All’inizio del 1908 si ebbe la prima rappresentazione di La Nave di Gabriele D’Annunzio al teatro Argentina di Roma. Poco dopo fu rappresentata al S. Carlo di Napoli e in questa occasione Marrama, che firma con lo pseudonimo “Puck” questo suo libretto, pseudonimo che usava generalmente per firmare i suoi disegni e caricature, pubblicò con il suo editore preferito – che nel primo decennio del secolo scorso era l’editore di Matilde Serao – una simpatica parodia dell’opera dannunziana. Il grande scrittore e drammaturgo da sempre suscitava avversione e critica feroce presso una parte non trascurabile dell’ambiente culturale e letterario dell’epoca; in questa stessa biblioteca Manuzio possiamo leggere i due volumi dell’Antidannunziana di Gian Pietro Lucini e il caustico La superfemina abruzzese di Fr. Enotrio Ladenarda.

A un livello certamente più modesto si colloca questo La Nave di Marrama, che si limita, raccontando la vicenda della nota tragedia in 24 sonetti palesemente parodistici, a ridurre ai minimi termini la retorica ridondanza dell’oggetto della parodia. Certo che il D’Annunzio con questa sua opera si può dire che la parodia se l’era andata proprio a cercare… negli endecasillabi di questa tragedia riuscì a condensare – pur senza nulla togliere al valore artistico della sua poesia – il peggio delle sue caratteristiche, a cominciare proprio dalla singolare interpretazione della metrica specifica, per proseguire con un esercizio di magniloquenza atta a gonfiare la sua discutibilissima ideologia “superomista” (che deve questa volta fare i conti con una vera “superfemmina”); le sue invenzioni e immagini mai come questa volta appaiono come esercizio di magniloquenza fine a se stessa.

La vicenda, ambientata all’epoca della fondazione di Venezia, vale anche a ribadire, sia in apertura che in chiusura, l’idea imperialista dell’autore dell’Adriatico quale “mare nostro”. Nei 24 sonetti parodistici, preceduti dalla riflessione sul perché sia un “dannunziano” che un “antidannunziano” possano decidere di recarsi a teatro per assistere alla rappresentazione, Marrama riduce all’essenziale la narrazione della tragedia, vista con gli occhi di uno spettatore napoletano di media cultura dell’epoca. Per fare questo ricorre con dosaggio sapiente anche al dialetto, per cui già il nome dell’eroina Basiliola, – che deriva da un abile sintesi etimologica operata dal D’Annunzio – diventa nei sonetti del Marrama “Vasinicola”, – che in quasi tutti i dialetti del meridione significa basilico – sfruttando sia l’assonanza che l’etimologia simile.

La lotta fratricida, dovuta alle arti ammaliatrici di Basiliola, culmina nel sonetto XIX: “Erano frate… eppure se menajeno – cumm’a dduie cane […]” che termina con la morte di Sergio: “Sta venenno ‘a Croce Rossa! – Ce sta nu galantomo muorto ‘nterra!…” Le immaginifiche amplificazioni che caratterizzano il personaggio di Basiliola, paragonata da D’Annunzio a Dalila, Pasife, Mirra e Hogla si riducono nella parodia di Marrama a una ben più prosaica scelta di morte: “Vasenicola se mett ‘alluccà — Voglio mettere ‘a capa int’a pignata!”. Nell’ultimo sonetto non può mancare una “riflessione” ironica sulla “politica estera” dell’epoca, con la partenza della nave di Marco che va a pigliare “‘o munno sano. L’Austria ‘a tene mente – e, capirete bene, si risente, – ma che buò fa? Si deve rassegnare!…” E l’amaro che i due spettatori si bevono al termine della rappresentazione non può che essere un “amaro… Adriatico!”. In conclusione, la parodia del Marrama è certamente modesta, ma comunque atta a porre nella dimensione più corretta la vacuità dei sentimenti artificialmente gonfiati nella tragedia dannunziana.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro, il primo sonetto:

— Se ci vado, stasera? Veramente,
l’intenzione c’era. Vuie sapite,
quann’ a signora ‘ncoccia, che facite?
Ammucciate, accussì, senza dì niente.

Ma caro don Ciccillo, francamente,
cu chilli prezze, solo ca liggite
nfacci’ o cartello, vuie
ve ne fuggite;
quello vuol dire: Ccà se spoglia ‘a ggente!

‘A Nave, sissignore, sarrà bella,
ma quando avete speso un capitale
c’avite visto, po’? Na varchetella…

Si aggia dà venti franchi a mano a mano,
nun spèngo niente e vaco all’Arzenale,
e llà veco nu puorto sano sano…

Scarica gratis: La nave di Daniele Oberto Marrama.