Il capitano

di
Cesare Pavese

tempo di lettura: 14 minuti


I.

Salivo quella scala semibuia in certe sere silenziose, dopo che avevo lasciato sull’angolo la ragazza; e a metà della rampa guardavo da una finestretta che dava sul cielo nudo. Non mi fermavo; facevo una carezza mentale al grande cielo che giungeva fin là dentro, e suonavo alla porta. Adesso so che il mio ospite nell’occhiata rapida che mi gettava, metteva la stessa furtiva intensità che un attimo prima io avevo dedicato al cielo, ma allora ero piú sciocco: mi figuravo di fargli piacere mostrandomi fatuo. Discorrevamo; a poco a poco io tacevo e lasciavo rapprendersi nella stanza il silenzio di prima; lasciavo che le scure pareti giganteggiassero intorno alla luce del nostro angolo; e sapevo che il mio ospite se ne contentava, e che un’ora dopo, quando me ne sarei andato, mi avrebbe detto di tornare.
Siccome era un uomo grande, non vecchio, dai gesti cauti e robusti come un contadino, non osavo accennargli in chiare parole ciò che in quelle sere m’infatuava: sarebbe stato assurdo come chiedergli se approvasse un colore o un profumo. Volevo però che sentisse in me una capacità di monelleria tale da farlo sorridere.
— Come si vestono adesso le donne? – mi chiese una volta. Levai la testa, stupito. – Intendo, che effetto fanno a voi giovani? – Esitavo, e lui aggiunse: – Già, per voialtri, sono sempre vestite allo stesso modo.
Aveva di queste uscite inaspettate. Io lo visitavo con una certa frequenza, semplicemente perché l’angolo dei distacchi era proprio sotto casa sua, e il portone di quell’enorme caseggiato non si chiudeva a nessuna ora della notte. Credo non ci fosse portinaio. Ero stato a trovarlo una prima volta mandato da certi amici politicanti, ma lui invece di rispondere alle mie allusioni stava zitto o, riscuotendosi improvvisamente, mi faceva insolite domande e se le spiegava da solo, ascoltando poi senza batter ciglio ciò che sapevo dirgli. In quell’unica grande stanza c’era odor di chiuso e un cert’ordine disordinato dovuto al molto spazio vuoto. Solamente nell’angolo illuminato, formato da due vecchie poltrone e da una scansia piena di giornali dov’era posata la lampada, ci si sentiva in una stanza abitata. Provavo un senso avventuroso a trovarmi con lui in quell’intimità, e una certa nostalgia dell’aria aperta e dell’indomani, ch’è inseparabile dalla solitudine notturna. Quella pausa serale dopo la compagnia che lasciavo, era come un suggello di virilità. E il sorriso e i fatui pensieri li dedicavo al mio ospite per meglio godere nel contrasto la sua presenza e dichiarargli la modestia con cui lo ascoltavo.
Una sera mi disse: – Perché vieni da me invece di andare a divertirti?
Gli sorrisi con un mezzo sorriso.
— Alla tua età ero piú sveglio, – riprese.
— C’è tempo per tutto, – risposi.
— Perché vuoi occuparti di politica che non è il tuo mestiere?
Questo mi ferí. Lasciai passare un po’ di tempo, noi si parlava cosí, e dissi con un certo affanno che volevo appunto sentire per farmi un’idea. Ma lui non riprese il discorso e quella notte, accomiatandomi, non mi disse di tornare. Forse era soltanto la mia agitazione che mi fece risentire di una dimenticanza avvenuta già altre volte, ma comunque ripensai molto a quell’ingiusto trattamento; poi, come succede, non tardai a convincermi che il torto era mio e mi disperai che quel maledetto avesse cosí bene penetrato il mio segreto.
In conseguenza, mi urtai l’indomani con la ragazza che voleva sapere perché fossi soprapensiero, e a lei non potevo certo dire di quel giudizio: cosí passai degli istanti avviliti, scoprendomi inetto a ogni cosa. Ma sere dopo ero di nuovo su per quella scala, perché l’abitudine e la stagione cospiravano a farmi ricercare quella pausa notturna. Il Capitano – cosí lo chiamavamo – mi aprí la porta con la consueta indifferenza, e mi accolse come se nulla fosse stato.
