La ciocchettina.

di
Adolfo Albertazzi

tempo di lettura: 13 minuti


I.

Abitavano nello stesso sobborgo e ogni sera rincasavano insieme, dalle sartorie ove lavoravano, prima in tram poi a piedi. In tram era un divertimento per tutte: cicaleccio, motteggi, compiacenze d’essere osservate e d’osservare le meno belle di loro; ma nel tratto a piedi seguivano le confidenze d’amore e le espansioni sentimentali; mutava il tono. E l’Ida, la più giovane delle tre, interloquiva di rado; si sentiva a disagio per un misto di timidezza e d’orgoglio.
Il suo innamorato guidava autocarri nel Carso, non era in trincea come quelli delle amiche, e discorrendone le pareva di provocarle a ripetere: — Fortunata te! —, quasi non avesse da star in pena lei pure.
«Fortunata te!». C’era fors’anche, in fondo a queste parole, la punta ironica, l’acredine di un’altra invidia — lei faceva all’amore con uno di miglior condizione che i loro innamorati —; e non voleva mostrare di accorgersene. Se però taceva o tentava invano di sviare il discorso solito, l’Ida bene spesso bolliva dentro e stentava a frenarsi, a non prorompere:
— Fatela finita una volta con i piagnistei e con le spacconate!
Che noia, tutti i giorni! L’Olga si martoriava negli stenti e nei pericoli della trincea, accresciuti con fantasia egoista per concludere che solo il pensiero di lei sosteneva il suo caro a superarli. L’Adriana…. Eh! dopo che al suo Gustavo gli avevan dato la medaglia di bronzo, non si campava più, con lei, che dietro sacchi di sabbia, in mezzo a cavalli di Frisia, contro a reticolati, incontro a mitragliatrici — tac tac tac! — e bombe a mano, e sotto a shrapnel e — bum! — a palle da trecentocinque. Si sarebbe detto che tante maledizioni fossero state inventate non per meritar l’inferno a Guglielmo II, ma per far onore a lei sola, la bionda Adriana, che aveva per innamorato un giovane di fegato — e nessuno lo negava.
Quando poi ricevevano lettere, pretendendo non fossero scritte con libera volontà, le commentavano a loro modo, leggevano tra le righe le più strambe rivelazioni, le interpretavano a rovescio. «Non mi manca nulla» doveva significare che morivano di fame. «Per adesso non si combatte» significava — tac! tac! tac! e bum! bum! — battaglia e strage.
— E te, Ida? Cosa ti scrive il tuo Giulio? — spesso le chiedevano, forse anche per mortificarla, chè lei riceveva meno lettere.
Rispondeva senza scomporsi:
— Niente. Dice che fa il servizio di trasporto e che sta bene, e io credo a quel che dice.
— Fortunata te!
— Fortunato lui!
Ma una sera le fecero scappare davvero la pazienza. Fu così: lei che aveva trepidato e trepidava non ignara dei pericoli che pur Giulio correva, lei che a Giulio gli voleva un bene grande, non sempre si sottraeva all’ipotesi di una disgrazia; ma cotesta paura la teneva in sè, nel suo segreto; non ne avrebbe discorso nemmeno con sua madre, quasi per una ripugnanza di una tristezza colpevole o di un malaugurio.
Invece l’Adriana e l’Olga, che in sentimento d’amore pretendevano dar legge al mondo, non solo non rifuggivano dall’immaginare morti i loro innamorati: ne discorrevano per vantare la passione che esse ne proverebbero. E le frasi e le esclamazioni tragiche, per quanto potesse essere sincero il sentimento che le suggeriva, urtavano i nervi all’Ida come una finzione, una falsità.
L’Adriana affermò:
— Se Gustavo, che è troppo coraggioso, troppo! troppo!, ci restasse, oh, io non mi farei suora; vorrei che tutti vedessero, capissero il mio dolore e mi compiangessero. Uno uguale non lo troverei più! Nessun altro, mai più!
— E io — lamentò l’Olga con un’aria e una voce che pareva la Duse —, io diventerei matta! Lui, la mia vita, perderlo così? Non saper nemmeno dove fosse sepolto? Matta, state pur sicure; mi getterei dalla finestra!
Breve pausa. Poi:
— E tu, Ida?
Ebbene: questa domanda, questo distaccarsi dal pensiero orribile e passare a interrogar lei, quasi a provarla in una gara in cui prevedevano resterebbe inferiore, la disgustò del tutto.
— Tu cosa faresti se perdessi il tuo Giulio? — insistette l’Adriana.
E all’Ida brillarono gli occhi. L’eccitava il bisogno di un contrasto comico. Scoppiò a ridere, tanto era enorme ciò che le scappava detto, e disse:
— Oh! Per me, morto un papa, fatto un altro!

