Dicembre 2019 – Che cos’è il femminicidio e perché c’è stato bisogno di creare una parola che non esisteva? Non bastava chiamarlo omicidio? No, non bastava, perché quel sostantivo include il movente. Se in strada una persona, sparando alla folla, mi colpisce, non è femminicidio. Ma se il mio compagno mi maltratta, imponendomi un modello di comportamento in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, annientandomi psicologicamente e arrivando a uccidermi perché non voglio fare quello che dice lui, quello è femminicidio.
É dunque il movente per il quale la donna muore a fare la differenza giustificando il termine, il quale spesso contiene al suo interno una “storia” di violenza e soprusi. Il femminicidio è un crimine di odio mirato e razionale contro una persona in quanto donna, confermato dal fatto che violenza domestica, difficoltà nell’affrontare la fine di una relazione, possessività, gelosia e approccio sessuale non consensuale sono le motivazioni (una o molteplici di queste) che stanno alla base della totalità dei femminicidi. Per gli stessi presupposti a parti invertite si può parlare di maschicidio, ma è un fenomeno talmente raro da non destare preoccupazione, in quanto non si può considerare un fenomeno sociale. Tra l’altro è stato riscontrato, esaminando i rari casi nei quali è una donna a uccidere il compagno, che vi era una storia pregessa di violenza e umiliazioni subite nella relazione intima.
Il termine femminicidio venne coniato in America nel 1990 da una nostra connazionale, la docente scrittrice italo-newyorkese Jane Caputi, considerata una delle maggiori studiose delle dinamiche femministe della nostra epoca, affiancata poi dalla criminologa Diana Russell, ed è stato introdotto nel nostro ordinamento giuridico nel 2013.
Nell’anno in corso si contano già 96 femminicidi, ma tenere il calcolo è quasi impossibile, e nel momento in cui scrivo, dando credito alle statistiche, probabilmente il numero sarà salito. Bisogna poi tenere presente che queste cifre non includono né le donne sopravvissute né quelle stuprate, nel qual caso le cifre aumentano vertiginosamente.
Quello della violenza alle donne è l’unico fenomeno globale che accomuna ogni paese e che non fa distinzione di età, ceto sociale, etnia e religione.
Nel 2017 i casi di donne uccise per mano di familiari o partner nel mondo è stato maggiore in Asia e Africa (20 mila a testa), è sceso nelle Americhe (8 mila), in Europa (3 mila) e in Oceania (300). Sono dati che considero approssimativi, considerando che, specie in aree economicamente disagiate, i numeri sono molto più alti e talvolta nascosti.
Ma torniamo all’Italia. Il Collettivo Donne contro le violenze del quale sono portavoce ha svolto una ricerca incrociata per tentare di tracciare l’identikit dei maschi che uccidono le compagne. Un comune denominatore è senza dubbio l’insicurezza, l’incapacità di autocritica, una mancanza di controllo della propria impulsività nel perpetrare atti violenti che precedono l’omicidio, la mancata accettazione di essere lasciati. Molti sono maschi che hanno altre relazioni, oppure grandi fruitori di pornografia, che si trasformano in veri e propri vigilantes delle proprie compagne. Forse per paura che possano comportarsi come loro. Contemporaneamente esternano un bisogno assoluto dell’altro che si trasforma in possesso, in pretesa, e che dopo l’assassinio sfocia a volte nel suicidio o in un tentativo non riuscito.
Vi è una convivenza pregressa alienante e un desiderio ossessivo di plasmare la personalità della compagna a loro piacimento che tradisce una sorta di superiorità morale. Quando il progetto di coppia fallisce, perché la donna si allontana scegliendo altre strade, in sostanza egli si ribella, è la fine, è lì che nella maggior parte dei casi la violenza prende il sopravvento.
Un altro dato insolito coinvolge l’alto numero di assassini ultra sessantenni, a conferma del fatto che gelosia e possessività non siano prerogative di inesperienza nei rapporti.
