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(voce di SopraPensiero)Grazie ai volontari del Progetto Griffo è online (disponibile per il download gratuito) l’ePub Le mie prigioni di Silvio Pellico.
Le mie prigioni è un libro di memorie scritte da Pellico nel 1832. L’autore descrive i fatti successivi al suo arresto (accusato di carboneria) e detenzione prima nel carcere de «I Piombi» di Venezia e poi in quello asburgico dello «Spielberg» presso Brno. I temi principali del diario sono l’angosciosa esperienza della prigionia intrisa di solitudine e dolori e la cristiana rassegnazione nobilitata da una riscoperta della fede.
La materia narrativa de Le mie prigioni è costituita dall’esperienza carceraria dell’autore e va dal 13 ottobre 1820 (data dell’arresto dello stesso) al 17 settembre 1830 (il giorno del suo ritorno a casa). Silvio Pellico intraprese la stesura dell’opera nel 1831, spronato dal proprio confessore, e la concluse un anno dopo. Superati i problemi derivanti dalla censura piemontese grazie al ministro Barbaruox, Le mie prigioni uscì per l’editore Bocca nel novembre del ’32.
Nella traduzione francese del 1843 comparvero anche i cosiddetti «capitoli aggiunti» (redatti originariamente sempre nel ’32), facenti parte di un’opera autobiografica più ampia che l’autore non portò a termine, ma della quale salvò le parti relative al periodo immediatamente successivo alla propria liberazione ed alle motivazioni che lo avevano spinto a raccontare la sua esperienza carceraria.
L’edizione francese completata dai «capitoli» fu quella che poi venne tradotta in italiano e la sua redazione originale venne scoperta nella Bibliotèque Nationale di Parigi solo nel 1932.
Dall’incipit del libro:
Il venerdì 13 ottobre 1820 fui arrestato a Milano, e condotto a Santa Margherita. Erano le tre pomeridiane. Mi si fece un lungo interrogatorio per tutto quel giorno e per altri ancora. Ma di ciò non dirò nulla. Simile ad un amante maltrattato dalla sua bella, e dignitosamente risoluto di tenerle broncio, lascio la politica ov’ella sta, e parlo d’altro.
Alle nove della sera di quel povero venerdì, l’attuario mi consegnò al custode, e questi, condottomi nella stanza a me destinata, si fece da me rimettere con gentile invito, per restituirmeli a tempo debito, orologio, denaro, e ogni altra cosa ch’io avessi in tasca, e m’augurò rispettosamente la buona notte.
«Fermatevi, caro voi;» gli dissi «oggi non ho pranzato; fatemi portare qualche cosa.»
«Subito, la locanda è qui vicina; e sentirà, signore, che buon vino!»
«Vino, non ne bevo.»
A questa risposta, il signor Angiolino mi guardò spaventato, e sperando ch’io scherzassi. I custodi di carceri che tengono bettola, inorridiscono d’un prigioniero astemio.
«Non ne bevo, davvero.»
«M’incresce per lei; patirà al doppio la solitudine […]»
E vedendo ch’io non mutava proposito, uscì; ed in meno di mezz’ora ebbi il pranzo. Mangiai pochi bocconi, tracannai un bicchier d’acqua, e fui lasciato solo.
La stanza era a pian terreno, e metteva sul cortile. Carceri di qua, carceri di là, carceri di sopra, carceri dirimpetto. Mi appoggiai alla finestra, e stetti qualche tempo ad ascoltare l’andare e venire de’ carcerieri, ed il frenetico canto di parecchi de’ rinchiusi.