II.

Non ebbe appena pronunciate queste parole, che ne fu pentita.
— Viva la sincerità! — Viva la tua faccia! — esclamarono le amiche ridendo anche loro. E l’orgoglio non le permise di ribattere: — Non avete capito che ho scherzato? —, e la timidezza non le permise di dire, più duramente: — Voi non dovreste credere a me come io non credo a voi. — Tacque, ma dubitò subito che la risposta data per impazienza passasse di bocca in bocca in tutto il sobborgo come un’enormità fra vergognosa e ridicola; e quando fu in casa, il dubbio divenne timore, spavento. Cosa aveva detto! L’accuserebbero di aver poco giudizio e niente cuore; l’accuserebbero di ritenersi così bella che perduto un amante non le mancherebbero ammiratori e consolatori da sostituirlo. Figurarsi se l’invidia non ne approfitterebbe! Se qualche anima buona non si assumerebbe l’obbligo di aprir gli occhi al povero Giulio! E lui allora…. Si vedeva lasciata e screditata: per una leggerezza! per uno sfogo innocente! Stupide! causa loro….
Bisognava prevenire il colpo e confessar tutto a Giulio, subito; e lui giudicasse. Di coscienza, lei si sentiva meritevole di perdono. E si mise a scrivergli una lunga lettera, per dimostrare come il suo carattere discordasse dalle amiche e come e perchè coloro le fossero divenute antipatiche.
Ma arrivando al punto scabroso, alla frasaccia che pur doveva riferire: «Morto un papa….», non ardì tirar innanzi.
Troppo distava la brutta, cattiva, crudele espressione d’insensibilità dalle premesse e dalle proteste d’amore; e queste prendevano un aspetto di ripiego insufficiente. Cosa aveva detto! E l’immagine di lui così innamorato, così fiducioso, così fermo di volontà e d’animo per la speranza di averla interamente sua appena nel mondo tornasse la possibilità di esser felici, le si affacciò severa, ostile, minacciosa.
«Io — pensava che le direbbe —, io soffrivo a starti lontano; io soffrivo nei pericoli che correvo a ogni ora, a ogni momento, perchè mi figuravo il tuo strazio se mai ti portassero la notizia della mia morte; io sospiravo il giorno di riabbracciarti e ridarti la forza di sperare, di attendere la nostra felicità, e tu, intanto, non mi tradivi con un altro, no, ma m’ingannavi, per adesso, forse peggio: ti vergognavi di mostrarti innamorata di me: scherzavi indegnamente sul nostro amore, e la gente aveva da ridere compassionandomi. — Povero Giulio! Ti sei messo bene! Se una cannonata ti sfracellasse, eh! non dubitare che l’Ida si consolerebbe presto; e lo dice —».
Pianse; non dormì in tutta notte. E la mattina dopo, quando le amiche la chiamarono, al solito, dalla strada, sollecitandola che era tardi, e discese e si accompagnarono, al solito, avrebbe voluto tornar lei nel discorso e liberarsi dalla lunga ambascia; dire: — Badate, ragazze. Giulio mi è molto affezionato, ma guai a me se imparasse!… — Stava per vincere lo stento a umiliarsi; e provò invece un ineffabile sollievo a non scorger segno di malignità nella faccia dell’Adriana e dell’Olga; non un sorriso ambiguo. Le avrebbe baciate. Infatti non si era montata la testa con un timore assurdo? E poi, se interveniva qualche cosa di nuovo, dimenticherebbero del tutto per sempre quel discorso…. Erano così leggere!
