(voce di SopraPensiero)

 

Opera a base teologica, di una teologia bizzarra ed eterodossa. Il vescovo anglicano Edward Scrope, con moglie e cinque figlie, viene colto da crisi religiosa nell’imminenza e allo scoppio della guerra. Decide di abbandonare la chiesa e di dedicarsi a una sorta di predicazione millenaristica; scelta caldeggiata da una stravagante e ricchissima ammiratrice. Ma tra una «visione» e l’altra Scrope rinuncia a ogni velleità di vita comoda, a ogni comoda scorciatoia in direzione di una predicazione che ripercorra in qualche modo la professione ecclesiastica.
Scritto nel periodo in cui l’autore era vicino ed interprete delle posizioni del fabianesimo, il testo, pur non all’altezza forse di altri suoi romanzi e opere fantascientifiche e avveniristiche, non manca tuttavia di garbo e ironia (memorabili le figure dei due medici ai quali Scrope si rivolge per sedare le sue inquietudini e i rapporti di questi con le sostanze stupefacenti) e dimostra una volta di più la capacità con la quale l’autore si destreggia nel tratteggiare, attraverso le vicende della primogenita di Scrope, e prefigurare sviluppi di nuove istanze sociali, per esempio in questo caso delle istanze del femminismo anglosassone che proprio in quegli anni avevano assunto aspetti eclatanti, ad esempio con i fatti al Derby di Epson del 1913. Come in altre sue opere Wells ci propone in ogni caso la via della sincerità e del coraggio come strada per il superamento della propria crisi.
Traduzione del prolifico e attivissimo Gian Dàuli.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro:

Una scena di aspra disputa. Un giovane dal naso aquilino, con l’indice levato, primeggiava tra gli altri. Il suo volto appariva violentemente agitato: moveva le labbra rapidamente, senza che si udisse quello che egli diceva.
Dietro a lui il piccolo uomo dai capelli rossastri, con gli occhi grandi, gli tirava il vestito e gli suggeriva.
E dietro a questi due s’aggruppava una moltitudine di facce oscure, animate, eccitate […]
L’imperatore sedeva sul trono dorato nel mezzo dell’assemblea e comandando il silenzio coi gesti, parlando incomprensibilmente, in una lingua che la maggioranza non usava, riusciva a prevalere. Cessarono le interruzioni e il vecchio, Ario, entrò nella discussione. Per qualche tempo tutti quei volti eccitati restarono fissi su lui; ascoltarono come se attendessero una occasione opportuna, e improvvisamente, come per un accordo preparato, si ficcarono tutti le dita nelle orecchie, e corrugarono le ciglia come se fossero inorriditi; parecchi gridavano facendo l’atto di fuggire. Alcuni infatti alzarono le vesti e fuggirono. Si sparsero formando un disegno. Erano come i piccoli frati che correvano via dal leone di san Gerolamo nella pittura del Carpaccio. Allora un fanatico si slanciò innanzi e percosse il vecchio violentemente sulla bocca.
La sala sembrò divenire sempre più vasta. Le infuriate figure che si disputavano, si moltiplicarono fino a diventare una folla innumerevole; correvano girando come fiocchi di neve portati da un gran vento, s’accompagnavano in coppie disputanti, s’avvolgevano in turbini di contraddizioni, formavano disegni straordinari, e a un tratto, nell’oscurità nebulosa della volta infinita sopra di loro, apparve e ingrandì un triangolo luminoso, nel quale brillava un occhio.

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