— Non sappiamo star soli, – disse, faceto. Nascosi la mia soddisfazione, e brontolai che non venivo da lui per svogliatezza, ma perché imparavo qualcosa. Non mi chiese che cosa; disse invece che bisognava imparare a star soli. Protestai che vivevo da solo, e lui sorrise di nuovo e si chinò avanti nella luce. – Sei troppo giovane per questo, – disse. – Siete tutti troppo giovani. Vi piace chiacchierare. La compagnia fa dire delle sciocchezze.
Pensai che per agire ci voleva pure compagnia, e glielo dissi. Non mi rispose e continuò: – Che cosa credete di fare chiacchierando?
— Io chiacchiero soltanto con le donne.
Al solito il discorso s’impaludò in un silenzio, e feci invano un’altra domanda su quello che avesse da rimproverarmi. Tacque guardando il tavolo e non levava gli occhi; dentro di me fui lieto che non l’avesse con la mia ragazza, e stavo già per rifare quel sorriso scemo, quando riprese:
— La prigione ha questo di bello, che insegna a non chiacchierare.
— Credevo invece che si uscisse con una gran voglia di compagnia.
— Certamente. I primi tempi, – brontolò. – Ma poi ti accorgi che hai imparato a farne a meno. Tutto il mondo diventa come una prigione. E voialtri ne avete bisogno.
Fu in quei giorni che l’amico N., uno di quelli che mi ci avevano mandato, mi parlò di lui con degnazione. Stavamo discutendo un suo progetto, e ricordo che gli chiesi a un certo punto che cosa ne pensasse il Capitano. L’amico mi guardò per traverso, quasi bieco, e sospirò. Chiesi seccato che cos’avesse contro di lui. L’amico allora mi spiegò che il Capitano nella sua lunga reclusione aveva perduto il contatto con la realtà ed era ormai un uomo del passato, incapace di seguirci.
— Potrebbe però comandarci, – dissi.
L’amico mi guardò male un’altra volta.
Quando parlai di lui al Capitano, questi non si scompose e mi disse ch’era un giovane da fidarsi.
— Vale qualcosa? – insistetti. Il Capitano s’irritò e, siccome tacevo, mi rispose: – Tu sei troppo intelligente. Non fare il ritratto dei compagni. Lavora –. Non potevo riferirgli quel che aveva detto di lui e la disputa finí. Dopo tutto, il mondo non consisteva soltanto di quella soffitta. Quel che facevo con gli amici aveva pure un significato.
Rimasi male, però, la volta dopo che, fresco ancora dell’occhiata a quella finestra, trovai seduto nel nostro cantuccio proprio l’amico N. Levò gli occhi da una rivista e mi accennò un saluto distratto. Non li avevo sentiti discorrere dall’esterno perché l’amico parlava naturalmente sommesso e il Capitano al solito doveva ascoltare. Mi fermai in mezzo alla stanza e chiesi se per caso disturbavo. – Siediti e non fare lo scemo, – disse N.
Rimasi invece nella penombra appoggiato sullo schienale della poltrona, guardando il Capitano ch’era tornato a sedersi di fronte a noi. Mi parve che attendessero ch’io dicessi qualcosa, ma io ero ben deciso, giacché il caso mi aveva fatto intruso, a restare sul margine della luce e godermi la discussione. L’amico torse la faccia a sbirciarmi e borbottò: – Avete litigato? – Credeva di mettermi in posizione di discolpa, giacché sapeva benissimo che ogni sera lasciavo la ragazza a quell’ora. – Fate i vostri discorsi, – risposi. – Io non ci sono.
Si guardarono di sfuggita – il Capitano senza scomporsi – con l’aria di divertirsi, e N. tornando a voltarmi le spalle spiattellò, quasi che davvero non ci fossi, le sue ragioni in piena luce. – Ve lo dicevo, Capitano? Quest’è Pippo. Pippo ama stare a guardare. Guarda le cose piú pericolose. Non c’è spettacolo che lo spaventi. Ma Pippo non c’è. Quest’è per lui l’attività clandestina.
— Verrà il suo giorno anche per lui, – disse pacato il Capitano.
