Il pastorello
di
Grazia Deledda
tempo di lettura: 11 minuti
Cinque anni or sono conobbi un ragazzetto soprannominato Coeddunota 1, nome che si dà anche al diavolo, il quale, come sapete, vien rappresentato con una piccola coda attortigliata un po’ al di sotto della schiena. Coeddu aveva infatti il colore dei diavoletti, benché sulla sua faccia apparissero i segni di tutte le razze umane: aveva il naso camuso di un etiope, gli occhi obliqui di un giapponese, la bocca fina e sarcastica d’un americano del nord, e l’espressione intelligente d’un ragazzetto sardo, anzi nuorese autentico. Egli abitava poco distante da casa nostra, e spesso lo incaricavamo di qualche piccola commissione. Egli volava, ma una volta compiuto il suo dovere, si sedeva per terra e stava ore ed ore immobile, indolente; se però qualcuno lo interrogava cominciava a chiacchierare e non la finiva più. Una mattina lo trovai seduto sotto l’elce del nostro orto; seduto a gambe in croce, immobile come un piccolo arabo all’ombra di una palma; con gli enormi piedi nudi trafitti da innumerevoli spine e da pezzetti di vetro; i capelli crespi coperti di polvere e di pagliuzze.
— Vai a scuola? – gli domandai.
— Sì – egli rispose, sollevando gli occhi furbi verso di me. – Sono il primo della classe; devo passare in terza e avrò anche il premio.
— Bravo! Vuol dire che ti piace studiare.
— No, mi piace più fare il pastore, perché i pastori dormono di giorno, quando fa caldo, e vegliano di notte, quando fa fresco.
— Eh, ma d’inverno?
— D’inverno accendono un gran fuoco, arrostiscono una pecora intera e se la mangiano!
— E tu adesso, cosa mangi?
— Pane d’orzo.
— Sempre?
— Sempre pane.
— Tua madre non cucina?
— Mia madre fa la serva e torna a casa soltanto la notte.
— E tuo padre?
— Mio padre è scappato; è andato in America e ci ha spiantato–. Egli voleva dire «piantato» ma in quel momento, in bocca a quel ragazzetto robusto e intelligente buttato lì per terra come una pianticella appena divelta, la parola era giusta.
— Tuo padre scriverà, qualche volta, però; e tu gli risponderai.
— Io? – egli disse con fierezza. – Mai! Io non avrò bisogno di lui. Farò il pastore, e troverò un tesoro fra le roccie, sì, uno di quei tesori nascosti dai giganti e vigilati dal diavolo. Sì, io conosco i posti, perché spesso vado sul Monte per raccogliere fasci di legna, che poi porto al Molino. Persino due lire di legna porto, io, tutto in una volta. Io sono forte: basta che scuota un albero per farlo cadere. Io prendo i falchi a volo. Io so imitare la cornacchia, la volpe, tutti gli animali. Vuol vedere? Un giorno ho battuto la scure su una roccia ed ho sentito un rumore di monete. Drin, drin, drin, drin. Segno che là c’è un tesoro. Anche mio zio Mauro, che è pastore, sa dov’è questo tesoro, ma io non dirò a nessuno dov’è il punto preciso da lui indicatomi. No, non lo dirò; non son una spia, io…
— Le spie, – proseguì, – vengono sempre castigate. Quando si sa un segreto bisogna tacere. Gli altri ragazzi miei compagni non sanno tenere un segreto, e se vedono uno far del male subito vanno ad accusarlo a qualcuno. Io no; né spia né ladro. Forse che voi mi avete mai trovato a rubare le albicocche e i fichi, nel vostro orto della Concia?
— Chissà, chissà?…
— No, vi giuro, mai! – egli gridò, incrociando le braccia sul petto in segno di giuramento. – Sono gli altri ragazzi, che rubano. Cosa mi dai che ti dico i loro nomi?
— Come, se tu non fai la spia?
Egli mi guardò in viso, senza turbarsi, ma non rispose.
Lo stesso giorno ebbi occasione d’incontrare la madre, una povera donna magra e gialla, e le domandai come si comportava suo figlio.
— Non me ne parli, sennòra Grassia; cattivo non è, ma tanto birichino che il maestro, disperato, gli voleva dare una lira perché non tornasse a scuola. Io lo mando a raccattare legna e lui invece butta la cordicella ai rami e fa l’altalena. Ho scritto al padre perché, almeno, lo faccia andare con lui in America e gli insegni a lavorare.
Saputo che sua madre voleva mandarlo in America, Coeddu diventò ancora più selvatico e diffidente. Egli non voleva saperne, di civiltà: non voleva viaggiare, bastandogli le esplorazioni sul Monte Orthobene, dove sperava sempre di ritrovare il tesoro. La madre, una mattina ai primi di agosto, gli fece vedere una lettera e gli disse:
— Bada, ragazzo, tuo padre scrive dall’America e acconsente a prenderti con lui. Appena avrà i denari per il tuo viaggio me li manderà.
