Il drago

di
Luigi Capuana

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— Uh! Il Drago!

Le due bambine, che s’erano messe a giocare presso il muricciolo del ponticello dove la zia le aveva appostate per chiedere l’elemosina ai passanti, alla vista del vecchio che arrivava a cavallo all’asino, s’erano subito rimesse a sedere, la maggiore sul muricciolo, la minore per terra; e ripetevano insieme sottovoce:

— Uh! Il Drago! Il Drago!

Don Paolo Drago – drago di nome e di fatto, diceva la gente – arrivato davanti a loro, si era fermato, trattenendo l’asino con una leggera tirata della cavezza.

— Che fate qui? — le sgridò; — tornate a casa, e dite a quella strega di vostra zia: Don Paolo non vuole che domandiamo l’elemosina! Tornate a casa.

E vedendo che le bambine non si movevano, fece una specie di grugnito minaccioso che le impaurì.

Infatti quella mattina finsero d’andare via zitte zitte, e allo svolto dello stradone si fermarono, aspettando che Don Paolo si fosse allontanato; poi, saltellanti, tornarono al loro posto, la maggiore sul muricciolo, la minore per terra: questa spettinata, scalza, con la camicia a brandelli; l’altra, scalza anche lei, ma un po’ più ravviata, col fazzoletto azzurro di cotone, a palline bianche, avvolto attorno alla testa.

Il Drago, come ordinariamente lo chiamavano, abitava di faccia a loro; e la sera, al ritorno dalla campagna, trovatele davanti all’uscio di casa, domandò alla maggiore, col tono burbero che gli era abituale:

— Dov’è quella strega di tua zia?

— È fuori di casa.

— Glie l’hai detto: Don Paolo non vuole che domandiamo l’elemosina?

— No.

— Glie lo dirò io.

E aspettò, alla finestra, che la vecchia ritornasse.

Brutta e sudicia, ella arrivava con un canestro vuoto al braccio, borbottando e trascinando la gamba storta. Don Paolo l’apostrofò di lassù:

— Come? Mandate quest’orfanelle a domandar l’elemosina? Non vi vergognate, stregaccia?

— Dategli da mangiare voi, — rispostò la vecchia, — voi che non date neppure una buccia di fava a un cristiano!

— Io non sono suo parente e non ne ho l’obbligo! Fossero almeno ragazzi!

— Andate all’inferno, voi e i vostri quattrini!

E la strega, fatto un cenno alle bambine perchè entrassero in casa, gli voltò le spalle e infilò l’uscio.

* * *

Due giorni dopo la stessa scena.

— Uh! Il Drago!

Le bambine s’erano rannicchiate una accosto all’altra, ma questa volta la maggiore tese timidamente la mano anche a lui, quasi per burla.

Il vecchio, fermato l’asino, disse alla bambina:

— Vieni qua, tieni; e tornate subito a casa. Oggi avete da mangiare.

Le porgeva mezza pagnotta, di quelle grosse e fatte in casa, che in Sicilia chiamano guasteddi.

La bambina spalancò gli occhi dalla meraviglia e non lo ringraziò.

— Se domani vi trovo di nuovo qui! — minacciò il Drago.

Che potevano farci le bambine? La zia voleva così. Si guardarono negli occhi, consultandosi.

— Andate, subito, andate! — brontolò il vecchio.

E questa volta andarono via davvero, portando intatta la mezza pagnotta alla zia.

Pareva incredibile. — Il Drago che faceva elemosina! Era dunque vicino a morire? — La vecchia zia si spiegò il caso a questo modo; ma la mattina dopo costrinse le bambine a ritornare al solito posto, per chiedere la carità. Finchè non potevano lavorare, dovevano guadagnarsi da vivere così.

Appena le vide, Don Paolo diventò un drago a dirittura.

— Di nuovo qui? Su, su a casa!

E siccome le bambine esitavano, così egli soggiunse:

— A casa! Vi accompagno io dalla strega!

E se le cacciò davanti; le bambine a piedi, lui a cavallo dell’asino, con le sopracciglia aggrottate, masticando parolacce all’indirizzo della strega.

La strega, che in quel momento si trovava seduta sullo scalino dell’uscio a far la calza, appena li vide in fondo alla via, si rizzò inviperita, e non attese che don Paolo parlasse, per urlare:

— Fatevi i fatti vostri, dragaccio! Che ve n’importa? Son figlie vostre, forse?

Ma don Paolo, che era una linguaccia anche lui, non si lasciò sopraffare; e senza scendere da cavallo, cominciò a vomitare vituperi contro la vecchia che non aveva coscienza e spingeva alla perdizione quelle due creature innocenti mandandole fuori il paese a chiedere l’elemosina, quasi non avessero nessuno.

Si era fatto un crocchio di donne e di operai attorno, che ridevano ma gli davano ragione.

All’ultimo la strega, che non era stata zitta e ne aveva dette a don Paolo di tutti i colori, avvicinandosegli con le braccia in alto e le mani aperte, spalancando tanto di bocca, gli urlò in faccia:

— Vi cuoce che chiedano l’elemosina? Mantenetele voi! Prendetevele! Campo a stento io e non so come fare. È assai che le tenga in casa a dormire!

E allora si vide un miracolo – come dissero poi tutti. Don Paolo saltava giù di sella, quasi volesse cavar gli occhi alla vecchia; e invece, afferrate per un braccio tutte e due le bambine cavava di tasca la chiave della porta, le spingeva dentro senza dire una parola, e poi rivolgendosi alla vecchia, che era rimasta lì come incantata, balbettava strozzato dallo sdegno:

— Strega! Strega! Sì, le prendo io!

Proprio un miracolo.

* * *

Da anni e anni il Drago viveva in quella sua tanaccia, facendosi tutto da sè. Due stanzoni al pianterreno, e quattro stanze affumicate al primo piano, per uno solo sarebbero state più che sufficienti; ma il pianterreno serviva da stalla, fienile, magazzino di grano, cantina, dispensa e ripostiglio d’ogni cosa; nè le stanze di sopra erano meno ingombre di oggetti impolverati e coperti di ragnateli. Vi si vedevano materasse abballinate e coltroni ammonticchiati sui tavolini; tavole da letto appoggiate contro il muro; trespoli di ferro che reggevano cataste di roba di cui non si capiva più nè il colore, nè la forma. Quadri anneriti dal tempo, stampe di diverse dimensioni, nere e a colori, di santi che il fumo aveva resi irriconoscibili, tappezzavano i muri, fra mensole gremite di bocce, boccette, boccettine, tazze, caffettiere, grattuge, insomma di arnesi disparati, ridotti inservibili dalla ruggine e conservati lì, allo stesso posto, sin dal tempo in cui gli erano morte, in meno di tre mesi, la moglie e le due figlie.

In fondo alle stanze, soltanto la camera da letto e la cucina erano un po’ ravviate. Egli viveva relegato colà, quasi le altre stanze non fossero sue, non permettendo mai che anima viva vi penetrasse, e uscendone di rado, quando non doveva andare in campagna, o alla messa la domenica mattina.

Le uniche creature viventi che abitassero con lui quella tana, erano l’asino e un gatto; l’asino, vecchio, spelato, con le orecchie basse e gli occhi cisposi; il gatto, magro, egualmente spelato per vecchiezza, e che, quando non si aggirava lentamente per le stanze miagolando con voce flebile, faceva le fusa su una seggiola, o su la catasta delle materasse o dei coltroni.

Don Paolo durava quella vitaccia da più di trent’anni, divenendo sempre più aspro, più burbero, più drago, come andavano notando i vicini. Oramai era ridotto un mucchio di grinze, bianco di barba e di capelli, un po’ curvo, ma rubizzo e agile più che non sembrasse a vederlo. E se qualcuno della sua età, incontrandolo, lo fermava per domandargli:

— Che fate, don Paolo?

— Aspetto la morte, — rispondeva. — Che altro posso fare?

