Sempre in un continuo crescendo nell’intera silloge «una luce balena» e il poeta diventa cantore della persistenza della nostalgia. Essa avvolge immagini, ricordi, paesaggi, oggetti e interiori-interni, nella colorazione sfuocata, inafferrabile e dolorosamente ricorrente dell’alba e del tramonto che trascolora la ricerca di un’appartenenza.
Il perdersi in un deserto, lentamente si configura come ricerca umana di identità, vita e morte, spaesamento e «fuggenza» dal reale. La poesia di Jelloun si svela insieme al respiro del vento che soffia sui ricordi, insabbia il dolore per poi rimandare al cuore, specchi di sé che riflettono e sconquassano alberi e mare.
«Nelle notti d’esilio/ dal paese amato soffia un vento così forte/ da far crollare gli alberi di nostalgia/ e depositare le sabbie del Sud sui tuoi occhi chiusi./». «Quando lo specchio, stanco di riflettere,/ cesserà di restituire immagini,/ quando il tempo, liberato dalle nostre urgenze,/ fermerà il suo andare,/ quando il colore, tradendo i sensi,/ si mescolerà alla grisaglia dei nostri mattini/ solo il gabbiano andrà/ a posarsi ancora sulle creste di schiuma/».
Il conosciuto impegno sociale dell’autore è imbevuto d’anima e, intrisa di lacrime di pietra, si coglie la lotta contro una società che fa di alcuni «una lista delle merci» e dei loro sogni «oggetti smarriti»; Ben Jelloun illumina di «parole nude» ogni verso dentro il quale incide fino a sanguinare un’identità che si srotola come radice aerea; offre appoggio ma non permanenza.
Il lavoro illumina almeno tre possibili spartiti in altrettante scenografie di vita; «ci alziamo nell’immensità del segreto», la silloge si apre con la luce della parola sulla voce-silente del camposanto «dove i nostri antenati si ostinano a morire», voce che suona il ritorno del tempo contro un apparente non-sense del vivere al quale la memoria restituisce storia, parola e «schiara» le tenebre che lo offuscano; il deserto, metafora di vita, solitudine, esilio e ricerca:
«Il deserto è in primo luogo un’immagine, una dimora/ interiore. Vi si scende imboccando la scala/ del ricordo e la rampa della malattia./ e ancora il deserto è un segreto circondato da un segreto/ più grande nascosto nello spazio inarrivabile che/ nessun agrimensore potrà mai definire/ e un interno quasi onirico/»;
infine una lirica che con cadenzata ritmicità sembra fungere da nenia cullata per un’infanzia smarrita nel seno di una madre il cui volto – recita il poeta – è «una terra molto irrigata». In un interno si chiude il testo e racconta sogni e fantasie solitarie e «commosse» davanti a «doppi» muri. È Parigi forse, ma anche voce d’Oriente «una voce d’Oriente abita il silenzio», che accarezza «il ricordo di vestigia commosse». Non credo che i tre momenti, sostanziali nella silloge siano voluti, colgo piuttosto in essi l’andamento musicale della nostalgia che si rifugia infine nel sogno ad occhi aperti nella stanza che accoglie il poeta per aiutarlo forse a superare con il richiamo al fantastico e alla leggenda, il viaggio del nomade «anche a se stesso».
«il grande libro ha aperto le porte al mare e/ alle leggende di Tetouan/ bianca colomba con un occhio di vetro»; «un pesce d’argento/ ha mangiato la polvere/ poi si è sistemato su una mensola/ tra due manoscritti/».
Tahar Ben Jelloun
Doppio esilio
collezione «Selected poems»
Edizioni del Leone, Spinea (VE) 2009
pp. 104
€ 10,00