Coeddu si mise a piangere, si buttò per terra, e gridò:
— Sì, ditegli che li mandi, i denari: comprerò le pecore e farò il pastore. Lavorerò, sì, lavorerò. Datemi la cordicella; da oggi porterò tutti i giorni un fascio di legna al Molino…
La madre, intenerita, gli diede la cordicella e un tozzo di pane da soldatonota 2, ma egli voleva il pane bianco, e poiché in casa non ce n’era, la povera donna dovette andare da una sua vicina a farselo prestare.
E il ragazzo partì, deciso a far di tutto pur di non andare in America; ma cammin facendo raggiunse due piccoli mendicanti che ogni mattina salivano sull’Orthobene per chiedere l’elemosina ai villeggianti accampati attorno alla chiesetta della Madonna del Monte, e sentì che uno diceva:
— Oggi certo mangeremo maccheroni conditi con sugo di pollo.
L’altro si leccava le labbra sporche e schioccava la lingua contro il palato.
— Oggi certo mangeremo pere, di quelle gialle, farinose come le patate…
Sulle prime Coeddu si beffò di loro; poi domandò pensieroso:
— Chi vi dà queste cose buone?
— Le serve, lassù. Noi portiamo loro le legna e in cambio riceviamo tante cose buone.
La strada era ripida, polverosa: ma arrivati in alto i tre ragazzetti videro il mare, tutto color d’oro, con un monticello azzurro davanti, e sentirono fresco come se la spiaggia fosse lì vicina. Intorno alla chiesetta sorgevano tende e capanne; fanciulle vestite di giallo e d’azzurro vagavano nel bosco, piccole, sotto gli elci secolari e le roccie enormi, come farfalle variopinte.
Avvenne che anche Coeddu fu creduto un mendicante: una serva bruna, dal viso olivastro e gli occhi colore di miele, bella come una Samaritana, lo incaricò di andare a raccattare un po’ di legna nel bosco, per cuocere i maccheroni; e poi gli fece parte di questi. Egli dimenticò che doveva portare le legna al Molino; s’indugiò per assistere ai giochi dei bambini villeggianti che cercavano la tana delle biscie. Si udiva il lamento di un violino, e pareva che gli alberi mormorassero per accompagnare quel suono simile ad una voce umana; le serve accovacciate entro le capanne basse, preparavano il caffè cantando anche loro una nenia melanconica.
Coeddu non pensava più all’America e al tesoro, quando d’un tratto vide un uomo alto, dal viso scuro circondato d’una folta barba rossiccia, salire la china, seguito da un agnellino nero e da una cagna bianca.
— Ziu Mauru! Siete voi? – gridò correndogli incontro.
Sì, era proprio suo zio, che aveva l’ovile poco distante dalla chiesetta e veniva a portare il latte ai villeggianti. Zio Mauru era un uomo semplice: ecco perché a cinquant’anni era ancora servo: ed ecco anche perché, invece di sgridare il nipotino, vedendolo lassù, cominciò a chiacchierare con lui come con un uomo serio, dandogli ragione a proposito del viaggio in America. Anche lui non era mai uscito dal circondario di Nuoro. Coeddu lo accompagnò fino all’ovile, che consisteva in una capannuccia di frasche; vide fra gli alberi come un muricciuolo bianco e nero; ma d’un tratto quel muro si aprì, si sciolse, cambiò posto; erano le pecore che dormivano ammucchiate, e alla frescura della sera si svegliavano e si mettevano a pascolare in fila.
Coeddu, incantato, sedette davanti alla capanna mentre l’agnellino nero succhiava il latte dalla cagna, e ziu Mauru raccontava la storia di un bandito che teneva sempre appesa al collo una moneta del tempo degli Ebrei, spesa da Gesù, e perciò non era mai stato colpito da palla nemica, né colto dalle febbri né dal carbonchio.
Tanto era il fascino provato da Coeddu che egli finì per addormentarsi: anche nel sonno vedeva la luna cadere sull’orizzonte, rossa come un corno di corallo, udiva ancora il violino lontano lontano, come la voce di una fata; distingueva il brucare delle pecore, lo scricchiolìo degli steli d’asfodelo che si spezzavano sotto i loro denti; e sopratutto sentiva la musica dolce e monotona delle loro campanelle simile ad un tintinnio di bicchieri di cristallo battuti da un coltello.
L’indomani i piccoli mendicanti, che la sera prima erano ridiscesi a Nuoro, gli dissero:
— Tua madre è arrabbiata come un verro; appena torni ti manda in America.
— Ed io me ne sto quassù! – egli rispose.
