Pellizzari raccoglie in questo volume del 1908 alcuni scritti su vari argomenti, prevalentemente sotto forma di recensione a testi editi negli anni immediatamente precedenti, sempre con garbo e competenza e, talvolta, con l’affetto dell’amico. Si va dall’esame di un testo di Michele Lupo Gentile sul convegno di Nizza del 1530 e sulla figura di Paolo III, alla critica di opere di autori come Gherardo Nerucci, Francesco Flamini, fino a romanzi oggi certamente poco conosciuti come Gli Uccelli di Palmarini e La Giungla di Upton Sinclair, formidabile presa di posizione sul tema delle condizioni di lavoro degli operai dei macelli, e con un occhio, non frequente all’epoca, per le condizioni degli animali macellati.

Pellizzari lamenta la mancata traduzione del testo in italiano (infatti la prima traduzione italiana è del 1954). Non può passare inosservata l’attenzione che l’autore riserva alla Liguria, da Portovenere a Sarzana, all’incontro sul treno con un bizzarro violinista che risulta essere Paganini diretto a un concerto genovese del 1815 al teatro S. Agostino…

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro:

Pensavamo da molto a visitare Castelnuovo, teatro un giorno del grande avvenimento che oggi si commemora; e un bel pomeriggio dello scorso maggio salimmo a piedi, per un’ardua scorciatoia, alla turrita cima del paese dantesco. Erano assieme con me due buoni amici: i professori Michele Lupo-Gentile e Fortunato Rizzi; ci attendeva, per farci gli onori di casa, nella sua doppia qualità di sindaco e di collega, Michele Ferrari, studioso egregio di filosofia ed enologo valentissimo: due doti poco facili a trovarsi unite, dacché a memoria di uomo raziocinante i filosofi non abbiano mai posseduto vigne molto grasse. E Michele Ferrari appunto, dopo d’averci confortato lo stomaco con certo vinetto venerabilmente quinquagenario, ci condusse, a traverso un córso lungo e stretto, tutto ombre e scorci medievali, alla vastissima terrazza d’onde i ruderi dell’antico castello dominano ancóra, fieri e superbi della grandezza scorsa, la Val di Magra, fra l’Alpe e il mare.
Erano a destra alcune vetuste quercie, arnesi una volta da impiccar ribaldi, oggi ombra e riposo nei tepidi meriggi primaverili ai padri coscritti del luogo; in fondo, verso dove l’alto muraglione di cinta precipita a piombo nella valle, la vecchia torre dritta al cielo, e, mezzo diruti, spaldi e bastíe minori.

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