La fanciulla di Ottàna
di
Grazia Deledda
tempo di lettura: 9 minuti
Nell’antico paese di Ottàna vivevano sette fratelli, – tre bruni, tre biondi e uno albino – e tutti sette andavano così d’accordo che erano l’invidia dei vicini e persino dei loro stessi parenti. Allora uno di questi, più invidioso degli altri, invitò a caccia un uomo ritenuto nemico dei sette fratelli, lo condusse in un bosco, e là, mentre aspettavano che la luna tramontasse e il cinghiale scendesse a bere alla fontana, lo uccise e ne nascose il cadavere sotto una macchia di lentischio. I sette fratelli furono accusati di quest’omicidio, e dovettero scappare e farsi banditi, per non venir impiccati come veri assassini; ma anche nella disgrazia continuarono a volersi bene; e quando tre di essi dormivano gli altri quattro vegliavano. Gira e rigira, per boschi e foreste, finirono col trovare rifugio in un nuraghenota 1 del Goceano. Il nuraghe del Goceano era ancora intatto, non solo, ma frugando negli angoli oscuri il fratello albino trovò freccie e coltelli di pietra, vasi di sughero come ancora adesso li usano i pastori sardi e cucchiai fatti con le unghie delle pecore. Un terrapieno sostenuto da grossi macigni, circondava il nuraghe: l’edera e il lentischio crescevano fra le pietre del misterioso rifugio. Là, dunque, i sette fratelli stabilirono la loro abitazione: di là partivano alla mattina presto, andavano a caccia, tornavano alla sera e mangiavano; poi mentre alcuni di essi vegliavano sul patiunota 2 come sentinelle sull’alto di una fortezza, gli altri, prima di addormentarsi, raccontavano storie dei primi abitatori dei nuraghes e l’albino sosteneva che questi erano stati gli Atlantidi, rifugiatisi in Sardegna mentre l’oceano sommergeva la loro terra misteriosa. E quando il fratello anziano riferiva le leggende sentite raccontare dal nonno, intorno a Sardus paternota 3 e al tempio che gli antichissimi sardi gli avevano eretto, gli altri fratelli si levavano la berretta e ascoltavano con religiosa attenzione. Ognuno di essi aveva al collo, attaccata a una strisciolina di cuoio, una moneta con l’effigie di Sardus pater, che li preservava da sventura.
Dunque, un pomeriggio d’aprile, dopo aver infilato in sette spiedi di legno sette pezzi di carne di cinghiale che lasciarono accanto al fuoco acceso nel centro del nuraghe, i sette fratelli se ne andarono alla caccia del cervo. Al ritorno, verso sera, trovarono la carne di cinghiale già cotta, il fuoco acceso ancora, il nuraghe tutto in ordine, il patiu spazzato. Mancava però uno dei sette pezzi di carne di cinghiale già cotta. I sette uomini si guardarono meravigliati; cercarono attorno al nuraghe, ma non trovarono nessuno L’indomani lasciarono accanto al fuoco sette casadinasnota 4, e al ritorno ne trovarono sei, e la casa in ordine e il cortile spazzato. Allora il terzo giorno, uno dei sette fratelli, e precisamente l’albino, rimase sdraiato in fondo al nuraghe, nascosto sotto una bisaccia. Gli altri sei fratelli se ne andarono a caccia; e tutto fu silenzio attorno. Accanto al fuoco, infilati nei sette spiedi sette casizolosnota 5 gialli e fragranti come pomi si cuocevano lentamente; dall’apertura del nuraghe entrava il vento d’aprile, profumato di puleggio e di rosa canina. S’udiva il rumore del torrente di monte Rasu, e il canto degli usignoli fra le quercie della foresta.
Dunque, l’albino stava per addormentarsi sotto la bisaccia, quando un lieve fruscìo destò la sua attenzione: qualcuno spazzava il patiu, e dopo un momento un’ombra oscurò l’ingresso del nuraghe e un lieve rumore di passi animò il silenzio del luogo. Allora egli si scoprì, e vide una fanciulla, piccola di statura, ma così ben fatta e così bella che egli sulle prime la credette una jananota 6. Ma al grido di spavento che ella diede, egli si accorse che era una povera fanciulla, anzi, proprio una fanciulla di Ottàna. Come qualunque altra fanciulla del mondo nelle sue circostanze la fanciulla di Ottàna s’inginocchiò piangendo ai piedi dell’albino, narrò che era nipote dell’uomo invidioso che aveva rovinato i sette fratelli.
