Jettatura
di
Cesare Pavese
tempo di lettura: 8 minuti
Sentii un giorno la cassiera che diceva: – Ecco, sembra un malato: com’è odioso, – e mi voltai tutto stupito. Parlavano proprio del mio collega, che sbucava lentamente dalla scala con una bracciata di libri. Nel momento che mi volsi, emergeva dal pavimento solo il suo capo calvo; poi, uscirono le spalle curve, la lunga sopravveste grigia, e Berto venne a posare i libri, che teneva a catasta contro il petto, sul banco. Aveva in faccia un’immobile tensione d’angoscia, come di chi faccia sforzi per non piangere, e stranamente i suoi occhi apparivano sprofondati sotto le palpebre, luccicanti come l’acqua d’un pozzo.
— Eppure non è sposato, – sussurrò il primo commesso alla cassiera, che aveva ancor la bocca increspata dalla smorfia. Guardò me che ascoltavo, e mi fece segno. Avvicinai il capo alle loro teste chine e mi parve certe sere quando si esce dal negozio in un tepore primaverile. Non ero mai stato cosí vicino a quella donna, per me, garzone, irraggiungibile. – Gigi ci sta a ascoltare, – disse sorridendo. – Ha sempre una faccia simile in magazzino? – mi chiese scuro il commesso.
— Ma, signore, una faccia bisogna averla, – risposi.
— Tu sei un ragazzo sveglio, – riprese, – non ti dice che cos’ha, non si lamenta con te? Non è permesso guardar senza motivo la gente in quel modo.
— Io un bel giorno reclamo, – disse la cassiera.
— Se fosse preso un incendio in negozio o licenziassero qualcuno, direi che è uno iettatore; ma non sono superstizioso, – fece preoccupato l’altro. – Tu, Gigi, cosa dici?
— A me quando passa davanti fa ribrezzo, – sibilò la cassiera, – temo esca di prigione.
— L’età ce l’ha: sui quarantanni.
Di tali sospetti io non ne avevo avuti mai. Ero allora molto giovane e poco propenso a studiare le facce altrui; tanto meno quella di Berto silenzioso. Lo vedevo molto poco, perché giravo tutto il giorno in bicicletta a consegnare ordinazioni. Le rade ore che passavo in magazzino a disfar pacchi o cercare volumi per i commessi, quasi sempre vedevo Berto di schiena, rivolto alle scansie, che frugava col capo piegato da una parte. Oppure traversava a passi rapidi, come un’ombra, guardandomi senza dir nulla. Se gli gridavo qualche cosa, si voltava di soprassalto e mi serviva subito. Un invecchiato, mi pareva, forse impotente. Una volta che tornai fradicio di pioggia, mi fece un mezzo sorriso, stirando la faccia e strizzando quegli occhi remoti.
Davvero, come diceva la cassiera, sembrava un malato. Ma un malato in fotografia, dall’espressione immobile e stampata addosso indelebile. Persino quel gialliccio malsano delle vecchie foto gli traspariva intorno, nello stanco riverbero delle lampadine economiche. Ma lui nemmeno di questa tirchieria del padrone, che pure ci faceva doler la fronte a leggere su per gli scaffali, si lagnò mai, se non con la muta nudità di quegli occhi, sempre sul punto di riempirsi di lacrime. Una volta, che mi accecavo a scovare un libro in un angolo, maledii la baracca e accesi un cerino. Berto accorse e lo soffiò. Poi disse, pieno d’indignazione, che c’era pericolo d’incendio.
Era la sera che avevo saputo del disgusto dei commessi. Fissai Berto e lo trovai repellente. Quel capo pelato; la bocca cascante, tenuta su a smorfie; e la pelle tutta arrugata, contratta, come di una febbre raggelata nelle ossa o nell’anima, mi indignarono. – Ma hai mal di pancia, tu? – gli vociai rialzandomi.
Berto mi ripeté con la sua voce bassa che non si poteva accendere; che lui avrebbe volentieri anche fumato, nel magazzino, ma il padrone l’aveva cantato chiaro e non si poteva dargli torto. Mi scappò da ridere e gli spiegai che intendevo veramente malattia: coliche, gastrica, intestini. – O hai lo scolo, forse? – conclusi.
— L’ho avuto alla tua età, – disse Berto esitando. – È un brutto malanno. Sono guarito bene, però.
— E adesso che male hai?
— Adesso? – Lo stupore gli sbiancò ancora la faccia sovrapponendosi alla tensione consueta. Dibatte gli occhi. – Non ho nulla: perché? Sto male?
