Una regione ospedalePer quanto ogni anno la bibliografia si arricchisca di numerosi titoli, l’evento Grande guerra resta ancora, e per taluni aspetti tematici ed interpretativi non secondari [1], un discorso ampiamente aperto.
Aperto in più direzioni. Una delle quali è certamente quella battuta dal gruppo di ricerca alla cui penna si deve l’interessante Una regione ospedale. Medicina e sanità in Emilia-Romagna durante la Prima Guerra Mondiale (Clueb, Bologna 2010), pubblicazione già segnalata ai lettori di Paginatre.it nelle scorse settimane: https://paginatre.it/2010/08/05/2442/

Curato da Fabio Montella, Francesco Paolella e Felicita Ratti, il volume rivela il proprio carattere di novità in un panorama storiografico operoso non tanto o non solo nei temi studiati: la chirurgia e la psichiatria di guerra; l’impatto socio-culturale della spagnola; la quotidianità di alcune città emiliane nel vortice bellico. Né si ripromette di farlo nelle metodologie interpretative e nella documentazione esplorata – fondi ospedalieri, cartelle cliniche, carte degli uffici sanitari comunali: territori oramai consueti per gli storici sociali. Persegue, al contrario, la propria originalità nel disegno finale di un quadro complesso frutto dell’interconnessione organica dei temi trattati. Interconnessione che, per quanto riguarda il saggio comparativo di Felicita Ratti relativo alle vicende della pandemia influenzale nel Land Salisburgo e nella provincia di Modena, si avvale con acribia di quell’ottica internazionale così «spesso trascurata» nell’accademia italiana, come osserva l’autrice (p. 6).
Non si tratta, beninteso, della giustapposizione a mosaico di alcuni saggi relativi ad un identificato territorio, dal cui semplice accostamento il lettore è invitato a trarre quanto potrebbe essere di sua campanilistica curiosità. Ma di un lavoro di ricerca sostenuto complessivamente da una comune ispirazione – l’attenzione per la hobsbawmiana e oggi poco alla moda storiograficamente parlando gente comune -, e dal desiderio di un confronto con le problematiche nuove suscitate dalla guerra, commisurate sullo sfondo di una circoscritta area evitando nel contempo la trappola delle chincaglierie del localistico.
Una regione ospedale – scrive nella premessa Felicita Ratti – vuole essere la storia «di un territorio che le esigenze belliche avevano trasformato in un attivo e popoloso centro di cura», ma anche plasmato e modificato nei suoi caratteri facendolo assomigliare «ad una struttura complessa, fatta di regole, disciplina, controlli» (p. 7).
Lontana dal fronte, retrovia delle prime linee; eppure l’impatto dei combattimenti, come una sorta di onda sismica, è fin dai primi mesi avvertibile anche in Emilia Romagna. Un dato tra i tanti: dopo l’apertura delle ostilità, a Reggio Emilia il «flusso di feriti in arrivo fu sin da subito elevato: in poche settimane ne vennero segnalati oltre 600, tanto che gli ospedali militari appena aperti non erano in grado di provvedere adeguatamente alle cure mediche ( […])» (p. 27).
Non è difficile immaginare quanti e quali tipi di questioni una situazione del genere creasse; ed il saggio di Michele Bellelli in apertura di volume: Dalla pace alla guerra. Strutture e personale sanitario a Reggio Emilia, ne offre una completa rassegna, pur trascurando – a mio avviso sorprendentemente – di guardare ai problemi e, soprattutto, alle soluzioni adottate, alla luce di una considerazione di classe.
Esame che, invece, ritroviamo nel testo di Fabio Montella Modena e i suoi ospedali nella Grande guerra, con il capitolo di Francesco Paolella sull’alienismo bellico – che vedremo in seguito – tra i più convincenti del volume.
Montella ricorda tra gli immediati effetti della guerra guerreggiata il repentino peggioramento delle condizioni di vita della popolazione. Immiserimento che generò «ampie sacche di indicibile miseria» (p. 46), obbligando le autorità, nello sforzo di farvi fronte, a promuovere una serie di iniziative in grado letteralmente di cambiare il volto sociale delle città, e le abitudini sia di chi era oggetto delle attenzioni pubbliche, sia di chi si faceva promotore delle stesse. «La guerra e le sue logiche – osserva Montella – erano ormai entrate con prepotenza nella vita di tutti» (p. 50); per «alcune municipalità il conflitto rappresentò un’occasione per mettere mano, pur nelle ristrettezze dell’economia di guerra ad opere pubbliche che i cittadini attendevano da tempo ( […])» (p. 52).