E, grazie al cielo, il fatto nuovo, la distrazione fu la neve. Oh che danno per i loro stivaletti, che costavano tanto! L’argomento, nell’andata, mentre nevicava, fu non solo il prezzo delle scarpe, ma il costo della vita; la difficoltà a risparmiare per il giorno che metterebbero su casa.
E al ritorno la neve era alta. Dovettero fenderla, calcarla, spesso sprofondarvi.
L’Olga piagnucolava; l’Adriana malediceva il destino, e l’Ida, come se Dio l’aiutasse, rideva tutta contenta.
Seguì il gran freddo; il pericolo di cadere per la strada ghiacciata. Altro che conversare! Bisognava star dritte; e si sorreggevano a vicenda strillando a ogni scivolone.
Ma si rinnovarono i giorni delle confidenze. Già ritornavano i soldati dal fronte, in licenza invernale; e le amiche a lamentarsi e a protestare che le licenze non si dessero a tutti quanti.
— Il tuo Giulio verrà di certo — dicevano all’Ida.
— Verrà; tu sei fortunata.
Finchè, una sera, l’Adriana disse, maligna:
— E se non venisse, poco male, eh, Ida?, per te e per lui.
— Perchè? — lei chiese trepidando.
— Perchè tu non ti guasteresti il sangue; e lui potrebbe consolarsi con qualche ragazza di lassù. Dov’è il tuo Giulio ce ne sono che portano gli stivaletti alti, dicono; e non se li guadagnano in sartoria.
L’Ida si morse le labbra; l’Olga rise sguaiatamente, e aggiunse: — Poco male! Tanto, morto un papa, fatto un altro!
— Siete cattive! — allora esclamò l’Ida con la voce piena di pianto. — Io ho scherzato, e voi….
— Brutto scherzo! — interruppe, senza guardarla, l’Adriana, con solennità di rimprovero. — Brutto scherzo! Quel che hai detto è peggio che dire: «lontan dagli occhi, lontan dal cuore»; è come dire: «io non ti ho mai voluto bene, t’ho lusingato, e tu, sciocco che sei, m’hai dato mente». Anche peggio! È come dire: «a me non m’importa proprio niente della guerra, e che molti ci muoiano, e che tu ci muoia; io mi diverto lo stesso». Un uomo che abbia del sangue nelle vene e innamorato, a udir di queste belle proposizioni commetterebbe fino un delitto. Immaginarsi Gustavo! Mi ammazzerebbe!
(Bum!)
E l’Olga:
— Il mio Attilio mi scrive sempre: «Non mi abbandonare, per carità, per l’amor di Dio!» Se imparasse che io a dimenticarmi di lui ci durerei così poca fatica e che già prima che morisse avrei il coraggio di pensare a un altro, si accorerebbe di passione. Lui si ammazzerebbe.
(Buum!)
L’Ida si era riavuta: le cuoceva di essere stata debole. Le fissò con una mossa del capo di sotto in su, che significava: «Avete finito? Adesso parlo io». Ma non parlò a lungo. Gridò forte, perchè, nel sobborgo, molti udissero la canzonatura: — tac tac tac!… Bum! bum! — E soggiunse, forte: — Come siete buffe! — Poi, essendo prossima a casa, vi entrò di corsa, presa da un riso convulso. L’avevano amareggiata, ferita, offesa, dubitando, oltre che di lei, dell’uomo che amava; si contentassero se si era limitata a metterle in ridicolo, spasimanti fastidiose e spropositate!
Ma il giorno dopo non l’aspettarono per andare e tornare insieme. Essa finse di non curarsene e da quel giorno le prevenne nell’andata e nel ritorno a casa. In cuor suo, però, temeva; ne paventava il rancore, la vendetta; tanto più che Giulio veniva in licenza, e i fidanzati di quelle due non si erano ancor visti.

