La dea dinamo
di
H. G. Wells
tempo di lettura: 13 minuti
Giacomo Holroyd era l’uomo addetto alla vigilanza delle tre dinamo dell’officina di Camberwell, che comunicavano la forza motrice alla vicina ferrovia elettrica.
Giacomo Holroyd, ottimo elettricista, ma gran bevitore di whisky, fisicamente era un omaccione tarchiato, dai capelli rossi e dai denti irregolari; moralmente: un poco di buono che metteva in dubbio l’esistenza di Dio e non riconosceva altra divinità all’infuori della forza e della brutalità.
Egli aveva per aiutante un certo Azuma-Zi, uomo dalla pelle nera, venuto dal misterioso oriente, e che aveva soprannominato Pooh-Bah.
Holroyd preferiva un moro ad un uomo dalla pelle bianca, perchè il moro sopporta le busse (ed Holroyd aveva l’abitudine di darne) ed anche perchè non s’immischia nelle cose di meccanica.
Holroyd non si era mai dato pensiero su ciò che può avvenire di strano nel cervello di un moro messo ex-abrupto a contatto delle raffinatezze della nostra civiltà. Vedrete, però, che in fine ebbe a sospettarne qualcosa.
Un etnografo avrebbe avuto grande difficoltà a definire la razza alla quale apparteneva Azuma-Zi. Egli aveva più del tipo «negroide» che altro, benchè i suoi capelli fossero ricciuti anzichè crespi, ed il suo naso fosse arcuato.
D’altra parte la pelle era piuttosto bruno-olivastra anzichè nera, e il bianco degli occhi era giallognolo. Gli zigomi prominenti ed il mento piuttosto stretto, davano alla sua fisionomia un aspetto triangolare e viperino. Aveva la testa allargata posteriormente ed una fronte schiacciata e stretta, come se le circonvoluzioni del suo cervello fossero state intrecciate fra di loro nell’ordine inverso di quello di un Europeo. Piccola era la sua statura ed assai più piccolo il suo sapere, tanto che a stento riesciva ad esprimersi in inglese.
Lo si interrogava? Egli rispondeva con una serie di rumori strani, che erano quotati pochissimo sul mercato delle lingue umane; e le sue rarissime parole avevano la bizzarria ed il grottesco delle chimere dei blasoni.
Holroyd cercava di scandagliare le credenze religiose del moro, facendogli, specialmente dopo avere copiosamente bevuto, prediche su prediche intorno alle superstizioni ed ai missionari.
Ma Azuma-Zi evitava di discutere sopra tale argomento per tema di essere percosso. Egli era arrivato a Londra a bordo del Lord Clive proveniente dalle Indie malacche, vestite di bianco, ma poco vestito; aveva udito parlare, quando era fanciullo, della grandezza e delle ricchezze della metropoli, dove tutte le donne sono bianche e belle, e dove anche i mendicanti delle strade sono bianchi; era arrivato colle tasche discretamente piene di monete d’oro, per prosternarsi innanzi all’altare della civiltà, e sbarcato in una sera scura, con una pioggia fina fina, si era, senz’altro, tuffato nelle delizie di Londra. La sua salute ne fu scossa; ma era vestito da uomo civilizzato e senza un soldo in tasca!… Ed ora era diventato un animale muto, salvo nei casi di necessità estrema, destinato a lavorare per conto del signor Holroyd, e ad essere da questi bastonato.
Vi erario a Camberwell tre dinamo coi loro rispettivi motori. Due di queste dinamo esistevano dalla fondazione dell’officina, ed erano piccole e di vecchio modello. La terza, la più recente, era la più grande e di modello nuovo.
Le piccole dinamo facevano un rumore ragionevole; le loro cinghie senza fine strisciavano sui tamburi, ogni tanto le spazzole ronzavano e fischiavano. Una delle due macchine, però, era male fissata al suo basamento e faceva tremare tutta la tettoia. La grossa dinamo, invece, copriva interamente tutti gli altri rumori col ronzìo continuo e potente del suo corpo di ferro.