L’amico non sapeva che proprio di questo avevamo già parlato e si stupí di quell’indifferenza. Ma, conoscendomi, sapeva che non era il momento di urtarmi. Tornò a parlare, a voce calma, dei suoi piani. Io mi ero messo a passeggiare per la stanza soffermandomi ogni tanto a sbirciarne l’effetto in faccia all’ospite. Mi pareva piú attento del solito.
Erano le stesse cose che il giorno prima N. voleva tacergli. Sotto sotto mi fece piacere che seguisse cosí la mia idea, ma andavo su e giú silenzioso, sospettando qualche finezza. Il Capitano aggrottava le ciglia.
— Siete tutti d’accordo? – chiese bruscamente.
Non gli rispondemmo subito, perché ciascuno di noi attendeva che l’altro parlasse, poi m’accorsi che N. gli aveva già risposto con un cenno affermativo del capo.
— No, – dissi allora, seccato. – Io, per esempio, non sono d’accordo.
— Lo sappiamo, – disse freddamente N. – Ci piaci appunto per questo.
Allora alzai le spalle e dissi: – Idiota.
Parlò il Capitano e spiegò la sua idea. Non aveva chiesto se il nostro progetto ci paresse o no praticabile – queste cose non sono mai praticabili – ma se i vari compagni erano decisi a esporre la pelle. Lui conoscendoci ne dubitava.
Allora N. incominciò a spiegargli che di pericolo non ne vedeva punto, quando le cose fossero fatte a dovere – e io me la ridevo perché sapevo meglio di lui la convinzione del Capitano: buttare la gioventú allo sbaraglio, proprio perché si scottasse. Quando N. ebbe dimostrato ben chiaro il suo punto, il Capitano alzò le spalle e concluse: – Allora è inutile. Vi consiglio di non scomodarvi.
— Lo vedi? – mi sentii dire scendendo le scale, – il Capitano non ci segue. Sei convinto?
— Però ha ragione, – brontolavo, e gli spiegai di mala voglia che bisognava essere ingenui per non aver capito che il Capitano ci giudicava dei chiacchieroni. – Perciò dobbiamo mostrargli che non lo siamo, – ribattè N.
Solitamente sono taciturno. Ma quella sera ero tutto preso dalla mia ragazza: per questo ero stato con loro loquace e aggressivo. Con lei in un cantuccio di caffè c’eravamo fatte certe promesse e poi avevamo camminato di buon accordo sotto le piante primaverili. Dal Capitano ero salito col cuore leggero. Adesso a zonzo per i viali con l’amico, non sapevo risolvermi a rientrare. Il discorso e la tesa atmosfera di prima caddero.
Eravamo vecchi compagni e ci accadeva sovente di camminare accanto tacendo, pensando ciascuno ai fatti nostri, senz’imbarazzo. In quella notte non pensavo a nulla; mi godevo il ricordo e pregustavo il fervore di tante altre discussioni future, perché mi pareva di essere capace di tutto fare e intraprendere, in una perenne notte di marzo. Ero giovane.
— Poveretto, – disse N. – Fa pena.
— Noi no? – ribattei.
— Mi fa pena, – disse N., – perché è un uomo spremuto.
— Ha lavorato piú di noi.
— Comunque, è spremuto.
— Però non lo dice, – protestai.
— Io mi chiedo se anche noi saremo un giorno come lui, – sospirò. – Se dura questo stato di cose, ho ben paura.
Di giorno c’era il sole, e non è da dire quanto mi piacesse. Quell’anno lavoravo – era il prim’anno che lavoravo, e salire al mattino nella gran fabbrica vetrata dove disegnavo davanti a una finestra, mi schiariva le idee. Scendevo a volte in un camerone dove certi operai sorvegliavano una fila di macchine e passando ammiccavo a un tornitore – un giovanotto sveglio, che poche parole mi avevano rivelato. Non c’eravamo ancora intesi e collegati, ma sapevo bene che volendo mi sarebbe bastato parlargli. Ritardavo questo momento, perché in fondo capivo che non era la nostra azione che poteva contare, mentre la tacita intesa era – almeno per me – ben piú preziosa. Mi dava il senso che, indipendentemente da me e dai compagni, era la realtà stessa che si moveva verso di noi.