La serva Samaritana lo mandava a prendere il latte, l’acqua, le legna, intanto che lei discorreva con uno studente: e per compenso Coeddu riceveva enormi piatti di maccheroni, di risotto, avanzi di pernici e code e teste di trota, pere che cominciavano a guastarsi, cetrioli e pomodori conditi con olio, aceto, pepe e sale. Una sera egli sentì forti dolori di pancia e sognò che un cane gli mangiava le viscere. Non sapeva perché si sentiva triste: i piccoli mendicanti provavano gusto a tormentarlo, portandogli terribili ambasciate da parte di sua madre; e per placare la povera donna egli pensava di mettersi con coraggio alla ricerca del tesoro. Un giorno prese dunque la scure di zio Mauru e cominciò a vagare per il bosco, fermandosi di tanto in tanto per frugare fra le roccie alte e deserte, e battere il ferro sul granito che qualche volta tintinniva come il cristallo. Arrivò così in un posto solitario ed orrido, dove le roccie avevano aspetti strani, di cavalli con la testa d’uomo, di rane, di pesci, di serpenti: il silenzio che le circondava le rendeva più misteriose. Invano egli, per farsi coraggio, imitava il grido ed anche il muover delle ali della cornacchia: qualche cornacchia vera rispondeva, ma invece di rianimarsi, egli sentiva crescere il suo terrore. Tuttavia procedeva, riconoscendo il posto dove, secondo raccontava ziu Mauru, un vecchio pastore aveva ritrovato un tesoro, cioè un mucchio di monete d’oro che il fortunato uomo, pazzo di gioia, s’era affrettato a mettere entro il suo fazzoletto gridando:
— Diavolo, questa volta son ricco! -– Ma immediatamente, entro il fazzoletto le monete s’erano cambiate in pezzetti di carbone!
Coeddu però, deciso a non fiatare, e sopratutto a non invocare il diavolo, che nel sentire il suo nome tramuta le monete in carbone, procedeva cauto, silenzioso, anche perché aveva paura delle biscie, che hanno la coda d’argento e sferzano e tagliano la faccia a chi le molesta.
Roccie e sempre roccie: fra gli alberi contorti, simili a mostri dalle cento braccia, si vedeva il mare, ed i monti di Oliena parevano di neve azzurrognola; ma d’un tratto l’orizzonte si chiuse; il ragazzetto si trovò come in un cortile circondato da muraglie ciclopiche, e il cielo, in alto, apparve d’un azzurro intenso, quasi oscuro come al cader della sera. Qua e là fra le roccie si vedevano larghe e profonde buche, e da una di queste, d’improvviso, uscì un sibilo come quello di un treno che sbuca da una galleria. Un sudore gelato, un pallore mortale coprirono il viso di Coeddu: egli si buttò a sedere su una pietra e strinse le labbra per non gridare; gli parve che la muraglia di roccie si movesse stranamente attorno a lui, e che il cielo diventasse ancora più scuro; provò un capogiro, sollevò gli occhi e vide tre giganti nudi saltare di roccia in roccia e avvicinarsi a lui. Allora diede un grido e svenne.
Zio Mauru lo trovò lassù, steso al suolo come morto. Lo portò al suo ovile, poi in paese, e fu chiamato un prete che lesse il Vangelo per scacciare i fantasmi ond’era tormentato l’infelice ragazzo. Ma egli continuò a delirare ed a parlare di giganti e di diavoli; allora fu chiamata una donna, che versò sette goccie d’olio di lentischio e mise sette piccole brage entro un bicchiere e così, preparata “l’acqua dello spavento” la fece bere al malato, che vomitò ma continuò a delirare. Finalmente fu chiamato il medico.
— È una forte gastrica – egli disse: e ordinò che Coeddu prendesse tre purghe.
Gli anni sono passati. Coeddu ha trovato il tesoro senza cercarlo oltre, perché suo padre gli ha mandato tremila lire dall’America, ed egli ha comprato quaranta pecore ed un cane; adesso ha quindici anni e più che mai desidera di non lasciare la montagna natìa, convinto di aver veduto ciò che, anche a girare tutto il mondo, non si vede più: i giganti.
Lo rividi pochi giorni or sono: seduto sulle pietre del varco della tancanota 3 egli mangiava il suo pane d’orzo e guardava le pecore a pascolare.
La pace del crepuscolo luminoso si rifletteva nei suoi occhi; i suoi denti scintillavano come le foglie degli elci, la sua figurina grigia e nera si confondeva con lo sfondo del paesaggio, fra le roccie di granito ed i tronchi scuri degli alberi. Così egli formava come una parte stessa del luogo solitario e grandioso; e quando mi raccontava la sua avventura io ero tentata di credergli. Chissà? Forse i giganti esistono davvero, nel misterioso mondo delle montagne; sono essi che accumulano le roccie e coltivano le quercie sempre rigogliose e fresche. Ma noi, abitanti delle città, non li vediamo perché essi si nascondono al nostro apparire. Essi forse hanno paura di noi come noi abbiamo paura di loro.
Fine.
nota 1 – Codino.
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nota 2 – Pane nero.
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nota 3 – Vasto pascolo chiuso da muriccie a secco.
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TITOLO: Il pastorello
AUTORE: Grazia Deledda
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: "Novelle", di Grazia Deledda ; a cura di Giovanna Cerina ; Volume 5; Bibliotheca Sarda n. 11; Ilisso Edizioni; Nuoro, 1996
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)