“Palermo è una cipolla” di Roberto Alajmo
Dieci brevi capitoli, a volerli chiamare così, perché in realtà si potrebbe considerarli punti di un elenco, riprendendo la struttura che lo scrittore sembra proporre. Una lettura veloce dunque, un libretto da divorare in una mezz’ora, ma come sappiamo, spesso l’apparenza inganna. Il libro si divora sì, ma non è il caso di consigliarlo per quel tipo di lettura distratta da autobus. Difficile perdersi una riga e voler comprendere il concetto così com’è, alla fine del paragrafo. Dieci brevi capitoli, ma densi. E incuriosisce che l’autore li indichi, scrivendo per esteso UNO, DUE, TRE, e via di seguito, come a far credere che si tratti di una lista di cose da fare, da vedere, da non potersi perdere, tipiche delle ‘vere’ guide turistiche. perché ‘Palermo è una cipolla’ di Roberto Alajmo, è molte cose, l’ultima delle quali però, una guida turistica.
In effetti non si deve arrivare lontano per capirlo, è sufficiente l’ultimo capoverso della seconda pagina, dove l’autore nella descrizione dell’eventuale arrivo in aereo del Viaggiatore a cui si rivolge, preannuncia il tono dell’intero racconto: «La difficoltà del pilota in fase di atterraggio, il problema di evitare gli opposti disastri di mare e montagna, è una metafora delle difficoltà quotidiane che comporta il fatto di vivere nell’Isola in generale e nella Città in particolare». Sufficientemente distante da intenti pubblicitari a sfondo turistico, sebbene in libreria lo torverete nel reparto ‘guide turistiche’.
Non inganni l’amarezza di questa prima citazione, perché seppure rappresentativa di una componente imprescindibile dello stile del libro, è solo una fra le altre. Chiarificatoria da questo punto di vista la seconda persona singolare che lo scrittore usa per rivolgersi al lettore, che la semiotica spiegherebbe come ‘chiamata del lettore all’interno del discorso al fine di renderlo direttamente partecipe’, e che Alajmo più semplicemente userà per tutto il racconto per giocare con esso. Ed è un gioco che riflette perfettamente lo stile ironico, sarcastico a tratti cinico del racconto, dunque dell’autore. Stile che, da quanto potremo imparare dallo stesso racconto, non fa che essere a sua volta il riflesso del carattere della Città.
Alajmo ci parla delle chiese da vedere, del lungo mare disastrato dall’abusivismo chiamato edilizia creativa dagli stessi palermitani, delle specialità culinarie come la stigghiòla, che mettono alla prova gli stomaci più resistenti; ci descrive palazzi, strade, piazze e i loro nomi, quelli originali e quelli attribuiti dagli abitanti; ci narra storie di aristocratici e di vecchie usanze e della loro attualizzazione; ci consiglia di visitare il quartiere della Kalsa, per avere un’ idea dell’antica influenza islamica nella Città, e anche di non uscire nell’ora di punta per niente al mondo per via del traffico che in quegli orari «raggiunge l’apice dell’esasperazione» e aggiunge: «Se ancora è accettabile l’imbottigliamento feriale, quello festivo è irritante per motivi proprio filosofici. Ci si immagina che dal lunedì al venerdì tutti questi automobilisti vadano da qualche parte per ragioni di lavoro […] Ma nei fine settimana dove vanno? E, ovunque vadano, perché ci vanno in macchina? E soprattutto: perché con le loro macchine impediscono alla mia di avanzare speditamente?». Sarcasmo, ironia, ma raccontare il carattere della città per Alajmo significa anche e forse soprattutto, una costante, in rari punti esplicita riflessione sulla mafia e tutti i suoi derivati, nel senso delle tendenze comportamentali che ha creato nella popolazione, compreso il ‘vergognoso orgoglio’ che la storica e globale associazione Palermo uguale mafia, ormai insita nella mente di chi non vi abita, ha generato in quella di chi invece ci vive: «A quanto pare, questo sentimento di vergognoso orgoglio è l’unica forma di appartenenza cui gli abitanti della Città possono aspirare».
Sottili le analisi sugli sguardi e le facce dei cittadini, e quelle del particolare rapporto che questi hanno con la morte. Alajmo si fa poi critico nel trattare l’indifferenza e la non curanza degli abitanti (costretto a generalizzare, senza tuttavia scadere nella retorica) in relazione alle risorse naturali di cui non solo non dispongono per inerzia, ma che peggio ancora non rispettano. La lucida severità delle sue critiche, il cinismo nel descrivere la situazione in cui versa la Città e la costante ironia nel raccontare i paradossi del rapporto dei cittadini con essa, si interrompono solo per un attimo, da solo completamente esaustivo: «Caro Viaggiatore, ti parlo di tutte queste cose con il cuore piccolo piccolo».
Il libro si conclude con la metafora della cipolla, accennata dal titolo: «La Città è così. È fatta a strati. Ogni volta che ne sbucci uno ne resta un altro da sbucciare […] Anche se sbucciare la cipolla ti farà piangere non puoi lasciare agli altri il compito di farlo al posto tuo. Loro non sanno a quale strato della cipolla tu desideri fermarti […]», e Alajmo ci ha scritto tutto un libro per non farci fermare a quello più superficiale.
Serena Ricci