I non nativi in Italia uccidono anche loro mogli e compagne per gli stessi motivi, accanendosi spesso sulle figlie per motivi sessisti e di possesso. I casi di violenza familiare, denunciati agli sportelli di aiuto, sono in aumento, purtroppo le denunce vengono molto spesso ritirate per paura di ritorsioni.
Gli omicidi che avvengono nell’ambiente della prostituzione purtroppo ricevono ben poca attenzione, cadendo spesso nel dimenticatoio.
Un discorso a parte, da approfondire in altro contesto, meritano invece gli stupri, che avvengono nella maggioranza dei casi per mano di persone sconosciute alla vittima.
Sono dati che andrebbero sviluppati e analizzati con attenzione. Credo fermamente che finchè non capiamo cosa c’è dietro ai femminicidi non potremo mai prevenirli.
Nonostante l’emancipazione ottenuta, ancora oggi il sistema, qui come altrove, tende a colpevolizzare la vittima, cominciando dagli interrogatori e dalle sentenze emesse nelle aule dei tribunali sino ad arrivare al podio delle proprie convinzioni personali.
C’è violenza in ogni ambiente di lavoro, in ufficio, nella prostituzione, nell’ambiente dei film porno, per strada e tra le mura di casa. Ho trovato molto valida la proposta di Michele Anzaldi e Gian Antonio Stella di mandare in onda il documentario della Rai sullo stupro di Latina del ’79, perché sugli errori del passato c’è ancora tanto da imparare.
Gli assassini vengono troppo di frequente rappresentati come individui “normali”, insospettabili, malati di troppo amore, che si pentono subito dopo aver compiuto un gesto che viene raccontato come un atto di follia impulsiva, colti da raptus improvviso. Questa è decisamente una narrazione tossica e fuorviante, che delegittima il movente e offende la vittima, perdipiù smentita dai fatti; non solo per la palese premeditazione, ma avversa alla miriade di denunce che spesso precedono questi gravi fatti di cronaca. Si tratta di uno di quei tasti messi in moto per contenere una realtà che è molto più complessa di quanto la società, in particolare quella maschile, sia disposta ad ammettere ad alta voce.
Le società percepiscono ancora la donna, più che come una persona, come un’entità cristallizzata in un ruolo preciso: quello di moglie e madre. E mentre per l’uomo diventato marito e padre è quasi scontato fare carriera e non interrompere le passioni personali, la donna, prima di godere di tali “opportunità” dovrà necessariamente dimostrare di essere buona moglie e madre; perché la maggior parte delle colpe, di un matrimonio fallito o di un’educazione dei figli sbagliata, verranno scaricate su di lei.
A coloro che, strumentalizzando il discorso politico, continuano a sventolare la famiglia come baluardo sul quale edificare le sorti del Paese, dico: ci si unisca nella battaglia e nella prevenzione dei femminicidi, dato che questi hanno come triste epilogo lo sfascio delle famiglie stesse, spesso abitate da figli innocenti che vengono sballottati tra parenti e case famiglia.
Come ho ribadito più volte, il femminismo lavora per condannare le pratiche di stampo misogino e sessista delle nostre società, ma non dovrebbe trasformarsi in una bolla escludente verso quegli uomini che dimostrano empatia e auto critica; l’importante è che costoro stiano accanto, a supporto, che si mettano in ascolto come alleati ammettendo i loro privilegi, senza volersi esporre come protagonisti.
In effetti, dopo tanti anni trascorsi a denunciare discriminazioni e violenza di genere, quello che ancora mi stupisce è la difficoltà che affronta una parte di uomini nel fare un passo indietro, nell’affrontare una serena auto critica, nel porsi in ascolto della metà del Paese fatto di donne che chiedono maggiore giustizia su temi che le riguardano in prima persona e che ne usurpano la serenità.
Il femminicidio è una responsabilità individuale, ma traendo linfa dal suo contesto di matrice patriarcale, si trasforma in responsabilità sociale. Sono punti sui quali vi invito a riflettere.
(di Agatha Orrico)