Zio Napo
di
Neera
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Non è storia, non è storia! io m’interesso solo di storia, cioè di cose vere, realmente accadute.
Così respingendo sdegnosamente romanzi e novelle molte brave persone rispondono all’offerta dei nostri modesti lavori letterari; e dal fare sostenuto, da una cert’aria di compatimento, sprizza fuori la loro intima opinione che ci vuole proprio del buon tempo per stare ad architettare frottole oggi in cui il vivere costa caro e sono tante le tasse. E anche questa è storia; storia antica. «Dove le avete prese codeste corbellerie, messer Lodovico?» diceva un principe di casa d’Este all’Ariosto, il quale avrebbe potuto replicare con piena sincerità: «Dalla vita».
Noi pure i nostri romanzi, le nostre novelle le componiamo su brani di vita; un po’ guardando dentro, un po’ fuori di noi; e ciò è altrettanto vero quanto la nascita di Romolo e Remo; forse più.
Si diceva adunque, o almeno volevo dire, che agli onesti coniugi Barbaglia, negozianti in ferramenta alla Pusterla dei fabbri, dopo parecchi anni di matrimonio sterile e precisamente nel 1813 il Signore concesse la grazia di un figlio maschio, perfettamente conformato, di nove mesi giusti e qualche ora. La gioia degli onesti Barbaglia dovette essere grande, ma nessun testimonio è sopravvissuto per narrarla e per dire quanti tortelli e quanto vin bianco spumante allietarono la cerimonia del battesimo. Solo sappiamo che in omaggio all’eroe del tempo il piccolo Barbaglia fu chiamato Napoleone.
I Barbaglia, oltre al negozio di ferramenta che rendeva bene perchè allora non vi erano tutte le angherie che strozzano il commercio attuale, possedevano a Baggio una casetta con un po’ di terra, di quella buona terra grassa dove ogni grazia di Dio germoglia e cresce che è un piacere, sicchè il piccolo Napoleone venne su a tutto suo agio senza neppure il fastidio della vaccinazione, non essendosi ancora imposta come legge la teoria di Jenner e neppure l’altra teoria della istruzione obbligatoria; tempi di ignoranza e di schiavitù che permisero al bambino di fabbricarsi una solida carcassa resistente al sole, al vento, alla pioggia e di godersi in lungo ed in largo i sacri privilegi dell’adolescenza, sia dinanzi la bottega paterna alla Pusterla dei fabbri, sia sui prati di Baggio mentre intorno i filari di vite non ancora guasti dalla peronospora lasciavano pendere i loro grappoli maturi e profumati.
Senza fretta poi (nè ferrovie nè telegrafo non erano ancora inventati), quando il padre Barbaglia credette giunto il momento opportuno, avendo quell’unico figlio, decise di farlo istruire da un vecchio sacerdote che gli impartì le prime nozioni di latino facendogli in pari tempo servir messa e agitare nelle feste solenni il turibolo dell’incenso; onore e piacere insieme; a non parlare dell’incerto delle ampolle nelle quali restava sempre un po’ di prelibato vino da sgocciolare in sacristia, e meglio ancora se ne restava molto, che allora il chierichetto se lo beveva a garganella trattenendo il respiro, tutto rosso in faccia e soddisfatto della prodezza compiuta.
Ma venne il giorno di surrogare le lezioni del prete con un metodo di cultura più esteso, e il bravo Barbaglia mandò suo figlio al ginnasio, dove se il giovane Napoleone non fece straordinari progressi, ebbe il compenso di potersi paragonare al suo grande omonimo per la frequenza delle macchie d’inchiostro sui quaderni.
Spinte sponte tuttavia il ginnasio fu superato e quasi quasi anche il liceo, quando accadde a Napoleone una cosa naturalissima per sè stessa, ma che, date le circostanze di tempo e di luogo, doveva recare molti fastidi a lui ed alla famiglia.
Aveva diciotto anni, due belli occhi neri, una nascente peluria sul labbro color del melograno e leggeva Byron che incominciava ad essere alla moda in Italia. Tutte queste circostanze concomitanti lo condussero a innamorarsi e ad innamorare fortemente di sè una fanciulla intraveduta attraverso il cancello dell’orto di un convento, ai piedi della quale fece cadere, ravvolto intorno a un sasso, un foglio dove erano trascritti i brani più ardenti del Giaurro.
Fu come dar fuoco a un pagliaio. La ragazza rispose, furono fissati i convegni, le lettere e le proteste d’amore si moltiplicarono a guisa dei pani e dei pesci della cena evangelica; ma appunto similmente accade coi cibi che mangiando cresce l’appetito, i due colombi a furia di tubare attraverso il cancello dell’orto provarono il bisogno di un nutrimento più sostanzioso e poichè i genitori della fanciulla non pensavano affatto a toglierla dal convento Napoleone prese una risoluzione degna di lui: la rapì.