La guerra come cesura storica si delinea chiaramente – anche se, sui limiti o, meglio, il profilo di tale cesura, la storiografia recente è finalmente giunta ad interrogarsi superando le semplificazioni del passato. E all’interno di tale cesura, una tappa fondamentale, a sua volta punto di snodo per la storia nazionale, è rappresentata dalle conseguenze della sconfitta di Caporetto, con il «massiccio e repentino spostamento di militari e civili», all’origine di «una rinnovata pressione all’interno del Paese» (p. 60).
Immagini tangibili della situazione creatasi a seguito dello sfondamento austro-tedesco, i militari sbandati ed i profughi friulani e veneti [2], accolti in numero di più di 10.000 nella sola Modena, con le conseguenze – non ultimo di ordine pubblico e di ripetuto attrito con i bisognosi residenti in città – del caso.
«Chiusura di laboratori, disoccupazione, inflazione, speculazione e miseria» furono, infine, «le drammatiche eredità del conflitto» (p. 65). Eredità che possiamo ritrovare in molte delle città europee vicine o lontane dal fronte. Ma dalla guerra emergeva anche il nuovo attivismo degli enti pubblici nell’assistenza sociale, affatto sconosciuto nel passato in quelle forme e dimensioni. E, non ultimo, quel bagaglio di conoscenze teoriche e pratiche maturato dai medici mobilitati, successivamente messo a frutto dalla medicina civile come ampiamente illustrato ancora da Fabio Montella nel saggio Chirurgia e chirurghi nella Prima guerra mondiale.
Alla vigilia della guerra, la classe medica italiana – come per altro quella internazionale – «non appariva pienamente consapevole dei mutamenti che le armi e la tecnologia avrebbero comportato» (p. 122). Per questa ragione, posti a confronto con i concreti effetti della guerra – la materialità di corpi devastati, ferite profonde e poliformi, estese infezioni – i medici furono costretti celermente «a riconsiderare molte delle scelte e delle risposte terapeutiche [ed organizzative] diffuse fino ad allora» (p. 112). Naturalmente, del travaglio teorico-pratico in corso, se ne ebbe riflesso anche e soprattutto in Emilia Romagna, regione che già all’epoca (si pensi all’Istituto Rizzoli), vantava strutture e professionisti all’avanguardia, e che in virtù di ciò durante gli anni del conflitto doveva affermarsi «come centro vivo per il progresso della chirurgia nazionale» (p. 143).
Dei travagli e dei dibattiti dottrinali che interessarono la chirurgia non troviamo analogia in un’altra branca medica: la psichiatria, oggetto del puntuale intervento di Francesco Paolella.
Sulle ragioni di una tale timidezza (o passività) epistemologica – in larga parte incompresa da quegli storici che, sulle ali delle storiografie francesi ed inglesi hanno voluto anche rintracciare da noi segni di svolte concettuali mai avvenute – non è questo il luogo per interrogarsi. Né è possibile discorrere ora della caducità di un discorso psichiatrico alle prese con ingiurie ben altrimenti dotate di materialità rispetto alle ferite di competenza chirurgica. Quel che vale la pena sottolineare delle pagine di Paolella – dedicate, in rassegna, ad alcuni dei nomi più noti di psichiatri operanti in Emilia Romagna: Giacomo Pighini, Gaetano Boschi, Placido Consiglio, Arturo Donaggio – è, invece, la messa a punto ulteriore dell’immagine di una disciplina medica più attenta al suo ruolo custodialistico che non a quello terapeutico. Ruolo a cui non erano estranee né le urgenze efficientiste imposte dal conflitto, col trinomio identificazione-separazione ed espulsione del folle dai reparti mobilitati; né le matrici concettuali dell’antropologia criminale lombrosiana (p. 79), che, per parafrasare Kerényi, come la testa recisa di Orfeo continuava a cantare (orientando psichiatri, psicologi, antropologi, sociologi e demografi) nonostante il prematuro tramonto decretatone dai contemporanei neoidealisti e da alcuni commentatori odierni.