Ed era vero. Si era visto vuotare la casa in tre mesi; il tifo gli aveva portato via moglie e figliuole, ed egli non aveva saputo più consolarsi di quella disgrazia. Diventato misantropo, drago, non aveva voluto più vedere nessuno, quasi moglie e figliuole gli fossero state ammazzate dalla gente. Abballinate le materasse, ripiegati i coltroni, disfatti i letti delle sue care creature, aveva buttato ogni cosa lì, alla rinfusa; e non aveva più toccato niente da anni e anni, senza occuparsi se i topi, le tignuole, la polvere, i ragnateli avessero rovinato coltroni e materasse.

Per chi dovevano servire? Non aveva parenti lontani, neppure dal lato della moglie. Così egli aspettava la morte, fra tutte quelle cose morte. E la sera, prima di andare a letto, recitando la corona, pregava per coloro che lo avevano lasciato solo solo, e invocava che venissero a prenderselo. Ma non arrivavano mai; s’eran scordate di lui!

Quell’anno però, a poco a poco, gli era entrata in mente la convinzione che la sua vitaccia sarebbe finita in autunno.

I segni erano evidenti, secondo lui. Non si sentiva insolitamente impietosire dalle miserie altrui! Quasi ne aveva rabbia e vergogna. Forse gli altri mostravano pietà e compassione per lui?

Lo chiamavano drago; e drago avrebbe voluto essere fino all’ultimo respiro!

Affacciandosi alla finestra per fumare la sua vecchia pipa di terra cotta, aveva notato le due orfanelle della strega, venute ad abitare da poco tempo lì di faccia, e il cuore gli si inteneriva per ricordi che egli credeva scancellati da un pezzo.

Era illusione della sua fantasia o realtà. Gli pareva che le due orfanelle raccolte dalla zia strega – non la chiamava altrimenti – somigliassero davvero alle di lui figliuole quand’erano state bambine. Ebbene, che doveva importargliene? Non erano perciò le sue figliuole. Quelle erano morte, e oramai se le erano mangiate i vermi della sepoltura nella chiesa dei Cappuccini. Che doveva importargli di queste qui?

Eppure, dalla finestra e fumando la pipa senza barattare una sillaba coi vicini che non gli rivolgevano la parola perchè sapevano che non rispondeva a nessuno, eppure le osservava mentre giocavano davanti la porta di casa loro, le covava con lo sguardo, mugolando sotto voce ogni volta che la stregaccia le prendeva a maltrattare:

— Ma che deve importarmene di costoro?

Se lo ripeteva, per vincere così quel senso di pietà e di commiserazione di cui si sentiva invadere con suo gran dispetto.

Poi, per parecchi giorni non le vide più. Dove erano andate? Che ne aveva fatto quella stregaccia? Era stato inquieto, irrequieto tutta la giornata affacciandosi più volte alla finestra, stizzito di tale assenza. Gli mancava qualche cosa. Almeno prima si distraeva, mentre stava a fumare la pipa alla finestra!

E la mattina che, andando in campagna, le aveva trovate fuori della città, sul muricciolo del ponte, a domandare l’elemosina, aveva sentito uno strano rimescolio in quel suo cuore indurito dalle disgrazie e dalla solitudine; ma la prima volta s’era limitato soltanto a guardarle con una occhiataccia, ed era passato oltre. Due giorni appresso però non aveva potuto frenarsi; gli era costato un grande sforzo il trattenersi dall’apostrofare la stregaccia della loro zia quando la sera, al ritorno dalla campagna, l’aveva trovata seduta su lo scalino della porta, con le bambine sdraiate per terra ai due lati, come due bestiole.

Quella notte aveva dormito male, pensando sempre alle poverine, brontolando parole contro la strega che le mandava a chiedere l’elemosina e voleva vivere alle loro spalle, senza fatica, stregaccia!

La mattina, mettendo il bardo all’asino, aveva continuato a pensare alle due sventurate prive di babbo e di mamma, che avrebbe trovate certamente sul muricciolo, anche dopo che aveva leticato per loro con la strega; e aveva preparato la mezza pagnotta per dargliela e rimandarle a casa, pur ripetendosi di tanto in tanto:

— Che deve importarmene? Non sono mie figlie! Le mie figliuole, laggiù ai Cappuccini, se le sono mangiate i vermi della sepoltura!

E tutt’a un tratto, quasi qualcosa d’indurito gli si fosse liquefatto nel cuore, quel giorno non aveva più resistito, e se le era cacciate avanti dentro casa, e aveva chiuso la porta in faccia alla strega e ai vicini.

* * *

Nell’andito, mezzo buio, le bambine non sapevano dove andare.

— Salite su, vengo subito! — aveva egli detto, addolcendo improvvisamente la voce.

E s’era arrabbiato contro l’asino che non poteva entrare nella stalla lì accanto perchè le bisaccia ripiene di grano glielo impedivano; egli, impaziente, non si accorgeva dell’ostacolo.

Le bambine, saliti due o tre scalini, si erano fermate ad aspettarlo, impaurite e tremanti di quel che era accaduto, e non senza un po’ di terrore di trovarsi sole nella misteriosa casa del Drago.

— Su, su, — egli brontolò vedendole lì. — Ora starete sempre con me. Quella stregaccia non dovrà vedervi neppur da lontano.

Le aveva prese per mano, una di qua ed una di là, e le aveva condotte per le stanze, accennando loro col capo gli oggetti accatastati:

— Quelli sono i letti. Ora li rizzeremo. Dormirete qui. Questa è la cucina. Quello è il forno. V’insegnerò a impastare e a infornare il pane. Tu staccerai la farina, — soggiunse rivolto alla maggiore.

Le bambine non rispondevano, stupite di quel che vedevano e di quel che udivano, assai più che non della scena di poc’anzi tra la zia e il drago; ma timide e rassegnate, quasi si stimassero di chi voleva prendersele da che non avevano più il babbo e la mamma; prima, della zia; ora, del Drago che le toglieva di mano alla zia.

— Come ti chiami? — egli domandò alla maggiore.

— Pina.

— E tu?

— Carmela.

— No: tu ti chiamerai Lisa da oggi in poi; e tu Giovanna.

Erano i nomi delle sue figliuole; e nel pronunciarli la voce del Drago tremava.

* * *

In due giorni la casa era irriconoscibile. In una stanza vedevansi già rizzati due lettini, uno accanto all’altro; e li aveva messi su il Drago, aiutato dalle bambine, che si erano divertite a dargli una mano come avevano potuto. Don Paolo, portate le materasse al sole su la terrazza, le aveva sprimacciate, e poi aveva rifatto i letti, cavando dal cassettone la biancheria un po’ ingiallita dal tempo. La prima sera però le bambine avevano dovuto adattarsi a dormire, vestite, su una materassa distesa sopra le seggiole; letto improvvisato, ma meglio del covile dove le faceva giacere la strega.

Don Paolo non pareva più lui, con quegli occhi sorridenti, con quel viso schiarito dalla inattesa felicità; andava, veniva, rassettava, ripuliva, spazzava, dicendo: — Lisa, fa questo: Giovanna, fa quello, — come anni addietro, quando le sue figliuole erano vive, e lui voleva vederle attive, affaccendate, mai con le mani in mano, perchè riuscissero buone massaie. Alla moglie pensava poco. Se la ricordava malaticcia, ridotta a non potersi muovere dal seggiolone dove passava intere giornate tossendo e lamentandosi dei cento malanni che aveva addosso; gli pareva che stesse meglio nell’altro mondo, dove non c’è tossi nè altre malattie.

Gli bastava d’illudersi che fossero risuscitate le figliuole; e per ciò chiamava a ogni momento:

— Lisa, Giovanna. Avete fame? Il pane è lì; e c’è anche del cacio.

Le bambine non sapevano decidersi a prenderseli da loro; e lui tirava il cassetto, cavava fuori la pagnotta, e ne tagliava due belle fette; tagliava anche due fettine di cacio e gliele porgeva, maternamente, sorridendo a vederle mangiare con tanto appetito.

— Ne mangio un boccone anch’io.

E mangiava insieme con loro. Si sentiva quasi ringiovanito.

