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(voce di SopraPensiero)
“Defragazione d’amore”: fu con queste parole che il poeta Mario Luzi definì la relazione tra Dino Campana e Sibilla Aleramo, nella prefazione del primo volume che rendeva nota la corrispondenza tra i due amanti, autorizzato dalla scrittrice nel 1958 e curato dall’amico Niccolò Gallo. Successivamente le lettere e i telegrammi che scandirono le fasi della relazione sono stati raccolti in altre pubblicazioni, accompagnate da note di commento dove si è cercato di dare una risposta ai vari interrogativi che una storia d’amore tanto tormentata ha sollevato. Tra le opere più recenti “Sibilla Aleramo e Dino Campana. Un viaggio chiamato amore. Lettere 1916-1918”, a cura di Bruna Conti (Feltrinelli, 2000), e “Lettere d’amore” pubblicata in ebook sul sito www.poesieinversi.it, quest’ultimo testo corredato dalle foto degli amanti e di alcuni artisti che furono chiamati in causa, perché legati da un rapporto di amicizia con la scrittrice. Nel 2002 Michele Placido ha raccontato la storia di Dino Campana e Sibilla Aleramo nel film “Un viaggio chiamato amore”, con Stefano Accorsi e Laura Morante nei ruoli dei protagonisti.
Come sovente accade per le persone particolarmente sensibili, Sibilla Aleramo, al secolo Rina Faccio, si era infatuata di Dino Campana prima dell’incontro che legò le loro anime, leggendo i “Canti orfici” e apprezzando la profondità poetica dell’autore che le era stato consigliato dall’amico e critico Emilio Cecchi. Il loro primo incontro avvenne sulle montagne del Mugello nell’estate del 1916, dopo essersi corrisposti per alcune settimane. Per Campana la Aleramo rimarrà l’unico amore della sua vita, anche perché dopo averla definitivamente persa sarà internato in manicomio dove morirà; per lei Dino invece fu una delle non poche infatuazioni, che continuò ad avere anche dopo la morte del poeta.
All’inizio di agosto si trovarono presso Marradi, paese di nascita di Campana, e trascorsero alcuni giorni parlando di se stessi e di letteratura. Lui le fece visitare varie località del Mugello che lei non conosceva, fino a giungere a Faenza, dove il poeta aveva frequentato il liceo e in uno dei pomeriggi più importanti della sua vita aveva avuto la soddisfazione di incontrare, insieme ai compagni di studio, Giosuè Carducci. Al ritorno a Firenze la scrittrice non aveva alcun dubbio sull’autenticità dei sentimenti che provava per Campana, nella lettera che da Villa La Topaia, Borgo San Lorenzo, il 6-7 agosto inviò al poeta scriveva “Son tua. Sono felice. Tremo per te, ma di me son sicura. E poi non è vero, son sicura anche di te, vivremo, siamo belli.” Ma già alcuni atteggiamenti l’avevano impensierita, capiva che era un uomo profondamente tormentato, bisognoso di aiuto, condizione che la spinse a cercare di persuaderlo a farsi curare da un medico di fiducia. Sibilla aveva pensato al fratello di Leonetta Pieraccini, moglie di Emilio Cecchi.
Da questo primo avvicinamento le lettere della scrittrice si fecero frequenti, si preoccupava per il suo amore che viveva in una condizione di estrema precarietà sulle montagne del Mugello, ma temeva di infastidirlo perché era stato proprio lui a confessarle di non gradire la comunicazione epistolare. Nella lettera dell’8 agosto 1916, sempre da Villa La Topaia, la Faccio arrivava a dire “Ti supplico, Dino, tranquillizzami, mi basta una parola, te l’ho detto. E ora devo aspettare fino a domattina, la posta non viene che una volta.”
I medici avevano diagnosticato a Dino Campana la neurastenia, una malattia psicologica che lo spingeva a spostarsi di frequente senza meta per vivere lontano dalle persone che lo conoscevano. Figlio di un maestro elementare dal carattere debole, la madre aveva impartito a lui e al fratello un’educazione severa. Da bambino era stato amato dai genitori per il suo carattere docile, malgrado non gli avessero mai nascosto di preferire il fratello, ma durante l’adolescenza erano apparsi i preoccupanti sintomi della malattia. Prima di conoscere Rina Faccio aveva viaggiato a lungo; sembra che ancora giovanissimo fosse riuscito a raggiungere l’Argentina, dove aveva svolto diversi lavori, e in un altro spostamento si fosse spinto fino alla città di Odessa, precedendo di pochi anni la storica rivolta della corazzata Potëmkin.
Le lettere del poeta tra l’estate e l’autunno del 1916, dopo che i medici dell’ospedale militare lo avevano giudicato inadatto per combattere sul fronte, alternano un tono affettuoso a un linguaggio distaccato, che lascia quasi intuire disinteresse. A volte Campana si rivolge alla sua amata dandole del lei, dimostrando in effetti di non gradire l’eccessiva insistenza della scrittrice.
