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Dark Laughter fu scritto nel 1925. Insieme a William Faulkner, Sherwood Anderson è lo scrittore che più direttamente segue il percorso della tradizione letteraria americana indicata da Mark Twain con il suo Huckleberry Finn.
In questa tradizione la nuova fondazione della letteratura nazionale americana viene spesso affidata a soggetti e linguaggi parziali e marginali, che provengono proprio dai “margini” geografici del paese. E in questo fatto troviamo un evidente paradosso che si esprime con il contrasto tra i centri culturali della costa atlantica e l’influsso della grande cultura orale degli afroamericani.
La discesa in barca del Missisippi del protagonista Bruce non può non ricordare appunto Huck Finn e, come Huck Finn viene ricondotto a forza dalla vedova Douglass nell’ambito della “civilizzazione”, così tramite scrittori come Anderson abbiamo la ricollocazione delle tradizioni letterarie del paese nei suoi settori più marginali.
Ma di questo romanzo nessuno meglio di Cesare Pavese, primo traduttore italiano, può cogliere i punti salienti ed evidenziare l’importanza. Ecco cosa dice in proposito nel suo saggio La letteratura americana:
«Il romanzo più importante di quest’uomo resta sempre Dark Laughter, della, diciamo, seconda maniera: che riassume entro di sé tutti i motivi sparsi negli altri racconti dal ’16 in qua – qualche volta anche più chiari, più riusciti, ma non mai tanto definitivi.
È la storia di un giornalista di Chicago che si secca e sente inutile nella vita che conduce a contar fandonie alla nazione e a gironzare per i salotti colla moglie intellettuale e romanziera. Qualche volta va a ubriacarsi col collega, ma finiscono soltanto per parlare d’impotenza e di degenerazione. Finché un giorno pianta tutto, muta nome e se ne scende ozioso in treno e in barca per il Mississippi, fino a Nuova Orleans. Qui s’impregna di molle far niente e di risa, di canto, di spirito negro. Poi risale e si ferma ad Old Harbor, Indiana, dov’è vissuto in fanciullezza e s’impiega – operaio – a dipingere ruote d’auto in una fabbrica fattiva, “americana”, che lo lascia indifferente.
Il racconto comincia solo ora, ma la materia è quella che ho detto. Poiché Bruce Dudley – il nuovo nome – è un Sherwood Anderson completo, e fantastica, pensa, rivive, “racconta a se stesso”, indolente, a riprese, a legami leggeri coi fatti di Old Harbor, la vita passata.
Gli si accende nel ricordo – ad un ritmo pensoso e indolentemente solenne, di periodi – il gran tempo del Fiume, quando la vita americana “vera”, di gente che rideva e cantava, si muoveva sul Mississippi ed i negri eran negri e Mark Twain, non ancora ingabbiato dalle idee puritane – la Nuova Inghilterra, la negazione dell’America – ne creava la favola eroica coi libri di Tom Sawyer e di Huckle Finn. Poiché Bruce Dudley (Sherwood Anderson) è, come ho detto, un narratore e non vede nella vita che lo sforzo di un racconto ed ha quel modo di parlare così lento e pensieroso perché tutto quel che dice gli si travaglia in mente trasformandosi in racconti. Questa che potrebbe essere la rovina dello scrittore, gli si fa invece la sua poesia, poiché nessuno è più lontano dalla letteratura e più “vivente” di lui, nessuno più innamorato delle cose e del mondo, in un modo ch’è quasi sensuale … Lo stile di Anderson! Non il dialetto crudo ancora troppo locale ma una nuova intramatura dell’inglese, tutta fatta d’idiotismi americani, di uno stile che non è più “dialetto”, ma “linguaggio”, ripensato, ricreato, “poesia”» (Cesare Pavese, da La letteratura americana e altri saggi).
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit del libro:
Bruce Dudley stava vicino a una finestra ricoperta di macchie di vernice, attraverso alla quale si vedeva confusamente, prima un mucchio di scatole vuote, poi un cortile di fabbrica più o meno ingombro, che si stendeva fino a una collina scoscesa e, al di là, le acque scure dell’Ohio. Stagione, ben presto, di aprir le finestre. Presto sarebbe giunta la primavera. Accanto a Bruce, alla finestra vicina, stava Sponge Martin, un vecchiotto secco e nervoso con pesanti baffi neri. Sponge ciccava e aveva una moglie che qualche volta, nei giorni di paga, beveva con lui. Parecchie volte all’anno, la sera di questi giorni, i due non mangiavano a casa ma andavano a una trattoria sulla costa della collina nel quartiere degli affari di Old Harbor e là pranzavano come si deve.
Dopo il pasto prendevano sandwiches e due quarti di whisky marca «luna» del Kentucky e se ne andavano a pescare nel fiume. Questo avveniva soltanto in primavera, estate e autunno, quando le notti erano belle e i pesci mordevano. Facevano un fuoco con rifiuti di legno e vi stavano seduti intorno, dopo aver gettate le lenze. C’era un punto, circa a quattro miglia a monte del fiume, dove in passato, nei tempi di gran voga del fiume, c’era stata una piccola segheria con legnaia per rifornire di combustibile i battelli, e i due andavano là. Era una passeggiata lunga; né Sponge né sua moglie erano più giovanissimi, ma tutti e due erano gentetta secca e nervosa e avevano il whisky di mais a tenerli su allegri per la strada. Il whisky non era tinto da sembrare quello in commercio, ma era limpido come l’acqua, molto crudo, ardeva la gola e l’effetto era pronto e durevole.
Scarica gratis: Riso nero di Sherwood Anderson.