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(voce di SopraPensiero)È uscito il nuovo iPhone ed è stato annunciato l’Apple Watch (sembra che la “i” vada sparendo a favore di “Apple”). Su molti giornali si parla di delusione, ma non vuol dire granché; parlano sempre di delusione. Quando uscì l’iPad lo davano per morto, un grosso e goffo iPhone che nessuno avrebbe comprato, lo definirono un errore madornale. Abbiamo visto come è andata realmente. Insomma, le previsioni sono difficili, lasciamole perdere. Vedremo nei prossimi mesi se il vendutissimo telefono Apple continuerà a essere vendutissimo o resterà sugli scaffali.
Il nuovo Apple Watch non mi pare male. Si vede che c’è stato un grosso lavoro dietro per fare qualcosa di usabile. Interfaccia, dimensioni, design… Lavoro che la concorrenza non ha fatto. Imbarazzanti le proposte di Samsung (che fa anche lavatrici, ma non dovrebbe cercare di legarcele ai polsi), goffe molte delle altre, al punto che l’unica alternativa ragionevole mi pare quella della startup Pebble (vedi sotto).
Certo, togliersi l’Apple Watch (e qualsiasi altro smartwatch) tutte le sere per ricaricarlo sarà una seccatura, ma ci vorranno probabilmente anni (decenni?) prima che riescano a inventare batterie più potenti. Perciò per il momento l’unica possibilità, se si vuole usarli, è tentare di farci l’abitudine.
La novità più interessante mi pare però un’altra: Apple Pay. Ovvero un sistema di pagamento elettronico che si basa su telefoni (e orologi) Apple. E’ presto per un esame approfondito, ma ci sono alcuni motivi per i quali questa innovazione mi pare significativa: il primo è che anche se Apple Pay non è l’unico sistema di pagamento elettronico esistente (anzi, al momento è l’ultimo arrivato) è l’unico che promette di funzionare.
Fra quelli già conosciuti, ci sono i servizi come PayPal, che però non raggiungeranno il grande pubblico, almeno non a breve, perché sono relegati sul web. Proprio in questi giorni PayPal sta tentando di approdare sugli smartphone con una nuova versione dell’app, ma il tentativo, piccoli numeri a parte, è per ora poco convincente: l’app, sfruttando il GPS del telefono, individua una serie di negozi, ad esempio a Roma, dove ritiene di poter funzionare… Peccato però che in realtà si tratta di tabaccherie, negozi di abbigliamento, ecc. che sono a decine di migliaia di Km, in USA… insomma, hanno più di qualche problema nel georeferenziare il proprio database.
Altri sistemi, come quelli sviluppati da Google (i primi esperimenti risalgono già al 2011) e integrati da Samsung e altri, hanno il difetto tipico di molti prodotti tecnologici recenti: non sono pensati guardando al quadro generale. Si concentrano sui numeri, sulle prestazioni del singolo chip, sulla specifica “trovata”, magari anche intelligente, ma che poi non si relaziona con nient’altro. Così alla fine non ci si fa nulla, o quasi. Macchinosità a parte, i sistemi di pagamento Android non sono conosciuti (e riconosciuti) quasi da nessuno, pur avendo un vantaggio temporale di anni, che in questo settore equivalgono a decenni. Un altro treno perso dalla concorrenza.
Apple invece parte (per il momento solo negli USA) con già 220.000 negozi pronti. Ma da come è impostata la campagna, non c’è dubbio che vogliono arrivare in tutto il mondo, raggiungendo e superando in pochi anni la massa critica. Per allora si potrà finalmente (e per la prima volta) parlare di rivoluzione del settore.
Da quello che abbiamo visto, a favore di Apple Pay c’è da dire che è facile da usare: se non si ha voglia di memorizzare i dati della propria carta inserendoli a mano, basterà fotografarla. Chi ha un account iTunes (mezzo miliardo di persone) potrà attivarlo con 0 configurazione. Inoltre presta un’attenzione maniacale a sicurezza e privacy. Proprio come deve essere (la sicurezza in particolare non basta mai). Con accorgimenti, come il chip dedicato e isolato dal resto del sistema, che paiono finalmente convincenti.
Apple Pay quindi promette un uso più comodo e veloce (e sicuro) della propria carta di credito. Ma ha un limite serio. Ovvero promette un uso più comodo e veloce (e sicuro) della propria carta di credito.
Scherzi a parte, innova certamente il modo con il quale usiamo la nostra carta di credito, ma si basa ancora su questo obsoleto e costoso strumento. Che, specie in mercati dove le Authority per la concorrenza dormono, come in Italia, taglieggiano negozianti e rivenditori con commissioni altissime, non di rado superiori ai margini dei negozianti stessi. Un qualcosa di insostenibile.
La vera innovazione starebbe certo in pagamenti elettronici, ma appoggiati su una infrastruttura aperta alla concorrenza, che funzionasse in base a protocolli standard e interoperabili. Qualsiasi piattaforma dovrebbe poter interagire con qualsiasi altra; io consumatore dovrei poter pagare, e incassare, con Android, iOS, Windows Phone (a proprio rischio e pericolo), Linux e chi più ne ha ne metta. E non dovrebbe importare se ho una Visa o una Mastercard, se ho il conto su Fineco o in una sconosciuta banca dell’Ohio.
Questa sarebbe l’innovazione che ci serve. E questa sarebbe un’innovazione sostenibile. Anche perché pagamenti elettronici così strutturati non costano nulla. Studiato un meccanismo sicuro, ridotti perciò i rischi di frode e furto (come sembra sia riuscita a fare Apple), i costi di esercizio si riducono all’osso. Costa di più regalare i servizi di posta elettronica che un’infrastruttura di pagamento. E allora se i primi ce li regalano un po’ tutti (fanno a gara a offrire sempre di più), perché il mondo dei pagamenti è così blindato e impermeabile alla concorrenza?
Oggi Apple Pay funziona ancora con le carte di credito probabilmente perché perfino la potentissima Apple ha dovuto chinare il capo. Solo continuando a garantire commissioni altissime può sperare di entrare nei POS di milioni di negozi. Ma queste storture dovrebbero essere affrontata dalle Authority per la concorrenza. Cosa aspettano? Il mondo cambia, cambia ogni giorno. La politica dovrebbe finalmente occuparsi di questi temi, magari in modo intelligente e nell’interesse della collettività.
Attendiamo fiduciosi.