Oh! a dirlo so anch’io che sembra una cosa da nulla e a scriverlo pure; due parole. Ma occorre immaginarsi che razza di fulmine a ciel sereno dovette essere tale notizia per l’ottima famiglia Barbaglia, e che scandalo in convento, e che ciarle intorno alla Pusterla dei fabbri, e che strilli in casa della ragazza! Fortuna che allora non c’erano i giornali a propalare il fatto altrimenti Dio ne liberi che putiferio! Si era proprio sotto gli esami.
I fuggiaschi intanto non avevano già preso l’espresso internazionale come si farebbe ai nostri giorni, ma con un modesto calessino si erano recati a Baggio e di lì fecero sapere agli sconsolati parenti che erano decisi a sposarsi o a morire. Corsero fuori subito i coniugi Barbaglia armati di fierissimi propositi per castigare i due monelli, rendere la fanciulla al suo convento e mettere il ragazzaccio in collegio o magari in prigione. Ma quando li videro così felici e sorridenti, sotto il pergolato, a piluccare l’uva moscatella e che entrambi si buttarono ai loro ginocchi chiedendo perdono ogni furore sparve per incanto e la crisi finì in un diluvio di lagrime e di baci.
L’amore va bene; però che cosa avrebbe fatto Napoleone quando si fosse messo al collo la dolce catena dell’imenèo? I traffici paterni non erano di suo gusto; finire gli studi con quel po’ po’ di occupazione che gli dava la luna di miele neppure gli sorrideva, e dunque? Si allogò provvisoriamente nello studio di un avvocato aspettando che l’erba crescesse. Purtroppo essa crebbe ma non conforme all’aspettativa, che due anni dopo il matrimonio la sposina soccombette in una febbre puerperale e venne sepolta a Baggio lei e il bambino.
Questo doloroso avvenimento ebbe almeno la fortunata conseguenza di maturare il senno di Napoleone il quale riprese di moto proprio gli studi interrotti iscrivendosi nella Facoltà di legge all’Università di Pavia. Non che laggiù conducesse una esistenza da cenobita; amori, risse, bagordi andavano di pari passo collo studio delle Pandette, ma infine era quello che facevano tutti; e lo strascico delle congiure carbonare, mettendo un lievito più nobile in quei giovani cervelli, teneva vivo in essi ad onta della scapigliatura il sentimento della patria. La canzone pubblicata sulla creduta morte di Silvio Pellico ognuno la sapeva a memoria:
Luna, romito, aereo
Tranquillo astro d’argento….
La rivoluzione del quarantotto trovò Napoleone sulle barricate. Ei visse intera l’ebbrezza dei milanesi dal 22 marzo al 4 agosto; conobbe tutti i capi, fu in mezzo a tutte le mischie, inalberò il maggior numero di coccarde tricolori, fino a disporre sulla banchina di una ortolana in Verziere un cesto di insalata, uno di rape e uno di pomodori allineati come il drappo di una bandiera. Per suo conto portava fieramente sulla camicia bianca una cravatta del rosso più sgargiante e un cappello verde in testa, verde come un prato.
Negli anni che seguirono il ritorno degli austriaci, ringuainati i bellici ardori, Napoleone dovette accontentarsi di mandare tratto tratto qualche anonima poesia al Vesta Verde e riprese moglie.
Questo secondo matrimonio benedetto dalla grazia di sette figliuoli segnò un periodo di calma; ma quando venne il cinquantanove, benchè il mezzo secolo battesse alle porte del nostro eroe (stile dell’epoca), egli si sentì ripreso dal fuoco giovanile. Tornò a sfoderare coccarde e a cantare «La bella Gigogin» con uno slancio che i suoi figli gli invidiavano. Fece qualche cosa di più; ad onta delle rimostranze della moglie volle arruolarsi sotto Garibaldi, prese parte alla spedizione dei Mille ed ebbe il legittimo orgoglio di tornare indietro con una bella cicatrice che gli attraversava la faccia dal naso all’orecchio. Ebbe anche una lettera del Duce che fece appendere, in cornice e sotto vetro, a capo del letto, sormontata dal suo berretto di garibaldino.
— Ora – gli disse la moglie – starai un po’ tranquillo occupandoti delle nostre faccende.
Sette figli da allevare potevano essere infatti sufficente bisogna alla attività del vecchio patriota. Ma se egli era fiero di sentirsi chiamare patriota non ne voleva sapere di passare per vecchio e qualche bollore, qualche scappatella, vennero ancora di tanto in tanto a turbare la pace domestica. Napoleone ne rideva arricciandosi i grossi baffi alla Vittorio Emanuele.
