La zingara
di
Cesare Pavese
tempo di lettura: 9 minuti
Come tutte le mattine mi svegliai prima di giorno, ma aspettai che fosse luce chiara prima di scendere dal letto. Era tanto di guadagnato sulla lunga giornata. La pioggia, al suo solito, invece di lavarmi il vetro me l’aveva insudiciato. Attesi alle cose mie senza avere il coraggio di uscir fuori. Verso le undici, spinto dalla fame, guardai il cielo e scesi quei tre scalini. Persisteva nel vento l’umidità della pioggia.
Tutto il mondo era un pantano agitato dal vento. Sulla porta delle case uomini immantellati aspettavano l’immancabile sole. Una donna scalza che attraversava la piazzetta mi diede il coraggio di arrivare fino all’osteria. Sulla soglia mi volsi – non per guardare il mare: sapevo già ch’era anch’esso un pantano – ma come facevo sempre caso mai qualcuno traversasse la piazza dietro a me. Di là dal vetro vidi seduto Carletto – gli altri se n’erano già andati – che aspettava guardando la porta. Si teneva afferrato, coi pugni chiusi, ai bordi del tavolino, nel gesto di chi sta per risolversi ad alzarsi facendo uno sforzo, e fissava la porta. Fissò anche me senza muoversi.
Non parlammo fin che non vennero i nostri piatti. C’era tutta la giornata per parlare e non era il caso di sprecare gli argomenti. Noi due avevamo già tanto parlato, che dovevamo pensarci due volte prima di aprire un discorso. A un tratto dissi che la vite del municipio era piú rossa che mai: tutto marciva e scoloriva in quel paese, ma non la vite del municipio. Carletto fece un cenno e tornò a chinarsi sul piatto. Mi ero già accorto che pensava a casa: era nel solito stato in cui ci si guarda intorno non credendo ai propri occhi e il boccone viene masticato a metà e dimenticato. Se cominciava quel discorso, non l’avrebbe piú smesso.
— Chi ti dice che anch’io non sia lontano da qualcuno? – gli avevo risposto una delle prime volte che mi aveva bloccato, e lui mi aveva rivolto un’occhiata sorpresa, sorpresa e felice, come di chi trova un amico insperato. E mi aveva raccontati tutti i particolari della sua solitudine, senza vergogna, senza piú ritegno, quasi ch’io potessi dargli la chiave di ciò che non avveniva, che non si poteva far sí che avvenisse, trattandosi di una volontà che non era la nostra.
Ma stavolta non parlò della moglie assente. Stavolta mi annunciò che in paese erano comparsi degli zingari, con pentole e carrette, che qualcuno era stato visto in mattinata, e le donne, al dire del barbiere di fronte, visitavano le case in cerca di lavoro. – Pare impossibile, – disse con improvvisa foga: – oggi qui, domani sulla montagna, dopodomani chi sa dove; nessuno li comanda, nessuno li trattiene. Sono l’opposto di noialtri.
— Sono di casa dappertutto, – dissi.
Carletto aveva di nuovo afferrato coi pugni il tavolo ai bordi e sembrava fare uno sforzo per starsene fermo.
— Mangia, – gli dissi.
Ma lo agitava specialmente la notizia che gli zingari andassero per il mondo accompagnati dalle loro donne. Diceva ch’era gente dal sangue caldo, che non potevano fare a meno delle donne, e per questo se le portavano dietro. – Devono fare una vita d’inferno, – ripeteva.
— Non vuoi mica scappare?
Mi rispose con una smorfia. Sul vetro s’era acceso un po’ di sole giallo, e mentre aspettavo che Carletto finisse di mangiare, fantasticai anch’io, sbirciando la luce pallida, sugli zingari e sul loro vagabondare. Uscimmo insieme sulla piazzetta, nel vento che dibatteva quel sole apocalittico, e non ci trovammo i soliti ragazzi a fare il chiasso. Una donna ci disse ch’erano andati a vedere gli zingari e c’indicò una certa direzione. Allora pian piano, senza dircelo, c’incamminammo lungo la spiaggia godendoci il poco sole che resisteva e adocchiando la schiuma terrosa del mare. Carletto non parlava. Teneva le mani dietro la schiena e calpestava meditabondo la sabbia bagnata.
Io guardavo la collina brulla. – Al loro posto me ne sarei già andato, – dissi a un tratto, incontenibilmente. Carletto non mi rispose.
Camminammo, camminammo fino al solito ciuffo di piante brulle e sfrondate. Qui la spiaggia era chiusa da rupi e bisognava salire sulla strada. Ci arrampicammo, guardammo oltre e non vedemmo segno di vita. Nell’aria vibrante non s’udiva altro che il cigolio del vento e i rimbombi del mare.