Sotto a quella tettoia era il regno del rumore e del movimento: palpitazioni ripetute delle macchine, rotazione dei volanti, movimento delle valvole, getti intermittenti di vapore, e sopra ogni altra cosa la nota incessante e pesante, ora ronzante ed ora russante, della grossa dinamo! E se per gli ingegneri questa nota poteva essere un lieve difetto, per Azuma-Zi non era altro che la manifestazione della potenza e dell’orgoglio del mostro di ferro.
Noi vorremmo, se fosse possibile, che il lettore avesse sempre nelle orecchie tutti quei rumori! Sarebbero l’accompagnamento naturale della nostra storia.
Per tre mesi di seguito Holroyd, il refrattario, ed Azuma-Zi, il moro, rimasero in mezzo a quel frastuono ed a quel turbinìo. Essi dormivano e mangiavano in una piccola capanna di legno costrutta fra la tettoia e la porta dell’officina. Holroyd, qualche giorno dopo l’arrivo di Azuma-Zi, fece a quest’ultimo una conferenza teologica sopra l’enorme macchina. Dovette urlare per farsi capire in mezzo a quel frastuono.
— Guardala bene! – diceva egli, – quale de’ tuoi idoli potrebbe starle a paragone?
E Azuma-Zi guardava, e in sulle prime non poteva capire il senso del discorso di Holroyd; ma poi le parole: «uccidere cento uomini…. è come un dio,» lo colpirono profondamente.
Holroyd andava superbo della sua grossa dinamo e ne spiegava, con grande compiacenza le dimensioni, la potenza, e tanto bene spiegò, che Dio solo sa quante idee strane fece entrare nel cervello di quella strana testa.
Un giorno, dopo avere enumerato in uno stile assai pittoresco le dodici o tredici maniere in cui un uomo poteva rimanere ucciso dalla macchina, per dare un esempio pratico ad Azuma-Zi gli fece prendere una forte scossa elettrica.
Nei momenti di riposo il moro osservava estatico la dinamo, e le spazzole che ogni tanto sprigionavano scintille violacee, e così la grossa macchina viveva sotto la custodia di quei due, viveva libera sotto una grande tettoia, non imprigionata come quelle macchine che servono da propulsori ai bastimenti, dèmoni al servizio della «British Solomon.» Questa era una macchina superiore; le altre erano quasi da disprezzare, secondo Azuma-Zi, ed egli l’aveva battezzata Dea delle Dinamo! Invece di essere febbrile ed irregolare, la grande macchina era disciplinata! E che mole! Quale serenità, quale sicurezza nel suo lavoro! Non era forse più grande e più calma del Budda che aveva veduto a Rangoo? E non stava immobile come il dio? Essa viveva, essa!
I grossi rocchetti neri roteavano presto, presto; gli anelli giravano intorno alle spazzole, ed il ronzìo regolare dominava tutto! Ed Azuma-Zi provava in sè una impressione strana. Egli non amava molto lavorare, e volentieri si metteva a sedere per osservare la Dea delle Dinamo, mentre Holroyd usciva dalla tettoia per andare a bere del whiskhy.
Eppure il posto del moro non era lì; egli doveva stare nella stanza delle caldaie, e quando Holroyd lo coglieva in fallo, gli somministrava una buona dose di busse con una grossa striscia di cuoio.
Ma il moro non se ne dava per inteso! Appena l’altro usciva, egli correva subito vicino al colosso di ferro, e l’ammirava come se l’avesse visto per la prima volta, e fissava ogni tanto il suo sguardo sulla grande cinghia che scivolava al di sopra del suo capo.
Vi era su quella cinghia una macchia nera che ritornava senza posa, ed egli amava, in mezzo a quel frastuono, vederla ritornare sempre e poi sempre; ciò gli dava delle strane idee.
Egli era persuaso che tutte quelle cose avessero un’anima! I selvaggi non danno forse un’anima alle roccie, agli alberi?
E Azuma-Zi era rimasto un selvaggio sotto quella vernice di civiltà. Il padre suo aveva adorato una pietra caduta dal cielo ed i parenti suoi avevano forse chiazzato di sangue le ruote del carro di Jaggernaut o di Visnù!