* * *

Bisognava vestirle, calzarle; non poteva vedersele dinanzi con quei cenci addosso e i piedi scalzi; e perciò rovistava in fondo alle vecchie casse di noce scolpito, in fondo agli armadi per tirarne fuori abiti, biancherie e scarpe che non avevano veduto aria da tanti anni. Ogni vestito, ogni cencio gli ridestava in cuore dolcissimi ricordi, glielo riempiva di nuova tenerezza, quasi che le sue figliuole fossero tornate dall’altro mondo per rindossare tutta quella roba rimasta là ad attenderle; quasi lo sciorinarla all’aria e al sole fosse un segno di letizia e di festa.

Aveva teso delle cordicelle da un angolo all’altro della terrazza; e le bambine andavano e venivano per aiutarlo, a sciorinare ogni cosa, meravigliate di tante stoffe, di tante camicie e sottane che ora dovevano servire per loro, come il Drago ripeteva a ogni momento; liete di maneggiarle, di palparle, di prenderne possesso a quel modo, o provandosele addosso, e talvolta – quando il Drago non era presente – disputandosi anche la esclusiva proprietà di questo o di quel capo di roba, secondo i gusti e la preferenza per un colore o per un altro.

Intanto dovevano restar chiuse in casa con lui. Non voleva che si affacciassero alla finestra per non vedere la zia strega e non essere viste da colei. Si affacciava lui soltanto, per la solita pipata, ma senza guardare in istrada, senza rispondere alle vicine che gli domandavano: — Che fanno le bambine? — senza scomporsi se la strega rispondeva in sua vece:

— Se l’è mangiate il Drago; non lo sapete?

Neppure quando la stregaccia soggiungeva ringhiando:

— Se voglio, però, gliele faccio rivomitare intere intere!

Due volte egli aveva avuto la forza di trattenersi; alla terza, era scattato su, lasciandosi cascare la pipa di bocca:

— Dovreste vergognarvi di parlarne, stregaccia!

— Ah! Va bene. Fra strega e drago, ora vedremo chi la vince.

E buttatasi su le spalle la mantellina di panno scuro, la vecchia aveva chiuso a chiave l’uscio di casa, ed era andata via ciampicando minacciando con la testa e con le mani.

Dove poteva andare? Che poteva fargli?

Lo seppe la mattina dopo, mentre dava gli ordini alla sarta perchè acconciasse per le bambine certe vesti e certe camicie. Era venuto un usciere a nome del pretore.

— Che vuole da me il signor pretore?

— Credo debba parlarvi delle orfanelle; la tutrice le reclama.

— La tutrice?

— Sì, la loro zia.

Gli pareva un’enormità che colei fosse tutrice.

— È la sola parente — aveva soggiunto l’usciere.

— Ma io le ho raccolte per carità. Costei le mandava a chiedere l’elemosina!

— Lo so; venite a dirlo domani, alle nove di mattina, al signor pretore: io, povero usciere, eseguisco gli ordini.

Dalla rabbia, don Paolo poco dopo leticò con la sarta che non trovava modo di cavar due vestiti, quantunque per bambine, da una veste sola. La stoffa non bastava per le gonne e pei busti; e poi ci voleva la fodera nuova e il resto: dodici tarì nota 1 per lo meno.

— Tornate domani, — le disse bruscamente per finirla; — se non siete buona voi, chiamo un’altra.

E vedendo le bambine rannicchiate in un angolo, impaurite di quel che avevano udito dall’usciere, si mise ad accarezzarle:

— Dove volete stare, qui o dalla strega?

Le bambine non sapevano che rispondere.

— Dove volete stare, qui o dalla strega?

Glielo domandava con tono di voce così alterato dalla rabbia, dalla commozione e dal sospetto che il pretore potesse dar ragione alla strega e levargliele di mano, che le povere orfanelle stettero un po’ a guardarlo fiso fiso con tanto d’occhi, e subito si misero a piangere.

Allora don Paolo diventò proprio furibondo; e dalla finestra cominciò a sbraitare contro la strega, lasciandosi scappar di bocca parolacce di ogni genere, inviperendosi di più in più, come la vecchia – che non era persona da intimidirsi – rispostava, sbraitando anche lei parolacce d’ogni sorta, minacciandolo:

— Vi faccio una querela! Vi faccio una querela! Siatemi testimoni!

E si rivolgeva alla gente radunatasi a godersi lo spettacolo: don Paolo, che sembrava un predicatore sul pulpito; la vecchia, spettinata, rossa in viso, con quelle braccia agitate per aria e quella boccaccia spalancata, che era una strega a dirittura.

— Vi faccio una querela, dragaccio!

E la cosa sarebbe andata a finir male, se due vicine non avessero preso la vecchia per le spalle, rimproverandola: — Volete levar la sorte a quelle due creature? — e non l’avessero spinta dentro casa; e se mastro Rocco il falegname non avesse detto a don Paolo:

— Vi confondete con costei? C’è la giustizia che protegge le orfanelle.

Don Paolo, ritiratosi dalla finestra, trovate le orfanelle rannicchiate accanto all’armadio e col viso bagnato di lagrime si era improvvisamente raddolcito:

— Perchè piangete, sciocchine? Domani verrà la sarta, e verrà pure il calzolaio. Intanto infilatevi queste calze e queste ciabatte.

E si era messo a calzarle lui, come una mamma; e le bambine già ridevano, e andavano attorno sbattendo le ciabatte, che le impacciavano.

Quando mai avevano avuto scarpe ai piedi?

— Ora cuciniamo la minestra, — disse don Paolo. — Vieni qua, Lisa; tu che sei la maggiore accendi il fuoco. Sai accendere il fuoco? Sì? Brava. Vediamo. E tu, Giovanna, aiutami a pulire la cicoria. Si fa così.

* * *

Le aveva messe a letto ed era andato a letto anche lui, dopo aver governato l’asino e rigovernato da sè piatti e pajuolo per non affaticare le piccine; ma non poteva dormire.

Aveva la testa al pretore; rimuginava quel che avrebbe dovuto dirgli; e parlava ad alta voce; quasi fosse davanti a quel funzionario e discutesse con lui. E si fermava su la possibilità che la legge gli dèsse torto; infatti la tutrice era colei, la sola parente.

— Bella legge! Dà la pecora in bocca al lupo! — brontolava.

E s’arrabbiava con sè. Perchè s’era messo in questo impiccio? Che doveva importargliene delle bambine? Erano forse sue figlie? La legge vuol darle alla strega? E glie le dia!

Ma pensando e brontolando così, si sentiva una stretta al cuore.

Da che le aveva in casa, non le stimava più sangue altrui. Lui, la sua casa, tutto era tornato a rivivere con quelle due creature, che ora gli sembravano più che mai il ritratto delle figliuole morte. Se la legge gliele avesse tolte di casa, egli non avrebbe potuto più vivere.

— Volete ammazzarmi dunque, signor pretore? Volete buttare in mezzo alla strada queste povere creature?

No; avrebbe ricorso, avrebbe messo sossopra mezza Sicilia, se il pretore commetteva quell’ingiustizia. Non c’era stato uomo al mondo che gli avesse mai fatto, a lui, don Paolo, una soverchieria; e questa sarebbe stata proprio una soverchieria della strega. No! No!

— Domani, prima che dal pretore, andrò dall’avvocato. Ora le orfanelle sono mie; sono le mie figlie, Lisa e Giovanna! Ah, vorreste dunque farmi morire di crepacuore, signor pretore?

E si levò dal letto per andar a baciare le bambine che già dormivano.

* * *

— Perchè volete prendervi questa gatta a pelare? — gli aveva domandato il pretore.

— Perchè?

E don Paolo era rimasto un po’ scombussolato, non sapendo che dire. In quel punto non pensava nè alle bambine, nè alle sue figlie morte, una a vent’anni e l’altra a diciotto, nè alla carità, nè a se stesso: pensava soltanto alla strega che gli aveva lanciato la sfida: — Fra strega e drago vedremo chi la vince! — Ma questa non gli pareva ragione da dire al pretore, quantunque gli sembrasse la sola ragione in quel punto.

— Perchè? — ripetè don Paolo.

— Non lo sapete neppure voi.

