Jovine aveva già pubblicato, nel 1929, un racconto per ragazzi, Berluè, di matrice tipicamente collodiana. Passò praticamente inosservato e lo stesso autore, consolidata anni dopo la propria cittadinanza letteraria, escluse questo suo primo lavoro dal proprio curriculum di scrittore; per questa ragione Un uomo provvisorio è normalmente considerato la vera opera prima.

Pubblicato nel 1934 dall’editore Guanda in edizione di 500 copie numerate, è rimasto spesso inaccessibile non solo per il lettore interessato ma anche per lo studioso. Solo nel 1982 l’editore Marinelli di Isernia si occupò di produrne una seconda edizione curata da Francesco D’Episcopo, certamente lo studioso più importante dell’opera di Jovine. Lo stesso D’Episcopo ha pubblicato anche una monografia su questo romanzo, rovesciando il giudizio che viene in genere dato, di romanzo “neo-decadente”. Per D’Episcopo infatti

Un uomo provvisorio contiene le “radici” della molteplice esperienza letteraria di Jovine, si profila come opera critica, anzi autocritica, con la quale egli tenta di riordinare la propria cultura e la propria coscienza. […] Ogni personaggio del romanzo costituisce una denuncia delle varie “avanguardie” letterarie, teatrali, artistiche del ’900: il decadentismo dannunziano, lo sperimentalismo dei crepuscolari e dei futuristi, il calligrafismo […]”

Queste “radici” delle quali parla D’Episcopo si innestano su una vicenda narrativa evanescente e frammentaria. Ma appaiono tuttavia piuttosto solide nonostante il substrato fragile. Un medico ventottenne è a Roma per conseguire la specializzazione. Passando da un’esperienza amorosa ad un’altra con donne che si dimostrano innamoratissime – Marta, una conoscenza universitaria, e Dalia, la figlia della padrona di casa, oltre ad altre minori – sembra vivere un dramma interiore, che ha poca ragione di esistere dato che la sua vita non appare in effetti troppo complicata né certamente drammatica. La noia e il vuoto interiore portano lo studio ai margini della sua esistenza, ravvivata in parte dalle visite e dai colloqui con lo zio consigliere di Cassazione, e da una contraddittoria attrazione verso la cugina Iolanda, che viene però giudicata piatta, “senza un fremito”. Si snoda così la prima parte, non priva di prolissità, incentrata come è sul pensiero introspettivo del protagonista Giulio.

Ma nella seconda parte la morte del padre – medico non esercitante e alcolista tranquillo e buono – riportano Giulio al paese natio e qui si apre una prospettiva nuova che dovrebbe racchiudere la “morale” del racconto.

Il rapporto tra le due parti del romanzo appare sotto la luce di un contrasto dialettico tra la “noia” della cultura e la vivacità della natura. La sintesi hegeliana avviene nel momento in cui Giulio, spinto da sorella e cugina – che nel frattempo lo ha raggiunto con lo zio nella terra di origine della famiglia – utilizza finalmente il suo “sapere” salvando il giovanissimo figlio di un contadino dalla morte per difterite. Questo consente a Giulio di strappare la propria maschera (e Jovine stesso sa quanto sia difficile abbandonare una maschera indossata per troppi anni come fosse la propria pelle) e di trovare l’armonia nell’amore della cugina Jolanda “affondando la testa nelle spighe”.

Con queste ultime parole del romanzo si compie quindi il percorso che si vede iniziare già nel viaggio ferroviario che lo porta, tra numerosi cambi in stazioncine sempre più sperdute, al paese d’origine; Giulio medita sulla “diffidenza amara” e sulla “crudele parsimonia” indotta da quelle terre, alle quali fanno ritorno i “suoi antichi compagni di liceo e di università” per esercitarvi le professioni acquisite con lo studio e che sono capaci “di ridere per sei mesi dello stesso motto di spirito che qualcuno di loro ha importato dalla città recentemente visitata. Spiritualmente non vivono che dei ricordi della loro breve stagione cittadina”. Ma sono i primi passi dello sgretolamento della “tesi” culturale e su queste macerie si inizia a costruire “l’antitesi” del ritorno alla natura. La ragione nasconde una profonda inquietudine, la tradizione pare ricondurre alla realtà. Giulio, almeno “provvisoriamente” trova un sofferto compromesso tra questi due aspetti della propria vita.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro:

Un giorno della fine d’aprile di uno degli ultimi anni pioveva a dirotto. Una pioggia ostinata che durava da due settimane senza una schiarita. Un cielo immobile di piombo gravava sulla città.
Giulio Sabò ascoltava il monotono scroscio dell’acqua.
Per un attimo, il suo fastidio gli aveva fatto pensare a centomila uomini, soli come lui, che avevano il grigio dell’aria, quel fiotto monodico nel cervello, e che potessero, all’improvviso, mettersi ad urlare per la noia.
Poi s’accorse che ormai non aveva più nulla da pensare intorno alla pioggia. Aveva già ricordano a sè stesso il diluvio universale, la concordanza delle leggende sul diluvio in tutti i miti, il principio di Talete che tutto nasce dall’acqua. Tra la distruzione di tutti gli esseri viventi per mezzo della pioggia e la pioggia come principio unico della vita secondo Talete Milesio, aveva anche combinato un passabile motto di spirito che aveva increspato di un piccolo riso la bocca sottile di De Giarmeli.
In seguito, aveva immaginato tutti i pazzi e le bestie con gli occhi volti in alto a gemere, per chiedere al cielo il dono del sole. Si era compiaciuto di questa sua immagine e aveva ragionato sulla sua savia freddezza.
Il manuale dello Janet sulla paranoia, consultato per l’occasione, gli aveva rammentato che i paranoici hanno, in genere, idee deliranti ma lucide, logicamente concatenate.
Aveva cercato nel libro un pensiero che convalidasse il suo disagio e lo colorisse d’un attimo di paura; ma non c’era riuscito.

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