Il fatto si è che Azuma-Zi approfittava di tutte le assenze di Holroyd per ammirare e toccare la grossa dinamo che lo affascinava.
La puliva e ripuliva così bene, che le parti metalliche illuminate dal sole mandavano un bagliore accecante, e facendo quella pulizia era persuaso di adempire un sacro e misterioso dovere!
Al diavolo gli dei che aveva adorato! Questo solo era potente e grande!
A poco a poco i sentimenti del moro diventarono più chiari, più precisi, presero la forma d’idee e gli suggerirono degli atti.
Infatti, un bel mattino, entrando sotto la tettoia rumorosa ed approfittando come al solito dell’assenza di Holroyd, si prosternò innanzi alla Dea delle Dinamo, mormorando:
— Io sarò il vostro schiavo umilissimo, abbiate pietà di me, liberatemi dalle mani di Holroyd!
Per una strana coincidenza, appena ebbe terminato di pronunciare quelle parole, un raggio di sole penetrò dalla porta, aperta, ed illuminò la dinamo; Azuma-Zi vide allora la sua dea circondata da una aureola e capì, od almeno credè di capire, che il suo culto era ben accetto, e non si sentì più tanto solo come per il passato.
Dopo un po’ di giorni, essendo stato violentemente maltrattato da Holroyd, corse di filato dalla Dea delle Dinamo e le mormorò:
— Onnipossente dea, osserva che lividure mi ha prodotto il cattivo Holroyd!
Un ronzìo più forte del solito parve rispondergli; e da quel giorno il moro ebbe l’impressione che ogni qualvolta entrava Holroyd sotto la tettoia, il ronzìo della dinamo si facesse più forte e più cupo.
— La dea aspetta l’ora fatale, – diceva fra sè Azuma-Zi, – l’iniquità del colpevole non ha ancora colmato la coppa!
E pazientò, ed attese tranquillamente l’ora del giudizio.
Quell’ora non tardò molto a venire, e fu preceduta da un avvertimento della dea. Un giorno, infatti, si formò un corto circuito, ed Holroyd, volendo indagarne la causa, toccò involontariamente un rocchetto e ricevette una scossa così forte, che fu balzato violentemente indietro, bestemmiando ed urlando.
— Ecco l’avvertimento della dea! – pensò Azuma-Zi. – Essa è assai indulgente per il miserabile!
Ma Holroyd non era certamente dello stesso parere. Egli sospettò invece che la causa del corto circuito si dovesse attribuire a qualche imperizia od imprudenza del moro, e scorgendolo appunto dietro alla dinamo, gli urlò con voce che dominava tutti i rumori della tettoia:
— Se ti vedo ancora vicino a questa macchina, ti scortico vivo!
Lì per lì Azuma-Zi, prendendo in considerazione quell’avvertimento, obbedì e si allontanò; ma pochi minuti dopo, Holroyd lo sorprese di nuovo prosternato ai piedi della dea Dinamo, e questa disobbedienza costò al moro un potente calcio là dove finisce la schiena.
Ma neppure quell’avvertimento materiale non bastò a persuadere Azuma-Zi! Il suo culto per la dea, e l’odio che aveva per quell’uomo bianco, gli avrebbero fatto sopportare ben altri maltrattamenti! Ed un giorno che Holroyd gli voltava le spalle, e che egli come al solito si era avvicinato furtivamente alla grossa macchina, gli parve udire nei soliti ronzii della dinamo alcune parole della sua lingua natale.
Cos’è esattamente la pazzia? Difficile sarebbe dirlo! Per conto mio, sono persuaso che Azuma-Zi fosse pazzo. Il rumore ed il movimento incessante di quelle macchine avevano prodotto nel suo debole cervello saturo di superstizioni uno sconvolgimento tale da produrgli il delirio, ed una idea fissa lo perseguitava: immolare all’altare della dea quell’uomo bianco tanto odiato! Del resto nulla di più naturale: era la dea Dinamo che lo voleva; e glielo aveva detto nella sua lingua natale! Bisognava dunque obbedirle e presto!…
Quella notte i due uomini erano rimasti soli sotto la tettoia e non avevano altra compagnia che le loro rispettive ombre. Una grande lampada ad arco illuminava con luce scialba le dinamo proiettanti cupe ombre nelle quali sparivano rapidamente i regolatori per apparire scintillanti pochi istanti dopo.
