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(voce di SopraPensiero)
Francesco Scarabicchi, Rosita Copioli e Roberto Mussapi sono stati ospiti del Poesia Festival presso la biblioteca Garofalo di Castelfranco Emilia, dove hanno offerto al loro pubblico una mattinata di intense emozioni, tra sentimenti messi a nudi nei versi e raffinate riflessioni sull’universo culturale che ruota intorno alle loro opere. Tre autori che stanno scrivendo pagine importanti della storia attuale della letteratura, attraverso stili diversi, ma accumunati dalla necessità di comunicare in poesia, una poesia che non si risparmia, capace di entrare in profondità nell’animo dei lettori che la sanno apprezzare. I critici Roberto Galaverni, Alberto Bertoni e Paolo Donini hanno introdotto gli ospiti descrivendo le loro scelte stilistiche, adottate per offrire un contributo di svecchiamento alla lirica moderna, pur preservando il contatto con la tradizione.
«Caproni, che è stato uno dei maestri di Scarabicchi, sosteneva che la poesia non è musicale, ma musica. – ha spiegato Galaverni – Nel «Prato bianco», infatti, l’autore rivela una particolare cura per la musicalità delle sue liriche, spesso brevi e intense non solo nel contenuto ma, per l’appunto, anche nel ritmo poetico. La raccolta uscì, come molti ricordano, venti anni fa senza richiamare l’attenzione del pubblico e della critica come avrebbe meritato, tributi conseguiti con la nuova edizione curata da Einaudi.
Si trasmette il timore per lo scorrere del tempo, che diviene quasi un’ossessione, ed è solo attraverso la poesia che Scarabicchi ritrova la serenità, salvando nei versi momenti di vita a volte dolcissimi, altre volte intrisi di un’assoluta malinconia. Il suo è uno stile essenziale, oltre a Caproni si riconosce l’influsso del conterraneo Scataglini e di Saba, che si concentra sul valore semantico ed emozionale della parola, strumento per congelare nei versi immagini e sentimenti.»
«La nuova edizione ha dato al «Prato bianco» i riconoscimenti che merita – ha affermato Scarabicchi – era molto tempo che desideravo riproporre quest’opera, quando Bersani mi ha chiamato offrendomi di contribuire con una poesia all’antologia da lui curata per Einaudi, ci siamo accordati anche per un progetto ben più ambizioso: dare di nuovo alle stampe la mia terza silloge, fondamentale per la mia formazione poetica. Quando ho visto i premi e le recensioni che sono seguite, ho finalmente avuto la certezza che il mio libro aveva iniziato a «respirare». Ho difeso il mio lavoro: Caproni diceva che si deve avere dedizione per la poesia, si deve difendere il proprio lavoro e quello altrui. Perché la poesia salva reperti della vita che non si devono perdere.
Ho sempre avuto un grande rispetto per il valore comunicativo della parola, ma mi sono chiesto spesso se veramente attraverso essa possiamo trasmettere ogni sensazione. Con la tragica scomparsa della figlia di due miei amici, ho scoperto che la parola non riesce a spiegare cosa si prova di fronte al dramma più terribile. L’ho capito quando ho abbracciato la madre della ragazza e la mia carne e le mie ossa, per alcuni istanti si sono fuse con le sue.»
Alberto Bertoni nel presentare Rosita Copiolo ha ricordato la lunga formazione culturale e letteraria dall’autrice, fin dagli inizi quando si è manifestata la sua vena poetica, negli anni dell’Università a Bologna e delle lezioni di Luciano Anceschi.
«Nell’opera di Rosita Copiolo emerge il legame con la classicità, di cui l’autrice possiede una notevole conoscenza, estesa attraverso lo studio di altre tradizioni mitologiche, provenienti dall’Oriente e dalle civiltà amerindie. È una poesia che trasmette cultura, una caratteristica essenziale affinché i versi abbiano un valore comunicativo. Un autore deve anche dare degli insegnamenti.»
«Nel periodo in cui seguivo le lezioni di Anceschi si sentiva il bisogno di sperimentare – ha affermato l’autrice – una necessità che avevano molti poeti, pur mantenendo il contatto con l’universo mitologico e, inevitabilmente, con la natura e con i suoi processi di trasformazione. La mia prima silloge, infatti, si conclude con una visione a ritroso dell’evoluzione umana. Nello sperimentare ho cercato di esprimermi anche in dialetto romagnolo, che ha la caratteristica di conservare una stretta parentela con il latino, poi ho capito che al mio stile si addiceva di più l’italiano.
La mia ultima opera, «Le acque della mente», parla della violenza del secolo breve, anche sugli animali, di fatti una parte è dedicata a quest’ultimo tema. Ma per violenza sugli animali intendo includere anche la violenza sull’uomo, che del resto fa parte proprio del regno animale.»
La mattinata di poesia si è conclusa con l’intervento di Roberto Mussapi, che come è solito fare ha presentato le sue opere scherzando amichevolmente con il pubblico. Paolo Donini lo ha presentato discutendo del tema del transito, spesso presente nei versi dell’autore.
«Il transito in Mussapi non ha un carattere traumatico, anzi rappresenta l’incontro tra culture apparentemente lontane, come il classicismo e la cristianità. Il transito per l’autore è una tregua nel tempo, un passaggio fluido da descrivere con uno stile poetico più narrativo che lirico. Ne è un esempio il brano «La pialla», dove un angelo, che invidia gli uomini perché hanno un corpo reale mentre lui resta nell’invisibilità, racconta un episodio dell’infanzia di Gesù.»
«L’episodio narrato ne «La pialla» è tratto dal capolavoro di Mel Gibson «La passione di Cristo». – ha spiegato Mussapi – Gesù ancora bambino, come ogni ragazzino della sua età, si diverte a giocare con gli attrezzi del padre, così prende una pialla e inizia a fingere di lavorare a una croce. Maria lo osserva celando a stento la sua disperazione, perché in quel momento prevede il destino crudele del figlio. È un’immagine di estrema profondità emotiva, ma non la avrei saputa narrare se non la avessi vista nel film di Gibson. Nelle mie poesie ho sempre raccontato cose che ho visto, lo ritengo una necessità fondamentale.»