III.

Oh! dargli una prova che il pensiero di lei non lo abbandonerebbe mai più: sua per la vita e per la morte! Quante volte la morte lo aveva rasentato!; e perciò essa lo amava, ora, di più.
— Un giorno — raccontava Giulio — una nespola abbastanza grossa cadde proprio sul mio carro, s’internò fra i sacchi. Se scoppiava, addio Ida!
Essa, mentre egli parlava, mutava colore; egli sentiva fredda la mano che stringeva nella sua. E si guardavano negli occhi sorridendo.
Era arrivato, Giulio, la mattina. Un saluto ai suoi, ed era corso da lei. E discorrevano, soli, davanti al fuoco. Guardandosi riconoscevano il loro amore più vivo, più forte, più buono; le parole che dicevano, vibravano di un sentimento che ne superava il senso e il suono: così profondo e così grande che il silenzio e la luce degli occhi parevano esprimerlo meglio; e di quando in quando tacevano e si ascoltavano, finchè il silenzio diveniva una pena. L’Ida allora interrogava; ma non una delle domande gli fece che le amiche si sarebbero immaginate gli rivolgerebbe per gelosia. E lui, quel ragazzone di ventiquattro anni, che aveva una infantile dolcezza negli occhi chiari e aveva nel viso la serenità di un animo saldo e di una mente padrona di sè, lui non solo non dava segno di aver dubitato o di dubitare, ma dimostrava, a vederlo, che vicino a lei, nulla, nessuno al mondo avrebbe potuto turbarne la fiducia e l’amore. Nè lui nè lei dimenticavano intanto che la felicità era breve; che sarebbero di nuovo divisi, e sentivano che a soffrir meno dopo il nuovo distacco avrebbero dovuto fermare per sempre, nella memoria, quegli istanti gioiti. Come? Con una prova d’amore indissolubile, superiore a ogni lontananza, a ogni timore, a ogni evento; superiore a quella stessa felicità che il cuore palpitando e la mano stringendo la mano promettevano nell’avvenire.
— Ho da farti una confidenza — Giulio disse a un tratto.
— Anch’io.
— Prima io! Sai che trasporto non solo munizioni e materiali, ma feriti e morti?
— Non me l’hai mai scritto.
— Certe cose a voi donne è meglio non dirvele; ci piangete sopra o le esagerate.
— L’Adriana, sì, e l’Olga! — esclamò la ragazza —; a me fan rabbia per questo!
Senza badarle egli seguitò: — Dopo una avanzata, avevo avuto l’ordine di raccogliere i feriti austriaci e portarli, dalla prima linea, giù, al posto di medicazione; di dove le autoambulanze li trasferivano alle sezioni di sanità.
Descrisse il camion attrezzato, con le barelle sospese al di sopra per i feriti più gravi e le panche, sotto, per i meno gravi; insistè a dimostrare come era il luogo delle prime cure.
— Una casa di là dalla strada, al riparo dalle altre, tutte scoperchiate e rovinate. E stando col carro nella strada noi non vedevamo quelli dell’infermeria, e non eravamo visti.
— Ho capito — ripetè l’Ida.
— Io e il mio compagno, il meccanico, calavamo a terra, nelle barelle, i feriti; due soldati venivano a prenderli, a uno a uno. Ma non era finita la musica; squassava ancora l’aria il rombo di qualche cannonata e allora i feriti leggeri, che pensavano d’essersela cavata con poco e che forse avevano combattuto da bravi, si prendevano una gran paura e si raccomandavano:
— Jésus! Jésus!
L’Ida rise; ma chiese subito:
— E quelli più gravi?
— In una delle barelle ci avevamo un ufficiale, giovine; bel giovine! Moriva, e lo lasciarono lì, vicino al camion. Tanto, non c’era più niente da fare. Portarono via prima tutti gli altri; e si allontanò anche il mio compagno. Non avevamo mangiato dalla mattina, e andò all’infermeria a cercar del pane. Io, rimasto solo, stendevo una coperta da campo su quel disgraziato; quando riaprì gli occhi, e mi guardò. Voleva dirmi qualche cosa. Capirlo! Io capii che cercava di spiegarsi in italiano, ma lo spasimo delle ferite e la morte che arrivava gl’imbrogliavano la memoria.
L’Ida tacque ansiosa.
Finalmente si toccò con la mano destra il petto e con uno sforzo riuscì a dire: — Qui…. moneta, vostra. Carte, no. Fuoco, prego.
— Voleva che tu le bruciassi.
— Ah come disse «prego»! Preghiera di moribondo, pensai io. Gli apersi la giubba, tolsi il portafogli. E, nell’atto, il sangue mi si gelò nelle vene. Se qualcuno mi vedeva? Potevano vedermi i soldati che tornassero per portar via anche lui; o il mio compagno; o qualche altro camion di passaggio. Ladro! Sarei parso un ladro! E non era ancora morto!
— Che momento! — esclamò l’Ida.
— Mi sentivo cento occhi addosso; ma una idea mi rincorò; cavai le carte; lasciai i denari; rimisi il portafogli nella tasca. Non avrebbero potuto più dire che rubavo!