— Egli mi ha raccolto e allevato, perché io sono orfana. Ma adesso che ho quindici anni voleva sposarmi. Io gli dissi: no, non voglio sposarvi perché siete vecchio. Allora egli mi mandò in quel bosco. laggiù, con due servi che avevano ordine di uccidermi e portargli il mio cuore ed i miei occhi. Arrivati nel bosco i due servi trassero la leppanota 7 ma non ebbero cuore di uccidermi. Quando non ebbero cuore di uccidermi, essi girarono un po’ nel bosco e trovarono un daino: lo ammazzarono, presero il suo cuore ed i suoi occhi e li portarono al mio zio cuore di pietra. Io rimasi nel bosco, e gira e rigira mi trovai sotto questo nuraghe; entrai e presi la carne e spazzai il cortile. Adesso eccomi qui. Uccidetemi pure, se volete, ma non svelate al mio zio cuore di pietra che io sono viva.
L’albino volse la testa dall’altra parte, perché la fanciulla non si accorgesse che egli piangeva; poi gridò:
— Alzati e dimmi come ti chiami.
— Juannicca.
Egli gridò, più forte:
— Continua a spazzare e rattoppa questa bisaccia.
Juannicca allora si alzò e continuò a lavorare. Ed ecco, all’imbrunire, gli altri sei fratelli tornarono, neri e imbacuccati come fantasmi; sedettero attorno al focolare, mentre l’albino raccontava la storia della fanciulla Juannicca, e la fanciulla Juannicca, accoccolata in fondo al nuraghe, tremava come una lepre spaurita. Ma l’anziano le disse:
— Be’ dopo tutto siamo un po’ parenti. Tu ci farai i servizi di casa, terrai acceso il fuoco, porterai l’acqua e noi ti considereremo come nostra sorella. Ma, ti avverto, lingua in bocca.
Allora Juannicca, lingua in bocca, non rispose: e tutti furono contenti del suo silenzio. E i giorni passavano, e i sette fratelli, quando tornavano al loro rifugio, al cader della sera, tacevano, sospiravano, guardavano le stelle scintillanti in cima alle quercie, e anche sorridevano. Erano tutti e sette innamorati di Juannicca; e chi le portava in tasca una manata di perine primaticce, chi una lepre di nido, chi una preda de ogunota 8 rinvenuta per caso nel greto del torrente, forse caduta dall’anello di qualche fanciulla che lavava.
Juannicca sorrideva a tutti i sette fratelli, e quando alla sera essi tardavano a rientrare, anche lei guardava dal patiu le sette stelle dell’Orsa Maggiore, fulgide sopra i monti lontani, e le pareva di vedere i suoi sette protettori.
Essi cominciarono a litigare, perché ciascuno di loro voleva sposare la fanciulla: l’anziano la voleva perché era il maggiore dei fratelli; l’albino la voleva perché era stato il primo a vederla, gli altri la volevano perché la volevano.
Finalmente decisero di non sposarla e di tenersela sempre come una sorella: e così il tempo passò, e passò l’inverno, e il canto del cuculo annunziò il ritorno della bella stagione. Juannicca domandava al cuculo:
Cuccu bellu ’e mare,
Cantos annos bi cheret a mi cojare?nota 9
E il cuculo rispondeva con sette gridi melanconici; ma Juannicca scuoteva la testa, incredula, perché non sperava di potersi sposare così presto, in quella solitudine dove non c’erano neppure gli avvisi di matrimonio sui giornali.
Eppure un giorno, mentre ella stava sul patiu a scardassare un po’ di lana, ecco che vede passare di là un giovine cacciatore a cavallo.
Era alto e bello, coi capelli lunghi svolazzanti come nastri di raso nero; e di sotto le folte sopracciglia i suoi occhi neri brillavano come stelle sotto le nuvole. Salutò Juannicca gridando:
— E cosa fai?
— Così sto! – ella rispose.
Guardarsi e innamorarsi fu la stessa cosa.
Egli ripassò il giorno dopo, e fu colpito dalla sveltezza di lei che già filava la lana scardassata. Al terzo giorno le disse:
— Se vieni con me ti sposo. Sono il figlio del Giudicenota 10 del Logudoro: tu, monta in groppa al mio cavallo e andiamo.
— Passa più tardi – ella disse. – Prima voglio spazzare la casa. Eppoi verrò solo a condizione che tu t’interessi di far graziare i miei sette fratelli.
— In coscienza mia lo farò.
Egli ripassò più tardi, e dal muraglione del patiuella saltò sulla groppa del cavallo, cinse con un braccio la vita del cavaliere, e via di trotto.