Su queste rupi eravamo soliti fumare, fumare fissando l’orizzonte e adocchiando il volto inconsueto delle rupi o le colline dietro di noi. Ma quel giorno non c’era nessuno, e il fumare fu presto finito. Carletto disse qualcosa sui molti inverni che dovevano ancora passare per noi su quella costa. Stavolta fui io a non rispondere.
Rientrammo in paese e gli dissi di venire a scaldarsi da me. Il sole se n’era andato, ma l’imbrunire era ancora lontano. L’osteria era vuota. – Qui sono morti tutti, – dissi. – Io vado a casa –. Carletto non mi mollava. In quei pomeriggi era diventato appiccicoso come le foglie marce. Non parlava, non dava segno di vita, non levava piú il capo. Pensava a sua moglie. Ma anch’io ero cosí stufo e solo, che provavo un sollievo a sentirmelo accanto. Poteva sempre darsi che dicesse qualcosa anche lui.
Entrammo nella stanza e misi subito il caffè sul fornello. Lui si sedette al suo solito sulla cassa del carbone, e accese la sigaretta con un impaccio che ogni volta mi faceva pena: le grosse mani sembrava avessero paura di toccare la sigaretta. Aveva imparato da me a fumare.
Sul tavolo c’erano libri, e Carletto anche questa volta vi posò gli occhi con una nuova sorpresa. Benché un tempo fosse stato operaio tipografo, vedeva con imbarazzo tanti libri e non capiva a che mi servissero. Adesso girava gli occhi per la stanza.
— Dicono che gli zingari sanno tutto, – brontolò. – Sanno tutto, girano il mondo, ne sanno piú di noialtri.
— È gente che non ha regola. Vivono a modo loro.
Poi mentre gli davo il caffè, lo feci parlare di sua moglie. Gli chiesi notizie, abbassai la voce e sentii nei suoi lamenti il consueto balbettio di commozione. L’avevo messo sul discorso di quel che faceva ai bei tempi tornando a casa dal lavoro, e delle speranze che la moglie aveva di sistemarsi e raggiungerlo, quando la porta a vetro socchiusa alle nostre spalle si dibatté, fu aperta e una voce energica ci fece voltare. Sulla soglia era salita una donna, una donna bruna dalla sottana svolazzante, che nella luce grigia di quel giorno maledetto ci guardava parlando a vanvera, e intanto teneva d’occhio qualcos’altro nel cortiletto, forse la porta contigua alla nostra. Con una mano ci tendeva una paletta e ci diceva gutturalmente di comprargliela, ma stava già sul punto di andarsene, quasi l’avessero chiamata.
— La zingara, – mi soffiò Carletto alle spalle.
Lí per lí imbarazzato, guardai la donna, specialmente il fazzoletto rosso che aveva annodato alla gola, e credetti che se ne andasse. Continuò per qualche secondo la lagna della sua voce, e la paletta di ferro veniva alzata e abbassata, ritmicamente, mentre la donna mezza dentro e mezza fuori a poco a poco ci guardava piú fisso, tanto che fu nella stanza e non me n’ero accorto.
— Compratemi una paletta, compratemi una paletta, – diceva guardandosi intorno e avanzando, con l’aria di sapere che lí per lí saremmo stati sbalorditi e non le avremmo risposto; e vide i libri, vide il bicchiere semipieno di caffè, vide le scorze d’arancia che facevano mucchio su una sedia, vide il letto disfatto e rovesciato. Era un viso non giovane, a capo scoperto, e i capelli intrisi di goccioline lucenti. Fuori piovigginava. Questa donna era magra di corpo e di pelle scura – una contadina di gesti rapidi e voce insolita. Calzava sotto la gonna due stivali, e soltanto per questo non pareva una contadina.
Lei guardava il fornello acceso e lasciò cadere la paletta. Carletto si era alzato, alle mie spalle, e io dissi qualcosa. La zingara aveva già mutato discorso. Con la stessa cadenza, ma con piú vivo calore, ci fissò entrambi negli occhi e disse bruscamente che molte donnacce avrebbero voluto trovarsi con noi magari subito ma che noi sapevamo l’arte nostra e le donnacce non potevano vantarsi di nulla, bensí noi potevamo vantarci di essere attesi e invocati da una donna prigioniera dietro porte di velluto. Dicendo questo, un sorriso le incise gli angoli della bocca. Non era uno scherno che avesse rapporto con le parole; aveva parlato senza fermarsi e, per quanto animatamente, con la cantilena macchinale di chi ripete un discorso. Quel sorriso era piuttosto il segno che ci aveva capiti.
La zingara posò la paletta contro la parete chinandosi senza perderci di vista e si cavò, non so come, un mazzo di carte da una tasca e cominciò a farlo schioccare tra le mani. Dissi a Carletto, che la guardava incredulo a bocca aperta, che quella era la buona sorte e se aveva voglia di sentirsela dire. Carletto, inaspettatamente, venne avanti di un passo, e si animò tutto e passò la mano sul tavolo come a sgombrarlo perché la zingara potesse farci il suo gioco. Ma la zingara mi chiese «un segno».
