Scrisse Jacobsen che “ci sono persone che per costituzione naturale hanno ricevuto una natura e una disposizione diverse dalle altre; sembrerebbero formare una Confraternita della Malinconia. Hanno un cuore più grande e un sangue più rapido, desiderano e richiedono di più, hanno desideri più forti più selvaggi e più ardenti di quelli della mandria comune.
Sono stati bambini alla cui nascita hanno presieduto buone fate; i loro occhi sono spalancati, i loro sensi sono più sottili in tutte le loro percezioni. La loro gioia è la gioia della vita che bevono con le radici del loro cuore, mentre gli altri le afferrano semplicemente con mani grossolane”. I personaggi di queste novelle interpretano in certo qual modo questa dichiarazione del loro autore. Incarnano la lotta di una o più persone contro tutte quelle cose che cercano di impedire a uno di esistere a modo suo.
Questa è l’etica fondamentale che permea l’opera di Jacobsen. La troviamo nei suoi grandi romanzi, Marie Grubbe, Niels Lyhne, e anche in Mogens e forse soprattutto nell’immensamente tenera Signora Fönss, che tanto fu ammirata da Rilke e da Thomas Mann e che è forse, insieme a La peste a Bergamo, la sua migliore novella. Indiscusso il pregio letterario, la chiarezza, la leggibilità.
Il decennio dal 1870 al 1880, che è il periodo nel quale Jacobsen iniziò a scrivere, in Danimarca cominciava ad esprimersi un nuovo tipo di fermento culturale dovuto soprattutto alla ventata innovativa portata da George Brandes. Giungeva dalla Norvegia la rivoluzione teatrale di Ibsen mentre riecheggiavano le teorie evoluzioniste e il darwinismo che tanta influenza ebbero nella vita e nell’opera di Jacobsen e che tanto conflitto generarono in quegli anni. La sua forza, che in queste novelle è emblematica, è di essersi mantenuto artista, portando nella letteratura le leggi eterne della natura, e i suoi enigmi, ma rimanendo soprattutto creatore di bellezza, come nell’eccellente Qui dovrebbero esserci state delle rose.
Nella novella più lunga che dà il titolo alla raccolta e che è la prima scritta dall’autore, il personaggio di Mogens esprime, attraverso il suo rapporto erotico con tre donne, il connubio armonioso tra istinto e ragione, tra anima e corpo secondo le leggi naturali, che si pongono come superiori rispetto a un qualunque credo in Dio che appare artificiale, ma che, allo stesso tempo finiscono per identificarsi in una nuova forma divina di aspetto pagano. Troviamo certamente in queste novelle una reminiscenza dello stile di Flaubert e delle idee estetiche di Walter Pater, ma addolcite e rese più intime dalla personalità artistica dell’autore che rimane unica e potente.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit del libro:
Era d’estate, all’ora del meriggio, in un angolo del bosco. Proprio lì davanti stava una vecchia quercia, del cui tronco si sarebbe veramente potuto dire che si contorceva di disperazione per la stridente mancanza d’armonia che c’era fra il suo tenue e fresco fogliame giallognolo e i suoi neri rami robusti e nodosi, simili ad antichi bizzarri arabeschi gotici disegnati da una rozza mano. Dietro la quercia s’infittiva una rigogliosa vegetazione di nocciuoli, le cui fronde, scure e opache erano così dense, che più non si discernevano rami né tronchi. Al di là di essa s’innalzavano due snelli aceri, con una festosa allegria di foglie dentellate e di rami rossi e di verdi bacche in grappoli ciondolanti. Poi veniva la foresta, un rotondo declivio uniforme, dove gli uccelli entravano ed uscivano a gara, come uno sciame di elfi da un tumulo erboso.
Tutto ciò si poteva vedere quando si usciva sul sentiero campestre, fuori del bosco. Chi invece giaceva nell’ombra della quercia, col dorso appoggiato contro il tronco, e guardava nella direzione opposta, ed uno c’era, il quale stava appunto così facendo, vedeva dapprima le proprie gambe, poi una piccola macchia d’erbacce grosse, ruvide e corte, poi una larga massa oscura di ortiche, la siepe di rosaspina con grandi bianchi convolvoli e il cancello d’ingresso, poi, al di là della siepe, un lembo di campo d’avena, e infine, su, in cima al colle, l’alto pennone innalzato dal Consigliere di giustizia per appendervi la bandiera, e, al disopra, il cielo.
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