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Negli ultimi decenni dello scorso secolo storici ed etnologi hanno iniziato a interrogarsi seriamente su chi furono realmente gli Indiani d’America. L’indagine ha indotto ad una riflessione sulla loro condizione originaria, conducendo spesso ad una revisione di giudizi e preconcetti che sono davvero duri a morire. In particolare, oltre a considerare spesso gli indiani pigri e sanguinari, l’apprezzamento dell’occidente sulla loro cultura era sprezzante, venendo questa considerata misera e rozza. La riflessione ha portato a una visione diversa della loro cultura che anche nella cinematografia ha dato segni di cambiamento, dandoci rappresentazioni più accettabili a proposito della storia dei pellerossa.
Ma nel 1932, quando Bellezza ha curato questa raccolta di racconti, questa revisione progressista non era certo ancora in atto. Per questo il lavoro di Bellezza relativo al recupero di tradizioni orali, racconti, miti, cronache e profezie è da considerare particolarmente pregevole e interessante. Ed è sufficiente per aiutarci a comprendere meglio un popolo che ha saputo raggiungere livelli di cultura, di saggezza e di civiltà molto elevati.
Leggendo questa raccolta di tradizioni e di folklore possiamo apprezzare “il piccolo grande popolo” attraverso il loro amore per la terra, la filosofia di vita, la storia avventurosa. Il loro modo di custodire e mantenere la loro “sacra Madre Terra” pur quando li sentiamo lontani dai nostri schemi di vita e che si esprimono con le gesta di guerra, i rituali degli “uomini medicina”, i riti iniziatici, la vita quotidiana intersecata sempre da leggende e da manifestazioni magiche, i momenti di caccia e le ribellioni, possono aiutare tutti a riavvicinarci al mondo naturale, reinserirci nel “cerchio” di cui tutti noi eravamo parte.
Senza voler esaltare una dimensione fin troppo mitizzata, l’eco di quelle voci tradizionali, di quelle narrazioni di una cultura che avvertì un rapporto magicamente stretto fra singolo e società, fra uomo e natura, può rappresentare un anello di congiunzione fra un certo tipo di “saggezza” e le nostre contraddizioni culturali.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit della prima novella Il bambino perduto e ritrovato:
Una volta che gli Onondaga andarono a caccia, si unì a loro una compagnia di cinque ragazzetti, che avevano archi e frecce loro proprie. Uno di essi era assai più piccolo degli altri, che si prendevano sovente giuoco di lui. Talvolta scappavano nel bosco, lasciandolo solo a piangere: poi ritornavano d’un tratto, e ridevano della sua paura. Tal altra volta abbandonavano l’accampamento, dicendogli che un lupo o un orso era sulle loro tracce, ed egli rimaneva solo e strillava disperatamente.
Un giorno i ragazzi trovarono sul terreno un grosso tronco d’albero cavo.
— Chi sa che non ci sia dentro un coniglio o uno scoiattolo! – esclamò uno di essi. – Dobbiamo tirarci dentro? —
Gli altri approvarono, e si cominciò a tirare nella cavità le frecce del più piccino di loro. Quando tutte furono dentro, gli dissero:
— Ora cacciati nel tronco a ritirare le tue frecce. —
Il piccino non voleva dapprima saperne: aveva paura che ci fosse dentro qualche bestiaccia. Ma gli altri insistettero, ed uno gli promise che, se avesse fatto come volevano, egli avrebbe detto a un suo zio di far per lui un nuovo arco e nuove frecce.
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