Fuori tutto era tranquillo e silenzioso, ed il rumore assordante delle tre macchine faceva apparire ancor più silenzioso e tranquillo il mondo circostante la tettoia. Dalla porta aperta, si scorgeva la nera palizzata dell’officina, le case lontane dall’aspetto di fantasmi ed il cielo cosparso di pallide stelle.
Improvvisamente Azuma-Zi attraversò il camerone passando sotto le cinghie giranti, e sparì nell’ombra vicino alla grossa dinamo.
Poco dopo si udì uno scatto ed il movimento della grande macchina cambiò velocità.
— Cosa diavolo fai? – urlò Holroyd; – ti ho proibito mille volte di toccare quella macchina, canaglia!
Ma il moro era uscito dall’ombra e si avanzava verso Holroyd, si avanzava quasi strisciando ed aveva strani e cupi bagliori negli occhi. Prima che l’altro se ne fosse accorto ed avesse potuto mettersi sulle difese, Azuma-Zi d’un balzo gli si era buttato addosso.
I due uomini lottarono per un po’ strettamente avviticchiati davanti alla grande dinamo.
Azuma-Zi tentava con ambe le mani di strangolare Holroyd, mentre questi menava pugni da disperato; ad un tratto quest’ultimo inciampò e cadde all’indietro contro la dinamo, ed Azuma-Zi, istintivamente, per evitare il contatto della macchina, abbandonò l’avversario.
***
L’operaio che fu inviato d’urgenza dalla stazione della ferrovia elettrica all’officina, per conoscere la causa dell’interruzione di corrente, incontrò Azuma-Zi nel casotto del portinaio, vicino all’ingresso.
Interrogato sull’accaduto, il moro rispose con parole incomprensibili, sicchè l’altro corse difilato sotto la tettoia. Colà, nulla gli parve irregolare, le macchine funzionavano rumorosamente secondo il solito, ma fu colpito da un forte odore di capelli bruciati, ed avvicinandosi alla grossa dinamo, gli parve di scorgere una massa informe giacente proprio ai piedi della macchina. Osservò attentamente, e rimase inorridito e pieno di stupore nel riconoscere in quella, massa informe un corpo umano orrendamente insanguinato e mutilato!
Il corpo di Holroyd!
Senza porre tempo in mezzo, l’operaio uscì correndo dalla tettoia, per narrare l’accaduto ai suoi superiori.
Quando Azuma-Zi vide morire Holroyd orribilmente dilaniato dalla grossa dinamo, sulle prime provò un grande sgomento pensando alle conseguenze del suo delitto; ma poco dopo un sentimento di orgoglio subentrò nell’animo suo, e fu completamente felice di aver obbedito alla dea, persuaso di esserne ormai il favorito! Egli aveva già stabilito la sua regola di condotta, e nessuno avrebbe potuto farlo fuorviare.
Giunsero frettolosi all’officina il direttore e il capo tecnico. Essi interrogarono Azuma-Zi; ma questi rispose che non si era mosso dalla stanza delle caldaie, e che per conseguenza non aveva potuto vedere nulla di ciò che era successo sotto la tettoia delle dinamo. Non essendovi stati testimoni, l’inchiesta non fu lunga, e la morte di Holroyd fu attribuita a suicidio. I miseri avanzi del disgraziato furono intanto deposti in un angolo sotto la tettoia, e pietosamente ricoperti con un tappeto.
Il capo tecnico, senza por tempo in mezzo, si affrettò a ridare il regolare funzionamento alla macchina, perchè quell’interruzione di corrente aveva cagionato la fermata di parecchi treni sotto oscure gallerie, fermata non certo stabilita dall’orario.