Sarebbe certamente eccessivo vedere la presenza e le pratiche psichiatriche esclusivamentealla lente delle loro conseguenze disciplinari-repressive [3]; non di meno, è da rimarcare che tali prassi andarono ulteriormente accentuandosi proprio a Reggio Emilia, con la costituzione del Centro militare di 1a raccolta per il discernimento, dopo Caporetto, dei soldati sbandati dagli scioperati militari, dai simulatori e dai veri e propri matti.
Giustamente Paolella evidenzia come una certa modalità di gestione dei «folli di guerra» abbia rappresentato per alcuni psichiatri – ed in particolare per i professionisti della sanità militare – un modello da implementare ben oltre i perimetri delle caserme. La militarizzazione della vita civile postbellica passò indubbiamente anche da questi interstizi culturali, solo a prima vista marginali. Dalla volontà, cioè, di alcuni medici-intellettuali carichi di know-how quanto di prestigio patriottico, di proporre la «giustizia scientifica» messa a punto nelle strutture neuropsichiatriche d’armata disponendo del diritto dei folli alle pensioni di guerra e del trattamento da riservare ai simulatori/disertori, come «modello di gestionevalido non soltanto per l’esercito, ma per la società nel suo complesso, nella lotta contro i comportamenti antisociali e degenerati» (p. 108).
Evidente merito del saggio di Francesco Paolella è la misura, la capacità di dosare interpretativamente il fondo archivistico analizzato e le differenti situazioni della realtà emiliano-romagnola senza, muovendo da questi, e attraverso indebite estensioni, volerne fare lo specchio fedele delle realtà vissute dall’intera nazione e dai suoi militari, sani o insani che fossero. In altre parole, l’autore non cade nell’abbaglio in cui è scivolato chi, sulla base di poche cartelle cliniche oppure appartenenti ad un solo istituto manicomiale, e perifrasando le tesi di Eric J. Leed o di Paul Fussell [4], ha preteso fornire il resoconto dell’esperienza bellica tout court dei combattenti, con le connesse modificazioni del loro universo mentale-comportamentale.
Rigoroso, stilato con mano didattica, ampio – probabilmente fin troppo rispetto all’economia testuale – il saggio di Felicita Ratti posto al centro del libro, e consacrato alla Storia sociale comparata della pandemia influenzale 1918-1919 nella provincia di Modena e nel Land Salisburgo.
Nucleo di una tesi di dottorato in corso di realizzazione, il saggio lascia qualche perplessità quando elenca le ragioni che hanno portato l’autrice a scegliere le località da comparare. Detto che ogni comparazione può presentarsi in sé discutibile (se non addirittura controversa!), sono gli stessi dati offerti dall’autrice, o anche una superficiale conoscenza della storia delle due realtà messe a confronto, a far dubitare della solidità dell’affermazione secondo la quale il Land Salisburgo e la provincia di Modena «dal punto di vista sociale offrono valori demografici decisamente comparabili» (p. 153).
Ciò premesso, il saggio di Felicita Ratti suscita attenzione per più motivi. Per il respiro decisamente internazionale della letteratura consultata. Per la profondità dell’analisi, intesa a «fornire un ritratto sociale dei due territori nei mesi cruciali sia della pandemia sia del termine del conflitto, evidenziando eventuali tensioni legate all’epidemia, oppure le mentalità popolari, mettendo in rilievo le influenze del conflitto sul funzionamento della sanità a livello locale ( […])» (p. 151). Ancora, per l’abilità con la quale traspone la chiave analitica offerta dalle interazioni fra Stato e salute pubblica – sulla scorta dei suggerimenti di Andrew Price-Smith – in un contesto temporale come quello dei primi mesi del dopoguerra, dagli storici indagato con un’attenzione minore di quanto probabilmente meritasse.
L’epidemia influenzale è al centro anche del secondo intervento di Michele Bellelli: Aspetti e problemi dell’epidemia di spagnola a Reggio Emilia. Più stringato rispetto all’intervento della Ratti, presenta una cronaca delle vicende vissute dalla città dall’apparire al decrescere della minaccia morbosa. Di nuovo, a spiccare, è la dimensione dell’impegno profuso dalle autorità mediche e comunali, anche se antiche e pessime abitudini igieniche o cronici deficit organizzativi continuano a persistere.Per esempio, ricorda l’autore, a livello di assistenza farmaceutica, «la maggior parte della popolazione dell’hinterland cittadino ( […]) non poteva usufruire di una adeguata assistenza» (p. 234).