Nel 1878 tre figliuole erano maritate e due figli preti. Gli altri due, avviati il primo nella magistratura, il secondo nel commercio, erano in forse di prendere moglie ma non avevano fretta. Volevano stare a vedere che cosa lasciava il babbo.
— Io – diceva il maggiore – mi prendo Baggio, faccio riattare quella bicocca e sul prato disegno un bel giardino all’inglese.
— Baggio – replicava il commerciante – lo vorrei per me; ho in mente di stabilirvi un’industria.
— Ma io sono il maggiore.
— Non vi è maggiorasco che tenga, i tempi feudali sono finiti.
— Papà non acconsentirebbe certo a vedere messa sottosopra la casa de’ suoi antenati.
— Papà si occupa degli antenati come noi dell’impero chinese.
— Non importa, la casa deve restare come è.
— È quello che si vedrà!
Quando saltava fuori il discorso su Baggio i due fratelli litigavano sempre, al punto che decisero di non parlarne più. Ci pensavano però, ognuno per conto proprio, calcolando che il padre si avviava alla settantina e che lo scioglimento della questione non poteva essere molto lontano. Ma si sbagliavano; altri avvenimenti erano in vista. Anzitutto morì la madre, poi una sorella, poi uno dei preti. Per due o tre anni fu un seguito di lutti.
— Cosa volete farci? – diceva Napoleone, – un momento o l’altro bisogna pur morire.
Fu in quel torno che il secondo figliuolo, il commerciante, visto che l’eredità paterna tardava a giungere, prese la risoluzione di ammogliarsi rimettendo a più tardi l’impianto dell’industria a Baggio. Ma la sorpresa delle sorprese fu quando nel partecipare la notizia a suo padre lo vide sorridere del suo sorriso furbesco, fregarsi le mani e rispondere:
— Benone; ci sposeremo nello stesso giorno.
Come? Che aveva detto? Lo stesso giorno di chi? di che cosa? Delirava il padre o delirava lui stesso?
— Ecco, – spiegò Napoleone, – dalla morte della tua povera mamma io non ho avuto più pace; figurati con quegli altri morti che seguirono! La casa è diventata triste e vuota; nessuno ride più; non ho nemmeno con chi parlare poichè voialtri siete fuori tutto il giorno; quando mi corico la sera in quel lettone abbandonato sento come un pugno, qui, nello stomaco e alla mattina svegliandomi non avere più quella cara donna che mi porgeva il caffè colle sue proprie mani….No, è troppo, non ci resisto. Bisogna farla finita.
— E allora?…
— Allora prendo moglie anch’io.
— Papà!!
— Che c’è di strano? Non sono un uomo al pari di te? Non mi trovo nel mio diritto? Preferisci vedermi intristire nell’isolamento, ammalarmi, morire forse?… Del resto, – soggiunse con bonarietà, – non sposo mica una ragazzina; è una donna di trentasei anni, proporzionata alla mia età.
— Ma tu ne hai sessantotto! – scattò il figlio.
Con una calma magnifica Napoleone riprese:
— Ne sei sicuro? Io non me ne accorgo.
Convenne chinare il capo. La nuova signora Barbaglia portò in casa un umore allegro e comunicativo. Per primo atto del suo potere cambiò il nome troppo lungo e fuori moda di Napoleone con un grazioso vezzeggiativo: Napo. E Napo di qui, Napo di là. Si era di primavera, lui andava a comperarle tutti i giorni un mazzo di rose; lei lo attendeva alla finestra in vestaglia azzurra facendogli dei cenni amichevoli appena spuntava da lontano. Furono anche visti a gettarsi dei baci. Molte persone scambiavano la moglie di Napo per la nuora e il figlio ne stizziva.
Dovette essere ben peggio l’anno appresso poichè un amico attraversando la strada gli venne incontro a braccia tese congratulandosi:
— Di che?
— Eh! del bambino che ha fatto battezzare stamane.
— Io?!…
Fuggì a gambe levate. Il bambino era di suo padre, anzi due: due gemelli.
— Troppo! – aveva esclamato Napo in quella occasione, – un’altra volta bisognerà avere più giudizio.
I gemelli non camparono, ma nel 1891 il patriarca aveva ancora quattro figli, undici nipoti, tre pronipoti e una quantità di bimbi di famiglie affini che tutti lo chiamavano zio Napo. Era un bel vecchio rubizzo che portava con fierezza la sua cicatrice sulla faccia.
— Vedete? – diceva egli ai piccini, – questa sciabolata l’ho avuta da un soldato borbonico.
E i piccini sbarravano gli occhi senza capire che mai volesse significare soldato borbonico.
Quelle cose erano ormai tanto lontane!
Anche la lettera di Garibaldi, gelosamente conservata a capo letto, non faceva nessuna impressione sulla generazione ultima. Uno dei nipotini osservò che era scritta male.