Insomma, dal punto di vista della vita meccanica, ciò che era successo non era stato altro che un incidente insignificante. Una semplice deviazione di corrente! Azuma-Zi, tranquillo e beato, dalla stanza delle caldaie osservava le dinamo, osservava il direttore dell’officina che andava e veniva sotto la tettoia, ed in quel frastuono gli pareva udire la voce tonante della dea che lo ringraziava per la sua devozione! E fissava intensamente quella grossa macchina, e ne era affascinato, e quella morte subitanea e terribile di Holroyd, quella morte che non aveva cagionato alla dinamo la minima variazione di velocità, quella morte lo stupefaceva oltremodo, ed in essa riconosceva l’immensa potenza della dea!
Il direttore si era fermato, e volgendo le spalle ad Azuma-Zi, era intento a scrivere alcuni appunti, sopra un taccuino.
«La dea Dinamo ha ancora fame! Il suo servitore
l’accontenterà!» pensò fra sè Azuma-Zi; e cautamente si avanzò verso il direttore. Questi improvvisamente cessò di scrivere e si avvicinò alla dinamo più lontana per esaminarne le spazzole. Azuma-Zi rimase per un istante indeciso, ma poi strisciò nell’ombra per pochi passi e si avventò sul direttore cercando di trascinarlo verso la grande dinamo. Fortunatamente l’altro, che era agile e snello, riuscì a svincolarsi dalle strette del moro e diè un balzo indietro.
Ma furibondo, Azuma-Zi tornò per la seconda volta alla carica, abbrancò l’avversario, e gli puntò sul petto la testa ricciuta stringendogli fortemente le braccia con ambe le mani poderose; l’altro cercò liberarsi da quella stretta menando calci, ma invano, ed avrebbe fatto la fine di Holroyd, se approfittando di un istante in cui il moro aveva alzato la testa, non gli avesse addentato un’orecchia.
Azuma-Zi diè un urlo, ed i due uomini ruzzolarono in terra. Continuarono a lottare come due belve, e già il moro era riuscito ad afferrare il collo dell’avversario, quando, fortunatamente per quest’ultimo, si udirono dei passi frettolosi sotto la tettoia. Azuma-Zi si alzò di botto e corse rapidamente verso la grossa dinamo. Un rumore insolito interruppe il ronzìo delle macchine.
L’impiegato all’officina, che appunto in quel momento era accorso, rimase colpito da stupore vedendo il moro afferrare con ambe le mani le estremità scoperte dei conduttori elettrici. Azuma-Zi ebbe un contorcimento spaventoso in tutto il corpo, quindi rimase sospeso alla macchina, immobile, fulminato, la faccia orrendamente sconvolta.
— Siete giunto in tempo! – esclamò il direttore ancora seduto in terra. E guardò il cadavere del moro. – Non deve essere spiacevole il morire in tal modo! Se non altro, la cosa è assai spiccia!
Ma l’altro, ammutolito dal terrore, fissava sempre il corpo sospeso di Azuma-Zi.
Per alcuni minuti, i due uomini non fiatarono; finalmente il direttore si rialzò non senza fatica, ed appena fu in piedi incominciò a palparsi il collo ed a muovere la testa, forse per assicurarsi che realmente era ancora in vita!
— Povero Holroyd, – esclamò dopo un po’, – ora capisco tutto.
Si avvicinò alla dinamo, girò una maniglia e rimandò nei fili della ferrovia la corrente deviata. Nello stesso istante, il corpo calcinato del moro cadde pesantemente a terra, e la dinamo riprese il suo ronzìo abituale.
E questa fu la fine prematura del culto della dea Dinamo. Effimera più di ogni altra fu questa religione, ma ebbe anch’essa un martire ed un sacrificio umano.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: La dea dinamo
AUTORE: Wells, Herbert George
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Novelle straordinarie / H. G. Wells ; [illustrazioni di Celso Ondano]. - Milano : Fratelli Treves, 1905. - 211 p., [10] c. di tav. : ill. ; 27 cm.
SOGGETTO:
FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)
FIC028040 FICTION / Fantascienza / Brevi Racconti