Don paolo scoppiò:

— Ah! dunque la legge vuole che quelle due povere creature vadano in perdizione? Io le raccolgo per carità, le strappo di mano alla stregaccia della zia che le manda a chieder l’elemosina per vivere alle loro spalle, e che farà peggio quando le poverine saranno cresciute; e la legge, viene a dirmi: restituitele alla tutrice! Chi l’ha fatta questa legge da turchi? E voi, signor pretore, potete ora avere il coraggio di essere più turco della legge?…

Si arrestò, alla risata del funzionario messo di buon umore da quest’apostrofe; ma subito riprese e più accalorato di prima:

— Sì, sareste più turco della legge, se vi prestaste a favorire la stregaccia! — Sono vecchio, posso essere vostro padre, e ho il diritto di parlare così. — Eh!… Fate pure come vi pare e piace, giacchè viviamo sotto una legge peggiore di quella dei turchi! C’è Domeneddio lassù; provvederà lui. Fate, fate pure! Ora vado a prendere le orfanelle, e le conduco qui. Le consegno alla legge; a questa bella legge da turchi!…

E levatosi da sedere, cercava il cappello, non rammentando che lo aveva lasciato nell’anticamera; e si asciugava gli occhi, di nascosto del pretore, brontolando quasi con singhiozzi: Legge da turchi! Legge da turchi!

— Sedetevi, e ragioniamo tranquillamente, — gli disse il pretore, che frenava a stento le risa, additandogli la seggiola lì accanto. — Convocherò in settimana il consiglio di famiglia… Vedremo…

E così don Paolo Drago ebbe una settimana d’inferno, come diceva alle persone che lo interrogavano. vedendolo andare attorno insolitamente.

— Una settimana d’inferno, e per fare del bene!

Ma l’aveva spuntata.

E il giorno che il pretore gli disse: — Ora il tutore siete voi! — Don Paolo piangeva di contentezza, e volle per forza baciargli la mano.

Tornato a casa, alla vista delle orfanelle che mondavano il frumento su la tavola, come egli aveva lasciato ordine, s’era sentito così intenerire, da non poter pronunziare una sola parola; e per non farsi scorgere, era andato di là, aveva caricato la pipa con le mani che gli tremavano dalla commozione, e si era affacciato alla finestra, sodisfatto come un papa, mandando fuori boccate di fumo che parevano nuvoloni, sputacchiando su la via; e intendeva sputare addosso alla strega, a cui il pretore aveva detto: — Badate di tener chiusa cotesta vostra boccaccia, o mando il brigadiere per chiudervela!

Il pretore aveva raccomandato di star zitto anche a lui, per non provocarla e non irritarla.

E perciò egli stava zitto; sputare non significava provocarla. La finestra era cosa sua; vi aveva fumato sempre, e voleva continuare a fumarvi finchè campava. E se la strega crepava di rabbia, peggio per lei!

Quella volta, contro il suo solito, don Paolo fece doppia pipata.

* * *

Le bambine non si riconoscevano, vestite a nuovo e ben calzate; vestite a nuovo, cioè, con la stoffa di due vesti delle sue povere figliuole, adattate alla meglio dalla sarta, che aveva trovato modo di cavare le gonne da una e i busti dall’altra. Così l’illusione per don Paolo era completa; Lisa e Giovanna gli parevano proprio risuscitate, ora che vedeva quelle creaturine con quei panni, e lavate e pettinate e ravviate sotto la sua direzione ogni mattina.

— Tu, Lisa, spazza le stanze. Tu, Giovanna, spolvera i mobili e ogni cosa.

Le bambine eseguivano, zitte zitte, ancora intimidite dalla presenza del vecchio, ancora sbalordite di quel cambiamento di condizione.

— Nonno, ho finito di spazzare.

— Nonno, ho finito di spolverare.

Lo chiamavano nonno, con la parola rispettosa e piena di affetto che si usa in Sicilia verso le persone di età.

— Brave!

La domenica le conduceva a messa, vestite a festa con due altri vestiti di stoffa migliore, riadattati anch’essi, e due scialletti di lana nuovi, perchè quelli delle sue figliuole se li erano mezzo mangiati le tignuole e non si potevano usare.

— Pregate per la salute del povero nonno, figliuole mie!

E si indignò contro la strega, una domenica che Lisa gli domandò:

— Che dobbiamo dire?

— Il paternostro, l’avemmaria.

— Non li sappiamo.

Ah, stregaccia! Non gli aveva neppure insegnato l’avemmaria e il paternostro! Le faceva crescere come due animaletti, purchè sapessero chiedere l’elemosina, stregaccia!

E tornato a casa, si sedette, se le mise fra le gambe, e con le mani su le spalle delle bambine, incominciò a insegnargli quelle preghiere:

— Dite come dico io.

* * *

Ma spesso, la notte, appena entrato in letto, gli venivano in mente, insistenti, le parole del pretore:

— Perchè volete prendervi questa gatta a pelare?

Sentiva tutto il peso della responsabilità assunta, e tornava ad arrabbiarsi con se stesso, come l’altra volta. Prima non aveva pensieri, era tranquillo; casa e campagna, casa e chiesa, ecco la sua vita. Ora, quando metteva il basto all’asino, quasi aveva rimorso di allontanarsi di casa per mezza giornata; e in campagna, invece di aver la testa ai lavori e badare ai contadini, pensava alle bambine rimaste sole sole e non vedeva l’ora di tornare in città. Insomma aveva perduto la sua bella pace; non era più libero. Il pretore aveva ragione: perchè aveva egli voluto prendersi quella gatta a pelare?

E si sentiva stanco dalle fatiche della giornata, e se gli doleva un po’ il capo, o la tosse lo tormentava, s’arrabbiava di più. L’idea di dover morire e dover lasciare abbandonate di nuovo alla loro mala sorte quelle poverine, lo faceva smaniare. Prima sarebbe stato felice di andarsene all’altro mondo, a dormire accanto alla moglie e alle figliuole nella sepoltura dei Cappuccini. Ogni sera, recitato il rosario alle sue care morte, si raccomandava: — Venite a prendermi; che ci faccio più qui, senza di voi? — Ora invece… ora non poteva più morire tranquillamente. Come sarebbero rimaste quelle lì? Quand’anche gli avesse lasciato tutti i suoi beni… Che ne avrebbero fatto? Chi le avrebbe garantite, chi le avrebbe difese dalle male persone? Ed ecco il bel risultato della sua carità!… Il pretore aveva ragione: perchè aveva egli voluto prendersi quella gatta a pelare? Vecchio rimbambito, che non era altro!…

E si voltava e rivoltava nel letto, brontolando.

Già questa insonnia era un cattivo segno. Quando mai gli era accaduto di entrare in letto e non addormentarsi subito?

Ah, ah, credeva di dover campare quanto Matusalemme!… Quasi ci fosse qualcuno che potesse levargli i settantadue anni d’addosso!… E per ciò s’era presa quella gatta a pelare!

Oramai le parole del pretore erano diventate un ritornello per don Paolo.

Infine, se si rammaricava di dover morire – il Signore lo vedeva! – se ne rammaricava soltanto per le povere orfanelle… Oh, sì, il Signore e la Madonna Santissima dovevano farlo campare almeno un’altra decina d’anni. Che ne avrebbero fatto lassù in paradiso, che avrebbero fatto di un vecchio catarroso come lui? Non gli bastavano le tre anime giuste che s’erano prese tutte a una volta? Campando, egli avrebbe assestato le bambine, le avrebbe maritate, con la dote, ora che si potevano dire proprio sue figliuole; e allora… allora avrebbe chiuso gli occhi in santa pace. Non chiedeva altro. Ci voleva forse un miracolo per farlo arrivare a ottant’anni?

Ripeteva ogni notte le stesse cose; e le rimuginava nella giornata, quando si vedeva attorno le orfanelle che spazzavano, ravviavano, ripulivano, come due donnine, vispe, allegre, attente a eseguire gli ordini, e che già facevano parecchie cosette anche da sè, senza bisogno che il nonno le suggerisse.

* * *

Egli s’affrettava ad addestrarle, per paura che gliene mancasse il tempo.

— Lisa, vieni qua; t’insegno a stacciare.

Aveva preparato la madia su le panchette di legno, e vi aveva riversato dentro un bel mucchio di farina.