Chiudono il volume due saggi: I mutilati e gli invalidi tra cura, rieducazione e controllo di Fabio Montella; e La casa di rieducazione professionale per mutilati e storpi di guerra di Bologna, scritto a quattro mani da Mirtide Gavelli e Fiorenza Tarozzi.
Interessante soprattutto per le informazioni che riporta alla luce – del resto, uno studio sistematico del personale, dei pazienti e della vita di strutture del genere è lungi dall’esser promosso in Italia – il testo di Gravelli-Tarozzi ci rcorda come non fosse facile la sfida che attendeva mutilati e storpi nel dopoguerra. Se per i medici si trattava di far ridiventare i pazienti prima uomini, ed eventualmente poi lavoratori (p. 289), per le vittime a vita del conflitto il ricovero rappresentava spesso il primo passo di un lento e problematico reinserimento sociale. Un ritorno alla vita in condizioni fisiche e psicologiche ben diverse da quelle vissute al momento della partenza per il fronte, quando la guerra poteva apparire un’allettante avventura.
Tragiche ombre lasciate in eredità dai combattimenti, oggetto di cura e controllo pervasivo da parte delle autorità proprio quando i reduci in genere scoprono nel nascente associazionismo un strumento di salvaguardia dei propri diritti, mutilati e storpi rappresentano – come considera Fabio Montella – un aspetto nuovo e imprevisto della guerra, un problema costantemente in agenda ed in grado di indurre medici e autorità a «improvvisare, creare, attivare, coordinare» iniziative (p. 265), non sempre però con risultati degni di nota.
Ancora una volta, l’Emilia Romagna, nell’ortopedia, nella fisioterapia e nella radiologia – ausilii essenziali per la cura e la rieducazione dei pazienti – svolge un ruolo da battistrada, fungendo sia da modello organizzativo che da laboratorio per gli interventi in seguito posti in atto nell’intero territorio nazionale. Paradossalmente, allora, sarà soprattutto quella stessa tecnologiache «aveva portato al parossismo gli effetti delle devastazioni belliche» (p. 274), ad offrire a storpi e mutilati una qualche chance di rinascita, per mezzo dell’utilizzo di gambali, ortesi e protesi.
In conclusione, avrebbe forse giovato al volume un breve capitolo finale in grado di raccogliere i diversi approdi euristici in un resoconto scrupoloso ma agile. D’altro canto, Una regione ospedale. Medicina e sanità in Emilia-Romagna durante la Prima Guerra Mondiale può essere certamente indicato ad altri gruppi di ricerca come prototipo da imitare nell’analisi di parallele realtà territoriali, più o meno prossime al fronte, e più o meno coinvolte dalle operazioni belliche.
Ad ennesima smentita delle elucubrazioni di qualche canuto cattedratico, più preoccupato di promuovere le proprie ricerche che di comprendere l’originalità dello sforzo di giovani ricercatori (ahi loro, per danno collaterale generazionale – diciamo così […] – impossibilitati a raggiungere quelle medesime cattedre!), è indubitabile che un grosso lavoro resta ancora da fare se davvero si vuol provare ad aggiungere nuovi tasselli utili a comprendere a fondo le guerre degli italiani. In questo senso, col volume curato da Fabio Montella, Felicita Ratti e Francesco Paolella, è stato fatto sicuramente un pregevole passo in avanti.

Note:

[1] Si pensi al lavoro di M. Ermacora, Cantieri di guerra. Il lavoro dei civili nelle retrovie del fronte italiano (1915-1918), Bologna : Il Mulino, 2005, al quale non è seguita una stagione di studi in materia.

[2] Vedi D. Ceschin, Gli esuli di Caporetto. I profughi in Italia durante la Grande guerra, Roma: Laterza, 2006.

[3] Vedi per es. C. Tumiati, Zaino di sanità, Udine: Gaspari, 2009 (ed. orig. 1947).

[4] P. Fussell, La Grande guerra e la memoria moderna, Bologna: Il Mulino, 1984; E.J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale, Bologna: Il Mulino, 1985.