Misi sul tavolo una moneta – la prima che mi venne tra le dita, e lei cominciò a guardarmi fisso facendo scorrere le carte sotto il pollice. Le dissi allora che non io ma quell’altro aspettava la sorte, e risi come aveva sorriso lei prima e andai al fornello, lo attizzai, voltandomi a dire che conoscevo la mia sorte per almeno tre anni. Lei, senza insistere, prese la mano di Carletto e se la voltò a palma in su.
Era strana, la grossa mano pesante di Carletto, abbandonata nelle mani della donna e scrutata cosí. Ma subito fu lasciata ricadere e la zingara disse che mani come quelle non parlavano; posò il mazzo di carte sul tavolo, e le distese. Io adesso la vedevo china, quasi di schiena, sentivo i suoi brontolii e i suoi aneliti, i piccoli gridi di sorpresa – il discorso che si fa a un lattante o a un gattino vezzeggiandolo. Quegli stivali e il fazzoletto rosso, e gli occhi pronti e inafferrabili che indovinavo intenti al gioco, quasi mi fecero dimenticare che non era piú giovane. Non mi sarei stupito se, voltandosi, mi fosse apparsa bella e fiera, ridente, come la sposa di un bandito.
Chi l’ascoltava col cuore in gola, era Carletto. Dubbioso e intento, con la fronte corrugata, seguiva i gesti delle mani sulle carte e riceveva le rivelazioni e salutava le figure con l’aria di chi le vedesse allora per la prima volta. Osò perfino qualche domanda.
La zingara gli diceva che lasciasse fare alle donne. Due donne, una nota e una ignota, se lo contendevano e si sorvegliavano a vicenda. I suoi rivali erano già sconfitti in partenza. Una lettera stava volando verso di lui. Una malattia gli avrebbe mutato la sorte. La sorte del resto basta interrogarla perché si affretti. In quello stesso momento stavano contando una somma ch’era destinata a lui e una donna sognava i suoi baci.
— Volete il caffè? – dissi alla zingara, quando si volse. Le pieghe scure che le incidevano la bocca le avevo dimenticate, e mi stupirono quando le rividi. Peccato quell’asciuttezza e quella tensione di tratti. Aveva gli occhi e i movimenti di una donna stata bella.
Lei sorrise, con quell’involontario viso di scherno ch’era la sua cordialità. Si aggiustò la gonna, si passò un dito tra la gola e il fazzoletto, e guardò la stanza volubilmente, prendendo la tazza.
Si sedette, rispondendo a Carletto che voleva sapere qualcosa ancora, ma volgendosi a me, e disse che tutti gli uomini hanno un destino e una donna che pensa a loro.
Carletto le chiese quale fosse il destino delle donne. Mi scappò da sorridere. Aveva parlato in piedi, con una voce tra goffa e tentante, come di chi voglia scherzare, con un viso ancora serio e corrugato.
— L’uomo, – disse la zingara, accostando la bocca alla tazza. E ci scrutò mentre beveva. Io le guardai gli stivali un’altra volta.
— Avete degli stivali da uomo, – dissi. – Li portate sempre?
— Faccio molta strada.
— Non andate sul carro?
— Il carro va spinto, quando le strade sono rotte.
— Non vi fermate nei paesi?
Carletto ci guardava parlare, esitante, al fianco della mia sedia. Disse alzando il capo: – Non sta mica bene una donna, con quelle scarpe. Le tenete sempre nei piedi?
La zingara rise, un po’ rauca. – Me le tolgo per dormire nel letto –. E guardò, con quegli occhi, alle nostre spalle.
— Sul carro avete il letto? – dissi.
Mi fissò, impavida. – No, ma ne trovo delle volte che mi piacciono.
Allora mi volsi a Carletto, quasi a invitarlo che dicesse la sua. Carletto, con le mani in tasca, fissava di sotto in su la zingara, tra pronto e imbronciato. «Adesso le dice di sua moglie», pensavo. Ma Carletto fece un passo avanti, a testa bassa come un toro, e con una voce malferma, quasi rabbiosa, balbettò: – Se vi togliete gli stivali, qui potete anche dormire.
La donna guardò da me a lui, guardò in mezzo, ci guardò entrambi e aveva di nuovo sulla bocca quella piega macchinale. Ma stavolta rideva.
Tacemmo un momento, e io mi alzai. Fuori la nebbia aveva preso una tinta azzurra, quasi caliginosa. – Non piove piú, – dissi guardando il vetro. – Vado a vedere all’osteria se c’è qualcuno. Tu poi vieni a cena.
E senza badare a Carletto, feci un sorriso e un cenno di saluto alla zingara, chiusi l’impermeabile e uscii.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: La zingara
AUTORE: Pavese, Cesare
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze
TRATTO DA: Racconti / Cesare Pavese. - Torino : Einaudi, [1994]. - 525 p. ; 20 cm.
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)