II.

La mia ragazza mantenne le promesse, e in conseguenza rientravo assai piú tardi, stanchissimo e felice. Non avevo piú l’occasione di salire dal Capitano, ma sovente ci pensavo e me lo vedevo lassú solo e scontroso, davanti alle finestre che ormai con la bella stagione doveva tener spalancate. N. disse che qualcuno andava ancora a trovarlo, perché ai suoi tempi aveva avuto molti compagni, e i pochi che non s’erano dispersi cercavano anzi di aiutarlo.
N. in quei giorni andava e veniva alla stazione, occupatissimo a montare i suoi collegamenti con la provincia, e sapendo ch’io non li valutavo gran che, me ne parlava assai poco. Fortuna che il mio lavoro mi legava in città, altrimenti mi sarei sentito l’obbligo di fare anch’io qualche viaggio. Tanta cautela in N. che non era un ragazzo, mi metteva qualche ansia. Anche perché tra una gita e l’altra, N. ridiventava normale e mi telefonava, combinava incontri, parlava di me nei suoi salotti, alle mie obiezioni rispondendo che la polizia aveva troppo da fare a rincorrere il fantasma in provincia per pensare a beccarlo in città. Per il momento aveva depositato nella mia stanza certi manifestini che sapevo.
In compenso, mi rimproverava sovente di salire dal Capitano non appena lasciata la ragazza: al mio posto non si sarebbe fidato. Mi scappò la pazienza e gli dissi di stare attento piuttosto ai ragazzi che s’incontravano nei suoi salotti con certe signorine: le donne e la politica non vanno d’accordo.
C’era questo di bello tra noi: unico, credo, degli amici, potevo dirgli la verità fuori dei denti. In questi casi assumeva un’aria grave e mi spiegava il suo punto. E quella volta mi spiegò che le sue signorine non erano donne ma coscienze che, come me e come lui, si sentivano in dovere d’agire. – Al tempo che i tuoi operai sapevano lottare, non sai quante donne, quante ragazze di fabbrica, organizzavano.
Mi conosceva bene l’amico, e dandomi di queste risposte se la rideva a fior di labbra.
— Coscienze, – brontolavo, – non farmi ridere –; però il discorso era aperto ed N. insisteva che bisognava avere il coraggio del proprio ambiente.
— Ma io non ho un ambiente, – rispondevo incaponito, e l’amico rideva e mi chiedeva dove passavo le sere.
— Per le strade, – risposi.
— Finirà, finirà, – disse N. – Farai anche tu il tuo dovere.
A volte m’irritavo e cercavo di vivere altrove la mia giornata. Portavo in barca la ragazza o, se qualcuno mi telefonava, mettevo la condizione che saremmo andati in collina a bere una bottiglia, pur di non finire per disperazione in casa di N. sempre disposto a darci ascolto.
In fabbrica, il tornitore ammiccava, furbesco – aveva la parola pronta, eppure non si decideva a entrare in argomento. Si accontentava di guardare a bocca storta, sotto i miei occhi, certe scritte cubitali che coronavano la parete. Il nostro era un gioco. Ma a parlare con lui – che si chiamava Severino – io m’ero impegnato con N. una volta che, spazientito dai suoi sarcasmi, gli avevo risposto che lavoravo sott’acqua. In realtà avevo detto per dire, ma N., diabolico, invece di ridere aveva fatto il sollecito, stretto le guance e mostrato di credermi. Aveva pure sparso la voce tra gli amici, che a me toccava quel lavoro, ch’ero serio, e mi aveva creato una fama di esperto.
Comunque, non mi decidevo a sondare il tornitore. Preferivo cogliere a volo le sue uscite, le sue smorfie dissimulate sulla sigaretta furtiva, la bella insolenza che lui sapeva mettere persino nel passo quando doveva presentarsi a un superiore. Come passava le sue sere, mi chiedevo. Probabilmente a far l’amore come me. S’intendeva a occhiate coi compagni. Mi piaceva.
Un giorno accettai d’accompagnare N. in non so che spedizione in bicicletta, a rintracciare una certa persona che doveva fargli un certo favore, cavarlo da un dubbio: circa un tale di cui s’era servito incautamente. – Non credo, – mi disse con semplicità, – che sia una spia, perché a quest’ora saremmo tutti arrestati.
Mentre pedalavamo, si giustificò che bisognava pur agire e qualche volta fidarsi alla cieca. Disse anzi scherzando che tanto valeva fidarsi sempre, fare come i crociati: lasciare a Dio, cioè alla prigione, la cura di distinguere i santi dai reprobi.
