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L’importante campo di studi che si spalanca di fronte ad un’indagine materialistica della storiografia era già in embrione negli scritti giovanili di Marx ed Engels. Nell’Ideologia tedesca, per la prima volta, si trova l’idea che la distinzione tra preistoria e storia sia fondamentalmente pretestuosa: la storia inizia quando l’uomo costruisce i mezzi per la soddisfazione dei bisogni fondamentali dell’esistenza, il nutrimento, l’abitazione, il vestiario e creando così i presupposti per il presentarsi di nuovi bisogni.
La storia “ufficiale” sembra invece partire dal momento che l’attività politico-ideologica si presenta già strutturata e documentata, e con questo si cerca di convalidare il presupposto che istituzioni come la famiglia e la proprietà privata siano sostanzialmente eterne e imprescindibili per la società umana.
In questo campo di studi e di riflessione si inserisce anche questo lavoro di Lafargue, che infatti ripercorre, soprattutto nella prima parte del suo scritto, le tappe che Marx ed Engels erano stati indotti ad elaborare soprattutto dopo che si erano imbattuti nell’opera dell’etnologo americano Lewis Henry Morgan. Tale opera forniva agli studiosi marxisti le occasioni per ripensare la storia delle società primitive e per rigettare con fondate argomentazioni il pregiudizio borghese sulla “sacralità” della proprietà privata e delle istituzioni che la proteggono.
Engels diede sistemazione a questo campo di studi pubblicando nel 1885 L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato, subito tradotto in italiano da Martignetti e pubblicato nello stesso anno a Benevento. In questo libro Engels stesso fa un ottimo riassunto del lavoro del Morgan Ancient Society al quale resta indiscusso il merito di essere il primo tentativo organico di sistemazione storico-comparativa dell’evoluzione del genere umano, definendo le fasi stato selvaggio, barbarie, civiltà.
Dieci anni dopo arriva quindi questo scritto del Lafargue – che non a caso dedica il suo lavoro proprio ad Engels – che si presenta appunto come opera divulgativa del decisamente più organico pensiero che sugli stessi argomenti Marx ed Engels avevano elaborato. Anche ad un lettore distratto appare chiaro che Lafargue, nel suo sforzo per rendere chiaro e accessibile a tutti i lettori il fondamento della sua tesi, scivola molto spesso nella tentazione di usare il metodo “marxista” come comodo calzascarpe per far scivolare ogni fatto storico all’interno della teoria già bella e precostituita, banalizzando quindi la complessità della visione materialista degli studi etnografici in una molto facilmente attaccabile “filosofia della storia”. Credo che Engels stesso fosse del tutto consapevole di questo limite quando, in una sua lettera a Lafargue, – nella quale mette in rilievo lo stile brillante dell’opera e anche alcuni aspetti di originalità – afferma che l’articolazione interna “avrebbe dovuto essere più accurata”.
Per altro l’idea cardine di Lafargue che le organizzazioni umane debbano necessariamente passare attraverso le medesime forme evolutive era ormai superata anche all’interno dell’ortodossia marxista. Negli Scritti su India Cina e Russia Marx ed Engels erano infatti ormai giunti a riflettere sul fatto che, pur riconoscendo l’ineluttabile funzione progressista dell’espansione capitalista nei paesi con società primitive o arretrate, l’inevitabilità del passaggio attraverso la fase capitalista per tutti i popoli è tutt’altro che scontata; le leggi generali di sviluppo economico non vanno quindi viste in maniera deterministica partendo dall’interpretazione della storia passata e difficilmente possono essere utilizzate, in maniera astrattamente normativa, come strumento di previsione e, conseguentemente, di azione politica.
Anche per questo l’opera di Lafargue, meritoria comunque per la sua capacità di indurre a un ripensamento sul fatto che l’istituzione “proprietà” sia esistita da sempre e che abbia avuto comunque un’evoluzione non rimanendo sempre uguale a se stessa nel corso dell’evoluzione sociale umana, non riesce a non scivolare nel vizio deterministico all’interno del quale le forme diverse di proprietà abbiano al proprio interno il presupposto per il proprio superamento; molto hegelianamente ognuna di queste forme ha in sé lo sviluppo-negazione della precedente. Quindi la forma “capitalista”, ultima ad apparire, ha già in seno gli elementi che porteranno al suo superamento e che costituiranno i capisaldi per la società comunista.
Si intende che il lavoro di Lafargue, che è comunque interessante e ben documentato, va contestualizzato: l’autore sentiva l’esigenza di riproporre tematiche marxiste che sentiva particolarmente utili e attuali nell’ambiente socialista francese alla fine dell’800, all’interno del quale Sorel elaborava la “decomposizione del marxismo”, Jean Jaurèe cercava i punti di contatto tra socialismo e liberalismo nell’ambito di un neo-umanesimo tutto suo, Guesde, che insieme a Lafargue aveva fondato il giornale «l’Egalité», oscillava tra marxismo e blanquismo, al punto che Marx, parlando appunto del “marxismo” di quel giornale con Lafargue stesso, disse “quello che è sicuro è che io non sono marxista”.
Il testo è preceduto da un’interessante introduzione dell’economista mantovano Achille Loria, che, staccato come era nel suo “socialismo” dal “socialismo scientifico” marxiano, ha potuto evidenziare con una certa efficacia i più evidenti scivoloni “deterministi” del Lafargue.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit del libro:
Secondo gli economisti, la proprietà è un fenomeno sociale, il quale sfugge a quella legge di evoluzione, che governa il mondo materiale ed intellettuale.
Non riconoscendole che una forma sola ed immutabile, la forma capitale, questi difensori patentati delle iniquità sociali affermano che il capitale esiste ab eterno; ed, allo scopo di stabilire per bene questa sua immortalità, si adoprano a dimostrare che esso esiste dacchè mondo è mondo, conchiudendo trionfalmente che, non avendo esso avuto inizio, non potrebbe certo aver termine.
Per sostenere questa curiosa asserzione, i manuali d’economia politica ripetono, come tanti pappagalli, la favola del selvaggio che impresta l’arco ad un suo compagno, a condizione di dividerne la caccia. Non soddisfatti di questa origine preistorica, alcuni economisti fanno risalire la proprietà capitalistica al di là della specie umana; la trovano presso gl’invertebrati, perchè la previdente formica ammucchia delle provviste: peccato che si siano fermati a mezzo di così bella via e non abbiano compreso come quest’insetto accumuli soltanto per vendere e realizzare dei profitti mediante la circolazione delle mercanzie!
Scarica gratis: L’origine e l’evoluzione della proprietà di Paul Lafargue.