— Quando faremo riedificare la vecchia casa di Baggio, – scappò a dire il figlio maggiore, – si potranno ritirare laggiù queste memorie di nostro padre.
— A meno – soggiunse subito il secondo – che non sia trasformata in un opificio.
— È quello che si vedrà.
— Si vedrà.
L’aspettativa, per altro, tirava in lungo. Nessuno ne parlava, ma era in ognuno un’ansia segreta, quasi un’impazienza. Non si desiderava la morte del vecchio, ma sembrava naturale che dovesse morire. Quando compì gli ottant’anni tutti pensarono:
— Poco lo avremo ancora fra noi.
E i figli ripresero a far calcoli, non per augurargli la morte, no, ma infine era inevitabile. Quanto avrebbe lasciato? Centocinquanta? Duecentomila lire? Benedetto uomo che non gli si poteva cavare una parola dei suoi affari! Non sarà almeno tanto pazzo da nominare erede la moglie?
A ottantaquattro anni si ammalò di bronchite.
— Ci siamo! – fu l’opinione generale.
La malattia, infatti, la prima sua malattia, si presentava con sintomi gravi, specialmente in vista dell’età. Quando mai una persona di ottantaquattro anni si salva dalla bronchite? A buon conto la moglie di Napo, che si era ordinato un cappello con piume verdi, lo fece sospendere in previsione delle gramaglie e il figlio prete che si accingeva a compiere un desiderio di tutta la vita approfittando di un viaggio in Palestina colla compagnia Cook, non ebbe cuore di abbandonare il padre alla vigilia della sua ultima ora. Gli altri due figli si guardavano in cagnesco, sentendo che si avvicinava il momento di battersi ad armi corte a proposito della proprietà di Baggio. La figlia pure, l’unica figlia rimasta, maritata a Cavarzere col medico condotto e madre di cinque pargoletti, piantò baracca e burattini per accorrere al capezzale del genitore morente. In certe ore di strazio profondo, mentre il vecchio rantolava già pallido come un cadavere, il figlio prete, col breviario aperto dinanzi, stendeva sopra un pezzettino di carta un modulo del cartello che si sarebbe appeso sulla porta della chiesa noverando i meriti del defunto, fra cui la sua fede cristiana.
— Coraggio! – ripetevano ad una voce gli amici che venivano in cerca di notizie.
E una bimbetta dei vicini che soleva tutti i giorni salire a prendere lo zucchero da zio Napo, gridò con la piena sincerità dei suoi cinque anni:
— Zio Napo, non morire!
Zio Napo infatti non morì. Al contrario, quella settimana di riposo e di purghe gli rifece una specie di giovinezza, per cui uscì dal letto più fresco e più vivace che mai. Il suo ottimismo, confortato dalla recente esperienza, gli fece concludere che un buon bucato di quando in quando è ottimo per la salute. Meglio senza dubbio fare la prima malattia a ottantaquattro anni e portarsela fuori allegramente che vivere fra le pillole e le cartine come fa la gioventù moderna. Questa l’opinione di zio Napo.
Al principio del secolo ventesimo un Barbaglia, che era partito ragazzo per l’America, tornando in patria, volle far ricerca de’ suoi parenti e trovato un bel vecchio roseo sotto i capelli bianchi gli chiese se fosse figlio di quel Napoleone Barbaglia che aveva rapito una fanciulla dal convento, che si era battuto come un leone nel quarantotto….
— Sono io, – rispose modestamente zio Napo.
— Ma non è possibile! Dovreste avere cento anni.
— Lasciamo andare questo argomento degli anni tanto inutile quanto malinconico. Restate in Italia, ora? Bene, vi invito per le mie nozze d’argento.
— D’argento? Volete dire di diamante?
Zio Napo abbassò gli occhi con delicato impaccio.
— È la terza moglie. Sicuro. Ho avuto tre mogli, tre papi e tre re, senza contare Cecco Bebbo imperatore.
Il Barbaglia d’America, essendo ritornato laggiù per i suoi affari, lesse un giorno in una gazzetta l’annuncio funebre di un Barbaglia e non dubitò neppur un istante che fosse il vecchione quasi centenario. Era invece il figlio magistrato, morto col dolore e la rabbia di dover lasciare il fratello arbitro della casa di Baggio; dolore vano, rabbia prematura, perchè qualche anno dopo anche il fratello morì con gli occhi inutilmente fissi al suo progetto di fabbrica.
— Infine, – disse quella volta zio Napo alla vedova che piangeva, – bisogna essere ragionevoli; il caro figliuolo aveva una discreta età!…
Fine.
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TITOLO: Zio Napo
AUTORE: Neera
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: La sottana del diavolo/ di Neera – Milano : Fratelli Treves, 1912
SOGGETTO: FIC004000 FICTION / Classici