— Questo qui è lo staccio per la crusca. Guarda: si prende così, e si scote, girandolo torno torno fra le mani; la crusca che rimane nello staccio si versa nel moggio; serve per l’asino. Questa estate poi, avremo in istalla un porcellino; la crusca allora servirà per lui. A Natale, lo ammazzeremo, e faremo le salcicce e i salami.

Rideva, pensando al porcellino; e intanto stacciava, stacciava ripetendo:

— Hai capito? Si prende così, e si scote girandolo torno torno fra le mani. Vediamo se riesci; ma prima avvolgiti un fazzoletto alla testa.

Le panchette della madia erano troppo alte e Lisa non ci arrivava.

— Aspetta; ti metterò qualcosa sotto i piedi.

Don Paolo la sorvegliava, la incoraggiava. — Brava! Bene! — e aveva le lagrime agli occhi.

— Tu intanto, Giovanna, fa fuoco sotto il paiolo, per scaldare l’acqua; impasteremo il pane; impasterai anche tu. Devi essere massaia quanto la sorella. Quando sarai cresciuta di qualche anno, staccerai la farina; come lei. Nell’acqua si mette il sale; perchè il pane sia saporito.

Per le bambine tutto quel tramenìo era un divertimento, ma don Paolo ci godeva più di loro; e dava un’occhiata ora a Lisa, già tutta sparsa di farina sui vestiti e sul viso, ora a Giovanna che stentava a spezzare i ramoscelli secchi di ulivo per alimentare il fuoco sotto il paiuolo.

— L’acqua bolle. Bisogna far la massa. Sbracciatevi fino al gomito.

Radunò con le mani tutta la farina nel centro della madia e vi fece in vuoto in mezzo; poi intinse il boccale nel paiuolo e versò l’acqua in quel vuoto.

— Bada! Ti scotti.

Lisa aveva steso le mani, ma egli la trattenne. Poi, cavatasi la giacca, si era sbracciato anche lui; voleva insegnarle con l’esempio.

— S’intride in questo modo, a poco a poco; poi si aggiunge altr’acqua, e si torna a intridere. Ora che la massa è fatta si lavora coi pugni, per renderla soda. Su, mettetevi qui tutte e due: ne faccio due pastoni, uno grande e uno piccolo. Su! Io intanto preparo la gramola.

E le bambine affondavano allegramente le pugna nei pastoni, pigiavano, avvolgevano la pasta, ripigiavano, e si davano spinte e gomitate per ridere, scommettendo a chi facesse più presto rubandosi a vicenda un po’ di pasta per aggiungere al proprio pastone.

— Come Lisa e Giovanna, Dio le abbia in gloria! — pensava don Paolo, intenerito dal grazioso spettacolo e dai ricordi.

— Basta: lasciate fare un po’ a me — disse all’ultimo.

E ridotti i due pastoni in uno, lo arrotondò, lo allungò, lo ripiegò, ne fece un bel pastone corto corto, spargendo di tanto in tanto poche stille d’olio nel fondo della madia, perchè la pasta non s’appiccicasse. E quando fu pronto lo levò di peso e lo depose in mezzo alla gramola. Egli sedette a cavalcioni, da cima, dove la stanga s’impernia nelle assicelle ritte, e disse:

— Voi, una di qua e una di là, alzate e abbassate la stanga; al pastone bado io.

E per cinque minuti s’intese soltanto il rumore del pernio della stanga, menata su e giù dalle bambine che ridevano, quasi facessero il chiasso, mentre don Paolo girava di qua e di là il pastone, ne ricacciava in dentro lestamente con le mani le coste, rimettendolo sempre in centro sotto la stanga che lo induriva, finchè non gli parve il momento di gridare:

— Fermate!

Allora cominciò un altro chiasso, con le pagnotte da arrotondare e schiacciare.

— Questa è per me.

— Questa è pel nonno.

— Pel nonno, figliuole mie, ci vogliono le focacce. Le faremo dopo. E questa volta il pane lo manderemo a cuocere dalla fornaia.

Le bambine erano accese in viso, sparse di farina con le mani e le braccia impiastricciate di pasta. Don Paolo le avrebbe baciate, se i baci non gli fossero parsi segni di tenerezza eccessiva. E un po’ burbero, per frenare la loro vivacità, brontolò:

— Via, via; lavatevi mani e braccia, e spolveratevi bene!

Ogni giorno, una lezione pratica. Don Paolo sapeva fare tutto, fin la calza, e voleva insegnargli ogni cosa, da sè; non gli piaceva vedersi gente estranea fra’ piedi. E se qualcuno, interrogandolo intorno alle pupille, gli diceva:

— Perchè non le mandate a scuola?

— A scuola? — rispondeva quasi arrabbiato. — Le mie figliuole non sapevano leggere, ed erano donne di casa. Ora, riducono le bambine tante dottoresse… Ma che vale? Non sanno imbastire una calza, nè fare un rammendo, nè cucinare una minestra! La scuola è per le principesse.

Su questo punto Don Paolo non intendeva ragione.

— Io sono della pasta antica, — aggiungeva. — Allora si sapeva leggere meno, ma si era più galantuomini. Non è vero forse?

Inutile tentare di convincerlo. Voleva agire all’antica.

* * *

Di tanto in tanto, per far svagare le bambine, le conduceva in campagna, a Doguara, nel fondicello tutto piantato a olivi e mandorli con un po’ di vigna su la costa; o a Pietra-che-suona, dove seminava grano, fave, ceci, ed era la dote della moglie. Doguara sarebbe stato di Lisa, Pietra-che-suona, di Giovanna, se se lo meritavano, se crescevano buone, virtuose, e massaie come voleva lui.

Le notti che non poteva dormire, pensava spesso al testamento che occorreva fare perchè le orfanelle, alla sua morte, non si ritrovassero in mezzo d’una via, e la roba non se la prendesse il fisco, poichè egli non aveva parenti vicini nè lontani.

Ma non sapeva risolversi; andare dal notaio e mettere in carta le sue ultime volontà gli pareva mal augurio.

Che fretta aveva? S’era consultato però col canonico suo compare che aveva battezzato Lisa, e quel servo di Dio gli aveva risposto ridendo:

— Volete dunque comprarvi un bel pezzo di paradiso? Fate bene, compare.

Ma non occorreva aver fretta; il paradiso era grande, ne avrebbe trovato sempre un pezzetto per sè e per la moglie e le figliuole, caso che esse stessero ancora in purgatorio. Per suffragio di quelle anime benedette non faceva dire tre messe ogni anno, il giorno dei morti?

No, non occorreva aver fretta; intanto stava sempre con l’animo sospeso. La morte arriva quando meno ce l’attendiamo; non manda l’avviso avanti. Chi ha tempo, non aspetti tempo…

Ne conveniva: ma l’idea del mal’augurio gli si metteva per traverso, e gl’impediva di prendere una risoluzione.

Per questo rimase proprio atterrito la mattina che gli dissero:

— È morta la sciancata. Siete contento?

Lui la chiamava la strega, ma tutti gli altri la sciancata.

Piena di salute, grassa e ben pasciuta, era morta d’accidente, in un minuto.

— Dio le perdoni! — esclamò: — Dio le perdoni il male che voleva fare alle orfanelle!

Quella morte però gli era parsa un ammonimento. Se l’accidente fosse venuto a lui? Per scacciar via quel tristo pensiero, si faceva il segno della santa croce. E la sera, disse alle bambine rimaste mute all’annuncio:

— Recitiamo il santo Rosario per l’anima della…

Stava per dire: — della strega — ma subito si corresse. E fu la prima e l’ultima volta che gli accadde di chiamare zia colei.

* * *

No, non voleva morire ora che anche la casa pareva rifiorita per la bella imbiancatura recente, per l’ordine, per la pulizia, con la terrazza piena di graste di garofani, di menta, di basilico, e quel gelsomino che s’arrampicava alla parete, ricordo di Lisa che gli voleva tanto bene, e lo annaffiava, lo ripuliva delle foglie secche, e lo aveva potato di sua mano pochi giorni prima della disgrazia. Quel gelsomino don Paolo lo aveva curato tant’anni, raccogliendone i fiori e conservandoli in un cartoccio, quasi fossero stati qualcosa sopravvivente della sua povera figliuola.