Era certo sincero. – Sembri un morto: ecco cos’hai. A casa ti picchiano?
L’animazione di Berto svaní. – Ragazzo, – disse poi parlando adagio, – io vivo solo. È da molto tempo che nessuno mi picchia. Avrò preso del freddo: sono vecchio, per questo ho brutta cera.
Quel modo serio e stupefatto di ricevere le domande mi impedí di continuare. Era come camminare sulla sabbia: molta fatica e poca strada. Certo però non aveva mentito. E del resto, a studiarlo un po’, la sua faccia non mostrava malattia. Ci sarebbe voluto un dolore lancinante, continuo, per contrargli la bocca in quel modo e rifugiargli gli occhi cosí a fondo. E poi, qual è il malato che non coglie avidamente un’occasione di lagnarsi? Era piuttosto una desolazione, quella di Berto, quale appare sulla faccia di un marmocchio viziato che sta per piangere. Cominciavo anch’io a sentirmi cattivo in sua presenza. Come non me n’ero mai accorto?
Il giorno dopo, salito su in attesa di un pacco, colsi un momento che due clienti seccatrici vollero il padrone per non so che pasticcio, e mi avvicinai al primo commesso che le guardava livido e compito.
— Pare non abbia malattie, – gli mormorai, un poco fiero della confidenza.
— Che cosa? Chi? – tempestò quello.
— Berto, – dissi intimidito.
— Al diavolo! È colpa vostra se non si spediscono le ordinazioni. A guardarvi in faccia uno si dimentica dei libri. Che cosa fate sempre qui tra i piedi?
Mi salvai come potei. La cassiera invece, a mezzogiorno, mi chiamò gentile nel corridoio e, mettendosi il cappello, mi disse se non potevo portar su io i libri. – Tu, Gigi, sei piú svelto; e poi nel negozio ci vogliono persone di presenza. Come si può sopportare quel vecchio imbecille? – e aggiunse, scuotendosi tutta, – me lo vedo anche di notte nel buio come un fantasma –. Le risposi che volentieri avrei servito io, ma quand’ero in commissioni toccava pure a Berto. La bella Luisa se ne andò sorridendo.
Per vari giorni, dopo la sera del cerino, vidi poco il mio compagno. Ci salutavamo ora all’uscita e, anzi, sovente mi sentivo addosso quegli occhi e, incontrandoli, ne avevo un penoso sorriso. Questa sua smorfia mi allarmava e mi gettava in un disagio quasi fisico. Restava sempre sottintesa quell’angoscia vigliacca, quella spietata solitudine degli occhi. Come doveva colorarsi il mondo attraverso quegli occhi?
Una sera uscimmo insieme; era già buio, ed io, esaltato da una brezza che sapeva odor di neve, offrii a Berto di sederci e bere una volta all’osteria. Ricordo che voltando l’angolo, Berto levò il capo al gran palazzo della Centrale, che a notte allinea fino al cielo innumerevoli finestre illuminate, e disse soffermandosi: – Quanta gente che lavora. Quelli ci staranno tutta la sera.
— E tu che fai la sera?
— Vado in letto a leggere. Non mi prendo altre soddisfazioni.
Che cosa leggesse già sapevo. Quasi ogni sera, me n’ero accorto giorni prima, si ficcava all’uscita nella tasca interna del soprabito qualche libro, che riponeva delicatamente furtivo il mattino dopo. Talvolta era un manuale di storia, piú sovente un romanzo. Sospettavo del resto che lo stesso facesse la cassiera.
All’osteria bevvi un quarto e Berto prese il caffè. Ciò mi scaldò un po’ il sangue e dimenticai il disagio della sua presenza. Gli esposi invece i miei progetti, come intendevo diventar primo commesso e che in attesa di ciò mi sarei accontentato di portare in collina la cassiera.
Berto ascoltava con l’abituale smorfia di sofferenza. – Tu sei giovane, – mi disse, – hai molto tempo: puoi anche diventare proprietario. Lascia stare la cassiera: per bene che vada, una donna non ti può dare che dei figli. Hai molto tempo davanti. Pensa a guadagnare ora.
— E a te cos’hanno dato le donne? – gli chiesi.
Berto disse gravemente, e serrava gli occhi come volesse sorridere: – Niente –. Ripete poi: – Niente. Cosí càpiti a te, Gigi. A molti fanno del male. Pensa che c’è una donna sola adatta a ciascun uomo, e non sempre la si trova.