Negli ultimi giorni del settembre 1916 i due letterati compirono una nuova fuga d’amore, scegliendo Villa Alba a Marina di Pisa dove aveva soggiornato anche Gabriele D’Annunzio. Ed è proprio in quell’occasione che doveva permettere a Dino e Sibilla di vincere, come era solita scrivere lei nelle sue lettere, che la Aleramo ebbe la sfortunata idea di leggere al compagno il romanzo “Forse che sì forse che no”. Campana riteneva il Vate un letterato pieno di sé, non certo sommo nelle sue opere come critici ed editori sostenevano, e non mancò di far presente all’amata le sue opinioni. Ma al di là del rapporto in realtà di amore e odio con D’Annunzio, l’aria di mare ebbe un effetto deleterio sulla salute mentale del poeta; la sua malattia peggiorò in pochi giorni e le liti tra i due innamorati si fecero sempre più frequenti e violente, tanto che a fine ottobre Sibilla tornò per pochi giorni a Firenze per avere un po’ di sollievo e chiedere l’aiuto di Cecchi. Al suo ritorno la accolsero i proprietari di Villa Alba che la sollecitavano ad andarsene.
Gli amanti furono di nuovo costretti a separarsi. Campana in preda all’agitazione tornò sulle montagna del Mugello; Sibilla da Firenze lo implorava di riprendere a vivere con lei e lo convinse a trasferirsi a Villa Linda presso Settignano, ospiti della giornalista svedese Astrid Ahnfelt. Fu in questo soggiorno che i due letterati trascinarono nella loro sofferta storia d’amore alcuni intellettuali legati da amicizia con la Aleramo, dando la chiara impressione di voler scaricare sugli amici la tensione di un rapporto già consumato, vissuto dalla scrittrice nell’angoscia e nella paura per i comportamenti violenti e irrazionali del compagno. La Faccio finì per accusare Leonetta di spingere con le sue bugie Campana ad essere ancora più ostile nei suoi confronti a causa di un’incontrollabile gelosia, come affermava in una lettera da Settignano, Firenze, scritta alla moglie di Cecchi circa due mesi dopo, nelle notte tra 2 e il 3 dicembre 1916. “Perché non hai avuto fede, Leonetta? Eri una delle tre o quattro persone al mondo di cui non dubitavo. Quando Campana m’ha detto che cosa tu gli avevi scritto mentr’era lassù, ho provato un dolore che tu non puoi capire, Leonetta.”
Sfinita dallo stato di agitazione sempre più intenso di Campana, Sibilla decise di fuggire a Sorrento per avere un nuovo momento di pausa e riflessione; non lo voleva ammettere nemmeno a se stessa, ma non riusciva più a sopportare una situazione ormai ingestibile. Il 18 dicembre la giornalista svedese cacciò gli amanti dalla sua villa, ormai stanca di sopportare i loro continui litigi. Non è certo se Campana e la Aleramo trascorsero le feste natalizie insieme, ma un biglietto della scrittrice lascerebbe intendere che fosse a Marradi almeno per la notte di Natale.
Dalle prime settimane del 1917 i due letterati rilegarono la loro storia d’amore quasi esclusivamente al rapporto epistolare. Continuarono a scriversi per vari mesi, alternando momenti in cui sembravano non voler rinnegare i sentimenti che li avevano legati, a momenti in cui si dicevano ormai stanchi l’uno dell’altra. Spesso nelle sue lettere Campana sosteneva di amare la compagna, mentre lei, malgrado confessasse di provare per lui ancora una forte passione, era chiaramente intenzionata a non volerlo più al suo fianco. La scrittrice rivide il poeta il 13 settembre 1917 in un tragico incontro, dopo l’arresto di Dino a Novara perché scambiato per un tedesco. Grazie all’intervento di un avvocato milanese riuscì a fargli avere un foglio di via per tornare a Marradi, ma nei mesi successivi le sue condizioni psichiche peggiorarono ulteriormente. Campana alternava stati di depressione a momenti di grande eccitamento, attaccava briga con chiunque e continuava a vagare senza meta. In una lettera al marito partito per il fronte del 4 gennaio 1918 Leonetta Cecchi Pieraccini scriveva: “Ma senti che mi capita stamani. Mi capita Campana. Fin qui nulla di eccezionale. L’eccezionale, l’inaudito è stata la conversazione: il monologo, lo sfogo, il suo dire insomma. A momenti mi pigliava quel profondo sottile tremore che si prova dinanzi ai pericoli perché vedevo il viso del mio interlocutore vieppiù alterarsi e gli occhi lustrare come se fossero di vetro.”
Il poeta fu ricoverato in manicomio il 12 gennaio 1918, dove morì il 1 marzo 1932 di setticemia, proprio quando i medici iniziavano a pensare di poterlo dimettere. In quasi quindici anni di internamento Sibilla Aleramo non scrisse e non andò mai a far visita al suo vecchio amante, che fu sepolto senza il conforto dei cari.
La scrittrice nel 1936 iniziò la sua ultima storia d’amore infatuandosi del giovane poeta Franco Matacotta, che pubblicò sulle riviste “Prospettive” e “La fiera letteraria” alcune lettere prese dalla corrispondenza con Dino Campana. Il loro rapporto si incrinò dopo il matrimonio di Matacotta e la Faccio arrivò ad accasarlo di averla derubata delle carte che custodiva più gelosamente. Sibilla Aleramo morì il 13 gennaio del 1960.