Ingrossato nel tronco, si era arrampicato coi rami ai sostegni di canna; ma ora sembrava sentisse anche lui il soffio di vita che rianimava tutta la casa, e verdeggiava e fioriva per festeggiare la nuova Lisa, come non aveva verdeggiato e fiorito da un pezzo.

— Il gelsomino è di Lisa, — diceva don Paolo a Giovanna.

— Perchè? — domandava la bambina un po’ ingelosita di quella particolarità.

— Perchè si chiama Lisa. Sono tuoi i garofani, il basilico, la menta.

— Ma lo innaffio anch’io.

— No, deve innaffiarlo lei, soltanto lei.

Voleva procurarsi tutte le illusioni, povero vecchio. Tanto più che l’autunno gli metteva in cuore una gran malinconia, come l’anno passato, quando s’era immaginato che quell’autunno dovesse essere l’ultimo di sua vita. S’era ingannato; invece gli era anzi capitata la buona fortuna di quelle due bambine.

— Vuol dire che il Signore mi darà tempo di tirarle su queste due creature; è giusto che sia così.

Tentava di confortarsi a questo modo; e si stizziva ogni volta che suo compare il canonico, a cui aveva parlato del testamento, glielo rammentasse, e lo esortasse a farlo subito, per non pensarci più.

— O che sono coi piedi nella fossa? — rispondeva.

Si sentiva bene, con le gambe solide. Aveva badato alla vendemmia e al raccolto degli ulivi, come un giovane di vent’anni; ora preparava la seminagione del grano e delle fave, e non poteva occuparsi del testamento; ci pensava e ripensava però, voleva maturarlo. Se ne sarebbe riparlato insieme, nel prossimo inverno, dopo Natale.

— O che sono coi piedi nella fossa?

E a proposito di Natale, si rammentò che l’anno scorso i suonatori della Ninnareddanota 2, nelle notti della Novena, non erano venuti a suonare sotto le sue finestre; disabituati, dopo tanti anni, non si rammentavano più ch’egli esistesse al mondo. Ma ora che aveva in casa le bambine, egli voleva suonata la Ninnaredda sotto le finestre, come tutti gli altri; poteva regalare i suonatori meglio degli altri, la vigilia di Natale, quando sarebbero venuti a casa sua, di giorno, com’era costume. Dolci, càlia, vino… e il vino quest’anno era proprio di quello!

Il primo giorno della Novena appunto, aveva incontrato i suonatori che accompagnavano un Bambino Gesù di cera, toccato in sorte a una vicina nella chiesetta delle Orfanelle. Che festa mettevano per la via quei tre violini e il contrabasso, fra una trentina di ragazzi che li precedevano e li seguivano, allegri, saltellanti, quasi che il Bambino Gesù fosse toccato a loro!

E mentre i suonatori passavano davanti la porta di casa, don Paolo, che faceva ferrare l’asino, accennato a mastro Gaetano e a mastro Neli, sorridendo, e aveva gridato per farsi sentire bene:

— Non vi scordate di me!

I suonatori tirarono innanzi senza rispondere, borbottando qualcosa tra loro, continuando a grattare i violini. Ma egli si era persuaso che avessero capito. E per ciò la sera, dopo cena, mentre le bambine si disponevano ad andare a letto, le aveva avvertite:

— Questa sera, quando sarà il momento, vi sveglierò io. Domani poi, con vino cotto e miele e farina, impasteremo i mostaccioli pei suonatori, e faremo la càlia.

Spogliandosi, Lisa disse a Giovanna:

— Io non m’addormenterò.

— E neppure io.

Ma don Paolo, che le aveva udite dall’altra stanza soggiunse:

— Addormentatevi. Vi sveglierà il nonno.

— Fingiamo di dormire, — sussurrò Lisa all’orecchio di Giovanna.

— Sì, sì!

E finsero così bene, che si addormentarono profondamente.

* * *

Don Paolo, aspettando i suonatori, si era messo ad acconciare la cavezza dell’asino, e si godeva anticipatamente il piacere del1a. svegliata delle bambine alle prime note della Ninnaredda.

I suonatori non si facevano sentire nè da vicino, nè da lontano, ed era quasi mezzanotte. Dovevano aver cominciato il giro dall’altra punta del paese. Poveretti! Andare attorno con quel freddo e suonare con le mani intirizzite non era un divertimento; ma alla fine della Novena potevano spartirsi un bel gruzzoletto, una catasta di dolci, parecchi sacchi di càlia, senza contare il vino! Poveretti! Quei regali erano proprio ben guadagnati!…

— Ah! Eccoli

Si sentiva, a volte sì, a volte no, secondo il vento, il grugnito del contrabbasso, ma lontano assai. Don Paolo s’impazientiva delle troppe fermate, e rifletteva che nella sua via essi non avevano molte case sotto cui arrestarsi: dal dottor Cipolla, dai Carcò, dal notaio Miani, e poi da lui.

— Oh!

Ora si udiva benissimo, oltre il suono del contrabbasso, anche quello dei violini; don Paolo si sentiva intenerire. E appena si persuase che i suonatori erano già sotto la casa del notaio Miani, posò per terra la cavezza, si levò da sedere, aperse l’uscio della camera delle bambine e aspettò per svegliarle.

— Come saranno contente!

Gli pareva che i suonatori lo facessero apposta indugiando colà. Non era bastata la Ninnaredda! Attaccavano anche una suonatina allegra!

— Faranno lo stesso qui sotto, — pensava.

Nel silenzio della notte si sentiva sul selciato il rumore delle scarpe grosse, e le voci dei suonatori che parlavano fra loro e ridevano…

— Ora si fermano…

Invece, con gran rabbia di don Paolo, i suonatori erano passati oltre. Egli tremava dall’indignazione per quel dispetto, sperando d’ingannarsi finchè il rumore dei passi, ancora vicino, potè illuderlo un istante; poi, con le lagrime agli occhi, guardò le bambine che dormivano, e tese i pugni, minacciando quei pezzi di ubbriaconi!

— E la Ninnaredda? — domandarono le bambine la mattina appresso.

— Come? Non ve ne rammentate, dal gran sonno? — rispose don Paolo, sforzandosi a ridere. — Eppure io vi ho svegliate.

E andò a fare una lavata di capo a mastro Gaetano:

— Vi pagherò meglio degli altri! Capite? Ora ci ho le bambine.

* * *

La notte di Natale aveva voluto condurle a vedere il presepe e a sentire la messa di mezzanotte. Piovigginava, tirava vento; ma la chiesa era lì a quattro passi, e don Paolo non aveva creduto di commettere un’imprudenza, all’età sua, con quel tempaccio. Per tenere deste le bambine fino alla mezzanotte, s’era messo a giocare all’oca con loro, usando la gentile malizia di contar male i propri punti perchè il perditore fosse sempre lui, e fingendo, ogni volta, di arrabbiarsi contro la disdetta:

— Santo Dio! voi mi spogliate.

La posta era di venti nocciuole, ma egli invece pagava un soldo; e le bambine ridevano, vedendosi accumulare davanti tante belle palanche, mentre i loro mucchi di nocciuole rimanevano intatti.

— Santo Dio, voi mi spogliate! Questo è l’ultimo soldo.

E don Paolo faceva atto d’arrovesciare una tasca.

— No, ce n’è ancora un altro.

Ce n’era sempre qualcuno in questa o in quella tasca. Lisa contava i suoi; quindici! Giovanna contava dall’altra parte: dodici!

— Oh!. ecco le campane. È il primo segno per la messa cantata.

Nel silenzio della notte le campane squillavano allegre, annunziando gloria in cielo e pace in terra; e già cominciava per la via il via vai della gente.

— Al secondo segno, andremo in chiesa.

Intanto aveva continuato a lasciarsi spogliare, come diceva. Aveva anzi finto di dover giuocare sulla parola, perchè non possedeva più un soldo spicciolo. Poi tirate fuori due mezze lirette di argento, aveva detto serio serio:

— Se mi vincete pure queste qui, domani non potrò fare la spesa.

— La faremo noi, — aveva risposto Lisa, ridendo.

— Brava!