Gli dissi che cosí andava d’accordo col Capitano. Ciò lo fece sorridere.
— Sí, – gli spiegai, – dice che le cose vanno portate al limite. Piú ne finiscono dentro, piú la situazione si fa rivoluzionaria.
N. sorrise ancora, con una certa tolleranza. Poi una svolta del viale lo distrasse e, mentre riprendevamo a filare, mi accorsi di essere alquanto preoccupato dalla faccenda della spia.
L’idea della prigione, sempre vaga e avventurosa, prese in quella corsa che sembrava una fuga una sgradevole consistenza e mi portò l’amaro in bocca. La presenza di N. mi pareva il segno tangibile della minaccia. Le nostre gomme frusciavano sull’asfalto bagnato, e l’idea che quella fosse la nostra ultima corsa mi dava un’insolita tensione.
— Chi è questo tale che farebbe la spia? – dissi a un tratto.
Saltando giú dalla macchina davanti alla nuda banchina del viale, N. non mi rispose, e si guardò intorno. C’erano alcune case basse dal tetto di legno, non piú case operaie, ma baracche di campagna che la città aveva assorbito. Una porta era aperta, su un gradino infangato, e l’insegna diceva osteria.
— È qui? – gli chiesi. Appoggiammo le biciclette a una pianta; N. mi guardò incuriosito e disse: – L’ambiente ti dovrebbe piacere.
— Va’ dentro, – gli feci, – e sbrigati. Io guardo le biciclette.
— Se vengono, fischia, – canzonò N. dalla porta.
Alzai le spalle e restai solo. Tra le piante si stendeva il lungo prato, l’incolto della barriera, e piú lontano altre case isolate sorgevano monotone. Dopo la pioggia, nel fresco del sole, quelli erano proprio i miei paraggi. Accesi una sigaretta per godermi in pace i pensieri, e quell’ansia di prima si chiarí non per paura ma per disagio all’idea di venire improvvisamente strappato alle mie occupazioni – all’incontro di dopocena, all’arrivo mattutino in fabbrica, al vagabondaggio, ai discorsi, all’imprevisto quotidiano. Ma mi accorsi che in fondo l’attesa presso le biciclette non doveva differire da una vita di carcere se non per la durata. Uno si ferma e pensa, mi dissi. Si ferma un po’ troppo, ma è poi tutto qui. Molto piú assillante era il dubbio se in carcere si potesse fumare. Chiederò al Capitano, pensai. Se facevo ancora in tempo.
Naturalmente, ebbi tempo. Appoggiato alla finestra del Capitano, il pomeriggio successivo, ripensavo sorridendo alla nostra scampagnata – altro non era stato – e al rigoroso segreto in cui N. voleva che lo tenessi con tutti. Salendo, ci avevo trovato una visita, una signora Bianca.
— Ah, l’amico di Carlo, – aveva esclamato, sentendo il mio nome. Il suo invece non mi disse nulla. Stava seduta raccolta in se stessa, quasi sull’orlo della poltrona e guardava da me al Capitano con sollecitudine tutta materna.
La conversazione morí presto, perché dal Capitano io ci andavo per tacere e invece la signora aveva l’aria di attendersi chi sa che belle cose, e parecchie volte cominciava un discorso che nessuno di noi raccoglieva. Il Capitano intercalava sarcasmi, brontolii, di quelli che conoscevo. Finalmente la signora si agitò come per alzarsi, sogguardò la stanza e disse: – Allora quelle cose… – Il Capitano andò a cercare in un armadio un pacco della grandezza di un quaderno, che lei fece sparire nella borsetta.
— Si fa quanto si può, – disse furtivamente, alzandosi.
Quando il Capitano rientrò dopo essersi accomiatato da lei, io mi ero appoggiato alla finestra e pensavo appunto alla mia gita.
— Cos’hai da ridere? – suonò la sua voce.
— Succedono cose ridicole, – dissi. Ma il Capitano era di cattivo umore. Gli chiesi se l’avessi disturbato. Disse di no e prese il cappello. – Vuoi che usciamo?
In strada, ruppe il silenzio con un sospiro: – E tu perché vieni a trovarmi? – disse.
Si fermò in mezzo alla piazza.
— Abbiamo offeso la signora? – dissi. Mi guardò per traverso; non battei ciglio, un. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Il capitano
AUTORE: Pavese, Cesare

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze

TRATTO DA: Racconti / Cesare Pavese. - Torino : Einaudi, [1994]. - 525 p. ; 20 cm.

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)