Era una bella giornata di primavera: le cime verdoline degli alberi si disegnavano sulle nuvolette d’argento, e le macchie fiorite, l’asfodelo, il serpillo, l’alloro, il timo e la ginestra profumavano l’aria. Juannicca raccontava la sua storia e il cacciatore diceva:
— Io ho tre sorelle Grassia, Itria, Baingia, belle come tre garofani. Esse ti vorranno bene, e t’insegneranno a ricamare gli arazzi ed a suonare la chitarra; ma se ti vedono vestita così, con questo costume logoro, diranno: «La sposa del nostro fratello è una pezzente». Dunque, senti, io ti lascerò nel bosco sotto il castello del Goceano, e andrò a prenderti un bel vestito, e tu mi aspetterai senza muoverti.
Ed ecco apparve il castello posato come un’aquila sulla cima di una collina rocciosa. Le nuvole di primavera gli stendevano attorno un’aureola d’oro, i boschi di peri selvatici fiorivano ai piedi della collina. Il cacciatore disse:
— Be’ Juannicca, non muoverti: ti porterò anche una collana.
Ella smontò e sedette sopra un sasso; ma appena il giovane fu lontano, ella sentì il gorgheggio di un usignolo e pensò:
— Ci dev’essere una fontana: voglio lavarmi per non entrare così sporca nel castello.
S’alzò, e cerca e cerca, questa fontana non si trovava mai: ma d’improvviso una donna alta e secca, coi capelli rossi e gli occhi verdastri, apparve nel sentiero e salutò Juannicca domandandole chi era e che cosa cercava.
Da tanti mesi Juannicca frequentava gente così buona che s’era dimenticata che al mondo esiste anche gente cattiva: ben lontana quindi dall’immaginarsi nella donna rossa una maghiarjanota 11, innamorata del giovane cacciatore non esitò a raccontarle la sua storia.
— Inutile lavarti e metterti un bel vestito se non ti pettini bene – disse la donna, frenando la sua rabbia. – Vieni che te li accomodo io, i capelli; te li ungerò con olio di lentischio e ti metterò uno spillone nella benda –. La trasse così fino ad una grotta, le unse i capelli, glieli acconciò all’uso delle dame, le avvolse la testa in una benda e fermò questa con uno spillone d’argento. E appena ficcato lo spillone, che era ammaliato, Juannicca cadde al suolo come morta.
Cadde al suolo come morta e rimase così sette anni.
Il cacciatore, non trovandola più, credette ch’ella, pentita d’averlo seguìto, fosse ritornata nel nuraghe: e per puntiglio non la cercò oltre; ma il dolore e l’umiliazione lo resero cupo e cattivo. Non usciva dal castello e proibiva alle sorelle di suonare e di cantare: diventato dopo qualche anno Giudice anche lui, proibì le feste e fece imprigionare le persone che lo adulavano. Tant’è vero che il malumore a volte rende gli uomini energici e saggi.
Dunque, le sorelle si annoiavano. Un giorno, andando nel bosco a cogliere asfodelo per intesserne cestini, cominciarono a parlar male del fratello, e tanto s’infervorarono che smarrirono la strada. D’un tratto cominciò a piovere; le sorelle si rifugiarono in una grotta e videro distesa al suolo una bella fanciulla che pareva morta. Era vestita di un rozzo costume, ma teneva i capelli acconciati all’uso delle dame, con la benda fermata da uno spillone d’argento.
Una delle sorelle disse:
— Voglio provare se mi sta bene questo spillone.
Ma appena lo trasse dai capelli della bella addormentata, questa si svegliò, e cominciò a piangere ed a chiamare il cacciatore. Allora le tre sorelle la sollevarono, la confortarono, la condussero con loro al castello. Il giovine signore sulle prime s’arrabbiò; poi sposò Juannicca, e quando ebbe sposato Juannicca fece graziare i sette fratelli, e diventò così felice che sorrideva persino quando gli adulatori gli dicevano le cose più sciocche di questo mondo.
Fine.
nota 1 – Monumenti preistorici della Sardegna, che alcuni archeologi ritengono tombe, altri abitazioni o fortezze.
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nota 2 – Il cortile del nuraghe.
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nota 3 – Il primo colonizzatore dell’isola.
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nota 4 – Focaccie di pasta e formaggio.
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nota 5 – Formaggelli.
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nota 6 – Fata di piccola statura.
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nota 7 – Lungo coltello che i pastori sardi portano infilato alla cintura.
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nota 8 – Pietra di fuoco, rassomigliante al corallo.
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nota 9 – Cuculo bello del mare,
Fra quanti anni mi devo sposare?
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nota 10 – Principe.
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nota 11 – Fattucchiera.
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TITOLO: La fanciulla di Ottàna
AUTORE: Grazia Deledda
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/
TRATTO DA: "Novelle", di Grazia Deledda ; a cura di Giovanna Cerina ; Volume 5; Bibliotheca Sarda n. 11; Ilisso Edizioni; Nuoro, 1996
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)