsa” che spesso caratterizzano i suoi dialoghi. La sua lingua, spesso severamente giudicata dai critici, in questo romanzo segna un’evoluzione, che fu infatti apprezzata. Peccato che per raggiungere lo scopo il Barrili indulga ad antipatici toscanismi (l’uso dell’avverbio “punto” nel significato di “per nulla”, “di molto” e troviamo persino un “dugento”…). Ma il romanzo resta una piacevole lettura se si riesce ad apprezzarne la semplicità, il suo collocarsi in un mondo irreale, quasi fossilizzato, che sembra esulare sia dal racconto fantastico che da quello realistico facendo perno soprattutto su un candore che non ha tempo. Ma è in questo modo che Barrili conserva la sua originalità, capace di non dover seguire le orme di nessuno.

Barrili fondò la sua eccezionale fortuna di narratore sul suo lungo tirocinio giornalistico che lo aveva persuaso della necessità di raggiungere non solo il ristretto pubblico delle persone colte ma quello più ampio della borghesia scolarizzata, lettrice dei quotidiani e delle appendici narrative. E infatti credo si possa dire che Barrili divenne maestro in questo campo e suoi romanzi, come anche questo Diana degli Embriaci, ospitati in prima istanza sulle appendici dei quotidiani, travalicano però gli stretti limiti nei quali questi “romanzi d’appendice” sono talvolta racchiusi e non risentono affatto del venire raccolti in volume. Questo proprio grazie alla capacità del Barrili di “non annoiare” come egli stesso teorizzò nel suo romanzo del 1881 Undecimo: non annoiare.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro:

Era il 20 di ottobre dell’anno 1101 dopo il parto della Vergine, giusta la frase notarile dei tempi, ed era una giornata bellissima, rallegrata da un cielo senza nuvole e dai tiepidi raggi di un sole che pareva di primavera. Miracolo, questo, che accade di sovente in Liguria, ove la limpidezza del firmamento e la mitezza del clima fanno credere talvolta che il vecchio Saturno, o chi per lui, volti a rovescio, non una, ma cinque o sei pagine del calendario.
Le case di Genova, biancastre nello intonaco delle mura e nelle lavagne distese sui tetti, splendevano a quel saluto amoroso del sole; ma più di tutte splendeva la torre degli Embriaci, la regina delle torri genovesi, superba de’ suoi cento e ventisei piedi d’altezza, delle sue pietre riquadrate alla foggia romana e del triplice giro delle sue caditoie sporgenti.
Ora, se i lettori benevoli si degnano di seguirmi su quella torre, che offre certamente la più bella tra le vedute della città, io farò loro assai volentieri da cicerone, e mostrerò che cosa fosse Genova, nell’anno di grazia 1101, cioè a dire centosettantasei anni dopo l’edificazione della seconda cinta di mura.
La prima cinta, siccome è noto, si ristringeva al colle di Sarzano (fundus Sergianus) e suoi dintorni, formando un quadrato irregolare, due lati del quale si bagnavano in mare, e gli altri due si prolungavano dentro terra, andando a chiudersi, verso tramontana, in cuspide di freccia, alla porta di Sant’Andrea, una delle cinque per cui si entrava in città. Senonchè, nell’anno 925, si conobbe che la vecchia cinta era strettina parecchio, di guisa che i cittadini già avevano incominciato a rizzar le case di fuori.

Scarica gratis: Diana degli Embriaci di Anton Giulio Barrili.