Commedia in tre atti rappresentata la prima volta il 24 marzo 1920 al teatro Goldoni di Venezia e pubblicata a Firenze l’anno successivo; riprende il soggetto del racconto La veglia, del 1904, compresa nella raccolta Novelle per un anno.
Ci fu in realtà una prima rappresentazione al Sannazaro di Napoli di cui Pirandello cercò di impedire all’ultimo momento l’andata in scena, probabilmente ritenendo non adeguato il livello degli interpreti della compagnia di Gemma D’Amora. Non essendo riuscito nel suo intento l’autore la considerò come non mai avvenuta. Al teatro Goldoni di Venezia fu la compagnia Ferrero-Celli-Paoli a interpretare la commedia. Maria Laetizia Celli la mantenne in repertorio, sempre con grande successo, fino al 1923 e la riprese poi alla fine degli anni ’30.
Il tema dell’opera, caratteristico non solo del teatro ma anche delle trame narrative dell’autore, è quello dell’ambigua frattura tra identità reale e fittizia, quest’ultima assunta sulla pressione delle soffocanti convenzioni sociali ma tutt’altro che priva di risvolti dolorosi. Una gabbia in definitiva all’interno della quale si dibatte l’indefinito enigma dell’essere umano. Fulvia Gelli conduce una vita piuttosto disordinata, passando da una superficiale relazione all’altra ma con l’apparenza di vivere questa situazione non solo come una sorta di fuga dal comportamento del marito, abbandonato da tempo, ma come via di autopunizione. L’occasione per sviluppare le tematiche di ambiguità care all’autore nasce dal tentativo di suicidio di Fulvia, salvata dal marito medico chirurgo che però durante la convalescenza la rende nuovamente madre. La prima figlia, Livia, la crede morta. Nonostante l’intervento del suo ultimo spasimante, Marco Mauri, innamoratissimo di lei, Fulvia si decide a seguire il marito, spinta soprattutto dal desiderio di rivedere la figlia Livia. Per non turbare quest’ultima Fulvia si presenta come nuova moglie del dottor Gelli e assume il nome di Francesca. L’antipatia di Livia per colei che reputa un’intrusa venuta per provare a cancellare la memoria della madre rende il ruolo che Fulvia ha accettato estremamente difficile e doloroso da portare avanti. Livia scopre che il matrimonio tra “Francesca” e il padre non è in realtà mai avvenuto e questo scredita ancor più ai suoi occhi la figura dell’intrusa e ne esaspera il rancoroso astio. Ma alla resa dei conti Fulvia non riesce a trattenersi e smaschera la finzione; abbandona definitivamente la famiglia portando con sé la neonata e ritrovando il fedele Marco.
Incubi, ossessioni e dolori, la tipica mancanza di certezze che sembra caratterizzare il nostro tempo, è vista con sguardo quasi preveggente da Pirandello. La sua “realtà” gremita da ombre e fantasmi rende spesso indistinguibile mondo reale e mondo ideale. L’idea di “umorismo” tipica di Pirandello prende qui forma tramite il personaggio della zia Ernestina, che fu complice di Silvio Gelli nell’inventare la morte di Fulvia. Il suo incontro con Fulvia, che non riconosce, è uno dei pochi momenti della commedia nella quale le “unghiate veramente formidabili” – per usare le parole di Tilgher – sanguinano meno.
Dopo che non poté andare in porto la trasposizione cinematografica che avrebbe dovuto coinvolgere Marta Abba, primattrice del teatro d’arte di Pirandello, due film furono realizzati nel 1945 (The love of ours diretto da William Dieterle) e nel 1955 (Never say Goodbay diretto da Jerry Hopper) che sono in realtà veri e propri stravolgimenti dello spirito che anima la commedia.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit della commedia. Atto primo:
SCENA
Una sala della Pensione Zonchi: vasta sala di vecchia casa a cui l’intonaco nuovo non riesce a mascherar la vecchiaja. Un ampio e alto uscio a vetri nel mezzo lascia scorgere la scura saletta d’ingresso, che ha in fondo, a sua volta, un usciolino aperto sulla scaletta dell’orto, di cui si vede il pianerottolo con la ringhierina di legno verde, scolorita. Lo sfondo, oltre questa ringhierina, è di cielo, e luminoso, perchè la casa sorge alta sul colle e da quel pianerottolo si gode la vista della grande vallata e si dòmina la via che da essa sale al colle, girandolo due volte.
L’uscio a vetri, chiuso, non lascia più intravedere la saletta d’ingresso, perchè a una certa altezza ha sui vetri una tendina di mussola celeste, goffa e nuova, fissata rusticamente alle bacchette.
Nella sala, il solito arredo delle vecchie pensioni di provincia, disposto con meticolosa simmetria. Una stufa di porcellana; un canapè d’antica foggia, con poltroncine e seggiole imbottite, adorni di cuscini e ricamini fatti in casa; una mensola non meno antica con un grande specchio dalla grossa cornice rameggiata e dorata, coperta da una garza celeste, ingiallita, a riparo delle mosche; vasetti con fiori di carta; una cantoniera con ninnoli di vecchia majolica; oleografie volgari, un po’ annerite, alle pareti, e un’antica pendola che batte le ore e mezz’ore con un languido suono di campana lontana.
Usci laterali a destra e a sinistra.
Chiara mattinata, sulla fine d’aprile.
Scarica gratis: Come prima meglio di prima di Luigi Pirandello.