Il pane
di
Grazia Deledda
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Finché sono stata signorina, mi è toccato di fare il pane in casa. Questo voleva nostra madre, e questo bisognava fare: non per economia, che grazie a Dio allora si era ricchi, più ricchi di quanto ci si credeva, ma per tradizione domestica: e le tradizioni domestiche erano, in casa nostra, religione e legge.
Dura legge, quella di doversi alzare prima dell’alba, quando il sonno giovanile ci tiene stretti stretti nelle sue braccia di velluto e non vuole assolutamente abbandonarci! La serva bussa all’uscio, con la lampada in mano, anche lei tentennante per il sonno interrotto: su, su, è ora di alzarsi. Un piede va fuori delle coltri, ma tosto si ritira come abbia toccato acqua fredda; mentre l’altro piede è ancora nelle tiepide strade dei sogni: un braccio si tende e la mano si chiude nervosamente, mentre l’altra rimane beatamente aperta sul lenzuolo molle, come su un prato di margherite al sole. La serva bussa una seconda volta, poi spinge l’uscio.
— Su, su, se no viene la signora padrona… Allora il piede sveglio batte su quello che ancora dorme, e la mano sveglia va a cercare quella che sogna… E tutte e due si fanno coraggio. Siamo in piedi. Che freddo! Come è brutta la vita! Ma verrà un giorno… Ebbene, sì, devo confessare che fin dall’età di dodici anni avevo stabilito di sposarmi per non fare più il pane in casa.
Ma passato il primo momento la faccenda prendeva il suo ritmo quasi di festa. Bisogna poi dire che questa faccenda non era di tutti i giorni né di tutte le settimane, perché il pane biscotto che ha il nome caratteristico ma appropriato di “carta di musica” dura interi mesi senza guastarsi, specialmente d’inverno. Specialmente d’inverno si stava bene, nella grande cucina riscaldata dal forno acceso e dal camino idem: fuori c’era la neve, e peggio di noi stava la donnina che aveva scelto il mestiere d’“infornatrice” di pane; essa, no, non si lasciava sedurre dal sonno, e tutti i giorni, spesso anche tutte le notti, se la passava davanti al forno a combattere con quelle larghe rotonde focacce che tendono a gonfiarsi, a scoppiare, a bruciarsi in un attimo, e pare lo facciano per dispetto contro la paletta che le volta e rivolta e batte su di loro come la mano materna sul sedere grassoccio dei bambini cattivi.
Questa donnina, dunque, doveva anche sfidare il freddo e la neve per arrivare a destinazione: una volta arrivata era però, d’inverno s’intende, la persona più felice del mondo. Sedeva davanti al forno e veniva servita come una regina; e una regina di marionette pareva, così piccola, legnosa, nera bruciata dal calore dei forni di tutto il paese, con una voce che sembrava venisse di lontano, dall’alto del camino del forno. Le cose che raccontava erano tutte interessanti, specialmente dopo aver preso il caffè o mangiato tre piatti di maccheroni e bevuto un bel bicchiere di vino.
Questo vino, a dire il vero, glielo davo io di nascosto, perché allora le donne non usavano bere vino (di nascosto però sì); lei si volgeva verso il muro fingendo di soffiarsi con buona creanza il naso, e beveva a testa china sorbendo avidamente dal bicchiere: oppure glielo davo in una tazza di latta come fosse acqua versata dalla brocca.
Mia madre, che pregava sempre sottovoce, perché quando si fa il pane è come si stia in chiesa, non si accorgeva del peccato dell’infornatrice.
L’infornatrice diventava loquace e raccontava le storie di tutte le famiglie della città, comprese quelle degli antenati; e la mia fantasia pescava in quelle narrazioni più che nei libri stampati di avventure e novelle. Finito di gramolare la pasta e di stendere col matterello le focacce, e con le perle delle vesciche che la faccenda lasciava nella palma lucida delle mie mani, mi mettevo accanto alla donna ad ascoltare.
A riferire tutte le sue storie ci sarebbe da scrivere altri dieci libri, oltre quelli felicemente scritti: per oggi ne ricordo solo una, che doveva esser vera, poiché la donna la raccontava spesso e senza varianti, mentre le altre subivano sovente grandi modificazioni. «Dunque, – queste sono le sue testuali parole, – tanti anni or sono, appena il Signore mi aveva dato la forza di lavorare e mia madre mi aveva insegnato il mestiere, ecco un giorno vado a infornare il pane in casa di dama Barbara. Dama Barbara era ricchissima e avara, tanto che dicono sia morta coi pugni stretti, mentre i buoni cristiani rallentano le mani nel consegnare l’anima a Dio. Dama Barbara mi dava un pugno di fichi secchi alla mattina e neppure il pane fresco mi dava, come si dà anche ai cani, il giorno che si cuoce: pane vecchio e acqua quanta ne volevo: anzi mi incoraggiava a bere, perché bevendo acqua non si ha voglia di mangiare. Ma adesso vi dico una soddisfazione che Dio mi ha mandato fino ai piedi. Dunque, una mattina all’alba quando cantano i galli, mentre si aspettava che il pane fosse lievitato a giusto punto, ecco si presenta alla porta un bellissimo bambino coi capelli biondi ricciuti e gli occhi di cielo. Il vestitino rosso era stinto e lacero: eppure pareva nuovo fiammante. – Datemi un focaccino, – dice, – sia pure piccolo come un’ostia consacrata: è da tanto tempo che non mangio pane fresco. – Sùbito, bel bambino – dice dama Barbara, che in quanto a buone parole era veramente una nobildonna. – E chi sei? Perché in giro così presto? Il bambino non risponde, e la dama, presa la raschiatura della pasta avanzata sulla tavola, ne fa un focaccino e lo dà a me per cuocerlo. Io metto il focaccino nel forno, e vedo una cosa straordinaria. Il focaccino cresce, cresce, diventa grande quanto tutto il pavimento del forno: io devo piegarlo in quattro per tirarlo fuori. Credete che dama Barbara lo dia al bambino? Neanche un pezzo. Prende il rimanente della raschiatura e fa un focaccino grande quanto un soldo; ebbene, anche questo cresce e cresce; e lei, divenuta come pazza per la gioia, mentre prega il bambino di aspettare, continua a far focaccini e darli a me; ed io sudo per trarli fuori, ingranditi dal forno: finché il Signore mi illumina la mente, e dico, sollevandomi in ginocchio: – Dama Barbara, quel bambino è Gesù in persona, venuto a provare il nostro buon cuore. – Dama Barbara si volge: il bambino era sparito. E quando ella assaggia uno di quei grandi pani deve sputarlo via tanto è acido; e anche il resto del pane, nei canestri dove fermentava, è tutto andato a male. Così fu castigata dama Barbara per il suo cattivo cuore».
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Il pane
AUTORE: Grazia Deledda
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: "Novelle", di Grazia Deledda ; a cura di Giovanna Cerina ; Volume 5; Bibliotheca Sarda n. 11; Ilisso Edizioni; Nuoro, 1996
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)