— Solo una? – feci preoccupato.
— Però siamo ingiusti, – continuò Berto. – Anche per le donne è come per noi. Che cosa diamo noi alle donne? Molti le maltrattano.
— Io no, – dissi.
Insomma, per quella sera la figura di Berto mi si velò di nebbia, e lo lasciai dandogli persino la mano. Ma già nella notte, sonnecchiando, provavo come una vaga apprensione di esser stato cosí aperto sotto quegli occhi morti. Mi ricordai verso il mattino con un sussulto che la sua smorfia angosciosa me l’ero già vista in faccia anch’io, riflessa in una vetrina, una volta, che ero ragazzo, quando mio padre mi cacciò di casa urlando e tirando calci. Poi avevo trovato lavoro ed ero stato ripreso, ma un’avventura come quella me la ricordavo ancora tremando. I pensieri che avevo fatto allora – e tra questi il piú allegro era stato di buttarmi nel fiume – mi tornarono in mente. Ora, Berto aveva appunto la faccia di chi ci si è buttato. E ci piange ancora sopra. Sempre, dal mattino alla sera.
Il giorno dopo c’erano nuovi arrivi da portare su in negozio e noi due si saliva e scendeva con gran bracciate di libri, sorvegliati dal primo commesso. Per tutta la mattinata questi si montò i nervi e specialmente a Berto non ne passava una. Io filavo in silenzio e notai che, alla prima comparsa del poveretto, un commesso vicino alla cassa si frugò nella tasca dei calzoni con vigore e disse qualcosa alla bella Luisa. Questa fece un risolino e poi gettò un’occhiata risentita su Berto, che barcollava sotto il suo carico. Il padrone ogni tanto faceva capolino dalla sua tramezza e rientrava soddisfatto.
Verso mezzogiorno ci fu un po’ di respiro, e il primo commesso mi chiamò per darmi commissioni.
— Berto è un buon uomo, sa. Deve averlo piantato la moglie, – dissi con disinvoltura. L’altro mi guardò fisso. – L’abbia piantato chi vuole, però maltratta i libri.
— Se li legge da tagliare, senza farci una piega, – dissi.
— Quando legge?
Mi morsi la lingua. – Non so… in magazzino, un’occhiata nei momenti liberi. Leggo anch’io qualcosa.
— Come? Leggiamo forse noi commessi alla vendita? Ah, è per questo che non salite mai alle chiamate? Che sia l’ultima volta.
— Ma no, signore, sbaglio. Berto non perde tempo. Io poi avrò scorso tre pagine in due mesi. Mi ha detto solamente che gli piace la lettura.
— Però non compra libri, – concluse scuro.
Quel pomeriggio lo passai tutto per la città a consegnar pacchi. Saltavo in bicicletta e via. Era un lavoro senz’avvenire, come il garzone macellaio, e qualche volta umiliante, ma vorrei adesso ritornare a quelle fughe a rompicollo per le vie piú disparate, sempre allegro e irresponsabile. Qualche volta capitavo in corsi lontani, tranquilli, dove non ero stato mai, e pigliavo certe volate sull’asfalto, che non mi pareva nemmeno di lavorare. Poi ritornavo spensierato, serpeggiando a passo d’uomo, e mi guardavo le ragazze e finivo la sigaretta. Ero pagato per quello.
La sera ritornai che imbruniva. C’era stato un po’ di sole, sul pantano raggelato delle strade, e le dita sul manubrio non le sentivo quasi piú. Rientrai nel negozio, che stavano chiudendo.
Trovai il primo commesso, asciuttissimo, che passeggiava con aria offesa davanti alla cassa, dove la bella Luisa era intenta a studiarsi le unghie. Dalla tramezza della direzione giunse una voce incollerita: – Lo sa che il suo è quasi un furto?
Scambiammo occhiate con gli altri due commessi, che mi fecero con le mani il segno di chi se ne va. Credetti dicessero a me e vacillai sulle gambe. Guardai ancora in giro e nessuno si muoveva. Allora traversai, sollevando la macchina dal palchetto, tutta la sala e scesi giú nel magazzino. La luce era già spenta.
Stetti irresoluto nel buio quando, sull’ultimo gradino, udii la voce fatta isterica gridare: – Se ne vada, le dico! E la smetta di guardare in quel modo.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Jettatura
AUTORE: Pavese, Cesare
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze
TRATTO DA: Racconti / Cesare Pavese. - Torino : Einaudi, [1994]. - 525 p. ; 20 cm.
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)