— Facesti bene. E le carte?
— L’angustia fu tale che non mi accorsi nemmeno che era spirato. Quando me ne accorsi, gli chiusi gli occhi, e gli tirai la coperta sul viso.
— E le carte?
— Le ho qui, con me….
Erano alcune lettere di mano femminile, in una busta; una fotografia e una ciocca di capelli biondi.
— Com’è bella! — esclamò l’Ida considerando, presso la finestra, il ritratto della giovine donna. Ma la sua ammirazione crebbe quando, sciolto il filo di seta che stringeva la ciocca, s’avvide che solo tre capelli bastavano a comporla, tanto erano lunghi! Disse: — Sono più belli dei miei.
Giulio scosse il capo e ribattè, serio:
— No; noi italiani preferiamo i capelli neri e lucenti, come i tuoi.
E ritornarono al focolare. Ripigliò lui:
— Bruciar tutto. Perchè?
— Volontà di moribondo.
— Perchè distruggere? — Giulio domandò.
— Si indovinerebbe dalle lettere, chi sapesse leggerle.
— Ho un superiore che lo conosce, il tedesco, ma non gliele ho mostrate.
— Hai fatto bene — disse l’Ida. E soggiunse: — Forse temeva, quel poveretto, che un giorno, se verrà la pace, le lettere e i ricordi fossero rimandati al suo paese. Temeva di compromettere la donna.
— Già — mormorò il giovine. — L’ho sospettato anch’io: la moglie di un altro. Io però non lo credo.
— E allora? — essa rifletteva. Mormorò: — Forse hai ragione tu. Non avrebbe aspettato all’ultimo momento se avesse temuto di comprometterla.
Ma Giulio scosse di nuovo il capo.
— No. Ignoranti o istruiti, in guerra si è tutti eguali; tutti persuasi, mentre si vedono cascar gli altri, che le pallottole, le spolette o le schegge debbano rispettar noi. E sai chi ci dà questa persuasione? Proprio i ricordi che si portano sul petto; di nostra madre e di chi ci vuol bene.
L’Ida sorrise, con gli occhi pieni di lagrime.
Egli prese dal portafogli il ritratto di lei; lo considerò quasi per rinnovarsi, ora che le sedeva vicino, le impressioni che aveva a considerarlo quando era lontano, lassù; e pacatamente lo ripose. Dopo, afferrò le lettere e la busta con la fotografia e la ciocca di capelli, e buttò tutto nel fuoco.
— «Fuoco, prego». — Cercava rendere con la sua voce il suono delle parole indimenticabili, e osservava le carte accendersi, la fiamma invaderle raggrinzando la busta. Esclamò:
— Vampata d’amore! —; e la frase gli parve così bella che guardò, contento, l’Ida. Ma essa:
— Di’ dunque: perchè distruggere?
— Ascolta — rispose Giulio. — Quando due che si sono amati, si lasciano, cosa fanno perchè ogni legame sia troncato per sempre? Si restituiscono i pegni d’amore. Un pegno è una memoria, è un obbligo a ricordare: è vero?
— È vero.
— Quell’ufficiale sentendosi morire pensò che la sua fidanzata, se riavesse le lettere, il ritratto, i capelli, non resterebbe legata alla sua memoria, come ci resterebbe invece se credesse che qualche cosa di lei fosse andato sottoterra con lui.
Se non che l’Ida obiettava ancora:
— Avrebbe pregato di seppellir le carte, non di bruciarle.
— Rifletti — ribattè Giulio. — Doveva dubitare che non lo seppellissi io; e non si fidò di altri, anche se io promettevo. Nel modo che mi guardava io capii che intendeva dirmi: di voi posso fidarmi. Sembran misteri e sono verità così semplici!
Alla ragazza tornarono a luccicare gli occhi.
— Ma io sarò più spiccio — seguitò Giulio. — Sul tuo ritratto ci scriverò: «Seppellitelo con me, prego». — E sorrise.
— Giulio! — gridò lei.
— E tu, se io morissi? — dimandò lui, pacatamente.
Ah, la prova; la gran prova d’amore!
L’Ida corse a prendere le forbici, si disciolse una treccia. E lui tagliò tre capelli, li compose in ciocchettina, li baciò e li pose col ritratto nel portafogli. Pacatamente.
Ma allora la ragazza gli gettò le braccia al collo singhiozzando. Piangeva come piange una bambina per meritar perdono.
— Cosa ti salta in mente? — fe’ Giulio scostandola a un tratto, e fissandola. Una nube gli passò per lo sguardo. Si ricordava adesso le parole di lei. — Che confidenza dicevi d’avermi a fare? — chiese.
— Questa — essa rispose rasserenata e felice: — che niente, nessuno al mondo mi separerà più da te. Capisci? Con te, vivo o morto, l’anima mia. Per sempre!

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: La ciocchettina
AUTORE: Albertazzi, Adolfo

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: Il diavolo nell'ampolla : novelle / Adolfo Albertazzi - Milano : Treves, 1918 - 194 p. ; 16 cm.

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)