E don Paolo si era lasciato spogliare anche delle due mezze lirette d’argento, prima che le campane suonassero il secondo segno.

In chiesa c’era folla, e gran confusione; la gente arrivava a frotte; un pecoraio strillava la Ninnaredda con la cornamusa, intanto che i sagrestani accendevano i lumi dell’altare. Il vento e la pioggia scotevano i vetri delle grandi invetriate; dalla porta, continuamente aperta, penetravano sbuffi d’aria umida e fredda, ma dentro si scoppiava dal caldo.

— C’è da prendere un malanno all’uscita! — rifletteva don Paolo.

E infatti egli lo prese: tosse e febbri, febbri e tosse. Da prima non aveva voluto mettersi a letto, nè far chiamare il medico; ma poi aveva dovuto persuadersi che lo stare in piedi era peggio.

Pure aveva aspettato fino a tardi e si era coricato l’ultimo, per illudersi che non si metteva a letto come malato.

La mattina dopo però non aveva avuto la forza di levarsi; e svegliate le bambine, aveva detto:

— Andate del dottor Cipolla, qui vicino; ditegli che venga a farmi una visita; prendete la chiave della porta di casa.

E quando aveva inteso il rumore della porta chiusa dalle bambine, s’era sentito solo solo, abbandonato; e tutti i terrori della notte precedente gli erano piombati addosso.

— Questa volta è finita! — ripeteva. — Questa volta non c’è più rimedio! Invece del medico, perchè non mando a chiamare il notaio?

No, no: gli pareva quasi impossibile che Gesù Bambino volesse ripagarlo in quel modo della messa andata a sentire a mezzanotte, ripagarlo facendolo morire. No, Gesù Bambino misericordioso si sarebbe ricordato delle orfanelle che rimanevano senza aiuto e senza guida, se il loro tutore era portato via dalla febbre e dalla tosse che gli toglieva il respiro.

Il dottor Cipolla, lungo, lungo, lungo, magro e stecchito, col bastone sotto braccio, aggiustandosi a ogni po’ le punte del colletto della camicia, era entrato sorridendo, senza togliersi il cappello a staio perchè aveva paura d’infreddarsi, e s’era fermato in piedi davanti al letto.

Lo chiamavano San Pantaleone chi sa perchè, forse per la statura, quasi quel San Pantaleone indicasse qualcosa di spropositamente alto col semplice suono delle sillabe.

— Sedete, dottore! sedete! — disse don Paolo, con voce lamentosa, interrotta da colpi di tosse.

Non poteva vederselo davanti, ritto in piedi, con quella tuba in testa che toccava la volta della camera, e il collo incastrato nell’alto colletto che non gli permetteva di abbassare il capo.

— Sedete, dottore!

Temeva che la sua voce di malato non riuscisse ad arrivare fino a lassù, sotto la tuba, e penetrargli dentro gli orecchi sempre turati con la bambagia.

— Voialtre, andate di là, — soggiunse per allontanare le bambine.

E appena esse furono uscite di camera, si mise a singhiozzare.

— Dottore, ditemi la verità! Per quelle creature, che non voglio lasciare in mezzo a una via, ditemi la verità!

— Certe cose, caro don Paolo, — rispose il dottore, tirandosi le punte del colletto, — non bisogna mai rimandarle proprio agli estremi momenti, quando la testa non ci regge più! Così anche per le cose della santa Chiesa.

— Dunque sono spacciato?

— Non esageriamo caro don Paolo!… Ecco qui un calmante per la tosse! una cucchiaiata all’ora; poi penseremo alla febbre… Niente di grave.

— La mia sentenza di morte! — pensava don Paolo, seguendo con gli occhi la mano che scriveva la ricetta sul ginocchio della gamba accavalcata all’altra.

E prima che il dottore andasse via, egli lo pregò di mandargli il notaio Miani, pel testamento, erano a uscio e bottega, non sarebbe stato troppo incomodo per lui.

Il dottor Cipolla, che s’interessava molto anche della salute dell’anima dei suoi clienti, dopo il notaio, s’affrettò a mandargli pure suo compare, il canonico.

Ma don Paolo, che aveva dovuto fare un bello sforzo per vincere l’idea di malaugurio del testamento, quando vide entrare il canonico, non potè frenarsi:

— Venite a portarmi la jettatura anche voi? Lasciatemi in pace!

— Sono venuto per una visita, — si scusava il canonico.

Don Paolo però seguitava a strillare:

— No, compare; se mi confesso muoio!

— Siete cristiano, sì o no?

— Cristianissimo; ma se mi confesso e prendo il viatico, muoio!

— Le cose sante sono la miglior medicina, compare.

— Ma se non debbo morire…

E non voleva morire, almeno questa volta. E ragionava, a modo suo, parlando a stento, fra un colpo di tosse e l’altro, per convincere il canonico, che si frenava a stento per non ridere.

— Come? sono andato alla messa di Natale per devozione, ci ho condotto anche le bambine e il Signore, in ricompensa, mi farebbe morire? Non è possibile. Dio è giusto. Non può mandarmi all’inferno; non ho rubato, non ho ammazzato, non ho calunniato; ho fatto anzi un’opera di carità da meritarmi il paradiso…

— Questo non dovreste dirlo voi, — lo interruppe il canonico.

— Se il Signore si avvede che mi son confessato e comunicato, dice: — Quel povero don Paolo portiamolo in paradiso, è meglio, giacchè ora si trova in grazia nostra! — No, Signore benedetto! lasciatemi star qui… Non vedete che queste orfanelle hanno soltanto me, e che se muoio io, le spogliano, le riducono alla miseria con tutto il bel testamento che ho fatto? Lasciatemi quaggiù un altro pochino!

— Il Signore sa bene quel che deve fare, non ha bisogno dei vostri consigli!…

— Non lo consiglio, lo prego! E dovreste pregarlo anche voi nella santa messa! Io dico: Il Signore, non vuol farmi dannare. Ebbene, se muoio non confessato, mi danno… Dunque mi dia la salute del corpo, non per me, per le orfanelle… E per ciò non mi confesso, no, no, no! Potete andarvene, compare canonico!

Il canonico, dalle risa, era passato alla commozione per tanta ingenuità, che in fine significava profondissima fede in Dio; e non insistette, anche per non turbare il malato, che non gli sembrava così grave come il dottor Cipolla gli aveva detto.

— Riposatevi; avete chiacchierato troppo!

Infatti, calmatasi l’eccitazione, don Paolo era ricaduto, ansimante, con la testa sui guanciali, la bocca aperta e gli occhi chiusi.

Le orfanelle lo guardavano atterrite, senza osare di accostarsi al letto, interrogandosi con cenni:

— Che dobbiamo fare?

Non dovettero far altro che preparare qualche scottatura di tiglio, di cammomilla, e poi ottimi brodi di pollo durante la convalescenza.

La quale, contro ogni previsione del dottore, fu così rapida, che una mattina in cui egli credeva di trovare il malato ancora a letto in attesa del permesso di alzarsi per qualche ora, lo trovò invece in cucina davanti a un fornello, mentre Giovanna grattava il cacio, e Lisa sbatteva in un piatto le uova per una magnifica frittata, e lui sminuzzava un po’ di prezzemolo e di cipolla da servire pel condimento.

Il dottore, che appunto tornava dalla casa di un cliente morto pochi minuti prima senza permesso di lui, ed era rimasto male davanti ai parenti in lagrime e che quasi l’accusavano di aver ammazzato il malato, visto don Paolo in atto di fare il cuoco, s’era messo a ridere e s’era sentito venire l’acquolina in bocca all’odore.

— Ah, voi fate venir in casa il medico per invitarlo a colazione?

— Se volete favorire, — aveva risposto don Paolo, sorridendo.

Ma per levarselo di torno subito, gli aveva messo in mano una carta da dieci lire, pagamento delle visite. Non voleva conti in sospeso con nessuno, col medico soprattutti: certa gente è meglio tenerla lontana quanto più si può.

— Staremo un bel pezzo prima di rivederci, caro dottore! — gli disse su l’uscio, allegro, quasi avesse in tasca il contratto con Domineddio, di dover campare un secolo o poco meno.

E fu proprio così.

* * *

Erano passati dieci anni. Lisa aveva preso marito da sei mesi; si parlava già di certe trattative con un cugino del marito di Lisa che aveva posto gli occhi su Giovanna; e don Paolo sembrava più arzillo di quando aveva leticato con la strega per le bambine. Soltanto la testa non lo serviva bene come una volta; la memoria gli veniva meno di giorno in giorno. Chiacchierava troppo del passato, rammentandosi i più minuti particolari; ma gli avvenimenti vicini, anche della giornata, gli si scancellavan subito dalla mente.

Le prime volte, accorgendosene, ne aveva riso egli stesso:

— Comincio a istupidire, figlie mie!

Da lì a qualche mese però le cose cambiarono.

Non usciva più di casa; andava da una stanza all’altra come sperduto, con le sopracciglia aggrottate, le mani dietro la schiena, guardando attorno con aria diffidente, quasi andasse notando novità che gli dispiacevano.

Brontolava, si stizziva per cose da nulla, ripeteva certi atti giorno per giorno, a ora fissa, quantunque ogni volta si lasciasse subito convincere che aveva torto.

A ora fissa, da una settimana, si metteva a preparare la tavola.

— Che fate, nonno?

— Lo vedi. Non si desina oggi forse?

— Ma se abbiamo già desinato due ore fa!

— Abbiamo già desinato?… È vero, hai ragione.

Stava un momentino esitante, e zitto zitto sparecchiava.

Poi, da lì a un mese, non si lasciò convincere più. Era inutile ripetergli: — Abbiamo già desinato! — egli scoteva il capo, con aria maliziosa e continuava ad apparecchiare. Quando aveva finito, si sedeva a tavola, aspettando, battendo sull’orlo del piatto con la forchetta e col coltello, impazientendosi del ritardo:

— Volete farmi morire di fame, povero vecchio? Ingrate, ingrate! Vi ho dato tutta la mia roba; mi sono spogliato per voi… ed ecco la ricompensa! Dannate! L’inferno vi aspetta.

Urlava, piangeva. Lisa e Giovanna un po’ ridevano, un po’ rimanevano stupite, afflitte di vederlo piangere; poi, a furia di carezze e di buone maniere, riuscivano a farlo levare da tavola, a deviarlo da quella fissazione; suggerendogli:

— È mezzanotte; andate a letto.

Il sole vicino al tramonto inondava la camera dove lo conducevano, ma egli non se n’avvedeva; e mentre Lisa chiudeva gli scuretti della finestra, egli dava mano a spogliarsi, e intanto domandava:

— E il santo rosario?

— L’abbiamo recitato or ora.

— Sì, sì, è vero; non bisogna scordarsene mai altrimenti la Madonna non ci aiuta. Andate a letto anche voi. È mezzanotte.

Ma questo stratagemma giovò per poco.

Una notte Lisa e Giovanna furono svegliate da forti picchi all’uscio.

— Dormiglione, su, levatevi! È mezzogiorno.

E d’allora in poi, a ogni mezzanotte era mezzogiorno per lui.

Lisa si alzava, apriva la finestra:

— Non vedete che è buio?

— È annuvolato. C’è l’ecclissi…

Si rammentava dell’ecclissi di anni addietro, e affermava che il sole sarebbe ricomparso subito. Insomma ci voleva una pazienza da santi; e Lisa e Giovanna erano proprio due sante, che gli volevano bene, e lo adoravano, e lo compativano, povero vecchio. Lisa qualche volta leticava col marito che non aveva carità, com’ella gli rimproverava:

— Forse sa quel che fa, poverino?

Ora, di tanto in tanto, egli perdeva anche la conoscenza delle persone.

— Chi siete? Che fate qui? Chi cercate?

— Sono Lisa; non mi conoscete?

— Lo so, lo so; ma costei, chi è costei?

— Giovanna.

A quei nomi rimaneva turbato. I ricordi delle figliuole morte e la figura delle due donne che si vedeva davanti lo imbrogliavano, lo rendevano dubbioso; e voltava le spalle, crollando la testa, ricominciando da capo dopo un momento:

— Chi siete? Che fate qui? Il padrone sono io. La roba è mia.

E si metteva a discorrere, divagando:

— Avevo due figliuole… Quella strega le mandava a chiedere l’elemosina… E sono morte, povere creature, morte di tifo!… Ve ne ricordate? Io ho fatto testamento; ho lasciato ogni cosa a loro… Erano orfanelle, abbandonate da tutti… Il Signore se l’è prese… Sia fatta la volontà di Dio! Come vi chiamate? Lisa? Giovanna? Si chiamavano così anche le mie creature. Se volete stare con me e servirmi ora che sono vecchio, faccio testamento e lascio ogni cosa a voi… Il padrone sono io. Ma qui non ci voglio più stare; voglio andarmene a casa mia. Prendete le chiavi; andiamo, andiamo!

E bisognava secondarlo, perchè non s’arrabbiasse e non urlasse.

Lisa fingeva di mettersi lo scialle – e spesso bastava buttarsi addosso una salvietta, un asciugamani – e gli dava braccio per le scale. Scendevano giù, in istalla o in cantina, e risalivano:

— Eccoci in casa nostra!

— Ah, come si sta bene qui! Colà non mi ci potevo vedere!… In casa altrui uno non può fare a modo proprio.

Si erano abituate a queste stranezze; spesso le prevenivano, le secondavano sempre, visto che era il miglior mezzo per non farle prolungare; e anche ci si divertivano quando il povero vecchio si sfogava a parlare del passato lontano, molto lontano, che gli veniva alla mente con lucidità e precisione meravigliosa.

Si divertivano quasi, anche quando se la prendeva con loro, con quelle ingrate che lo facevano morire di fame, che non potevano più vederselo dinanzi, perchè il padrone era lui e loro volevano tutta la roba per sè…

— Ma le gastigherò io! So io come gastigarle!

— Come?

— Straccerò il testamento, le lascierò nude in mezzo a una via!

— Fate bene, — gli diceva Lisa ridendo. — Dovreste lasciare la roba a noialtre.

— A voialtre? Che c’entrate voialtre? La roba mia è delle mie figlie, delle orfanelle che ho cresciute, nutrendole con la carne del mio cuore, col sangue delle mie vene! Che c’entrate voialtre? Esse soltanto mi vogliono bene; e pregheranno per l’anima mia quando sarò morto; che c’entrate, voialtre?

* * *

Per altri due anni era durata così, senza un giorno di tregua.

Poi il vecchio era diventato triste, muto. Passava le ore della giornata su una seggiola, con le mani su le ginocchia, guardando di tratto in tratto le due giovani, o tirando il laccio della culla dove dormiva Paolino, il bambino di Lisa; docile e obbediente alla parola di lei:

— Su, cullate il bambino.

Non aveva mai domandato di chi fosse quel bambino, nè come si trovasse in casa, nè come si chiamasse.

Ma un giorno avevano visto il povero vecchio alzarsi dalla seggiola dov’era stato tutta la mattinata a sedere, e stropicciarsi gli occhi e la fronte, quasi si destasse da profondissimo sonno.

— Lisa!… Giovanna!

Le chiamava sorridendo, con voce tremula dalla commozione, maravigliato, quasi le rivedesse dopo lunga assenza.

E pareva ricordarsi di tutto, e pareva si vergognasse di quel che ricordava…

— Sono stato pazzo? Oh, povere figlie mie, quanto vi ho fatto soffrire!… Ma ora me ne vado; non vi tormento più… Me ne vado a trovare quelle altre che mi aspettano da un pezzo… Dio vi benedica, povere orfanelle!

E fece atto di alzar le mani per benedirle… Le lasciò ricadere… S’era spento tutt’a un tratto, dolcemente, tra le braccia di Lisa e di Giovanna.

Roma, novembre 1893.

Fine.


nota 1 – Un tarì siciliano valeva quarant’un centesimo.
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nota 2 – Ninna-Nanna.
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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Il drago
AUTORE: Capuana, Luigi

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: Il drago e Cinque altre novelle pei
fanciulli / Luigi Capuana. - 2. ed. - Torino : G. B.
Paravia, 1907. - 95 p. ; 20 cm.

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)