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(voce di SopraPensiero)Alberto Capannini, 47 anni, vive con la sua famiglia a Rimini. Da oltre vent’anni è volontario nelle zone di guerra di tutto il mondo, dai Balcani al Sierra Leone, Cecenia, Chiapas, Palestina, Uganda, Timor Est. Per «Operazione Colomba» è stato di recente nel campo profughi libanese alla periferia siriana, dove gli sfollati raggiungono il numero di un milione e mezzo.
Ha seguito la guerra in tutto di globo, dall’Africa all’Asia, Europa, Sud America.
Sono volontario da vent’anni, è il mio lavoro. Anche se qui va precisato che, da volontario, non percepisco nessuno stipendio.
E come si sostenta?
Be’, ogni volontario fa quello che può: nel mio caso, quando non sono all’estero, tengo lezioni o corsi di formazione. In generale, è mia moglie che pensa all’aspetto economico della famiglia.
È appena rientrato dalla sua ultima «missione», durata quasi due mesi. Com’è la situazione in Siria?
La situazione è talmente calda che entrare adesso in Siria significherebbe inevitabilmente farsi rapire. Non ci sono corridoi preferenziali né per la stampa né per il volontariato. Quello che sappiamo lo conosciamo di riflesso, ma a partire da una fonte di prima mano: i profughi siriani che abbandonano il loro Paese sotto le bombe e si rifugiano appena oltre confine. La situazione è grave e triste a un tempo: non solo pare che al momento siano in vantaggio le forze filogovernative, vicine cioè al dittatore Assad, ma tutto si sta svolgendo nell’assordante silenzio della comunità internazionale. Si parla di oltre 120.000 morti […] e nessuno ha la forza o il coraggio di fare una proposta di pace.
Eppure c’è stato un momento in cui Assad sembrava spacciato.
Poi è successo che Hezbollah (movimento armato dei fondamentalisti islamici libanesi, N.d.r.) si è schierato apertamente con Assad, e lo stesso è avvenuto da parte di Russia e Iran. Noi, che apprendiamo le notizie da chi fugge – che quindi solitamente è vicino ai movimenti ribelli – percepiamo che la ribellione è come schiacciata tra queste forze soverchianti. Ma la partita è tutt’altro che chiusa.
E l’intervento americano?
L’intervento degli Stati Uniti non ha fatto altro decretare la fine della tensione mediatica sulla guerra siriana. Se si troverà una soluzione, non potrà che trattarsi di una soluzione militare.
Quindi Assad continuerà a sterminare il suo popolo.
Finché non ci sarà un intervento deciso e decisivo della comunità internazionale (che al momento pare accontentarsi di fornire poche armi all’esercito ribelle), il massacro è destinato ad andare avanti.
Anche tramite l’uso di armi vietate, come quelle chimiche?
Dai racconti che ascoltiamo pare ormai evidente che ne sia stato fatto davvero uso. Tuttavia il problema non mi sembra questo, ma quello più ampio e più grave che si affidi alla via militare la risoluzione di un conflitto democratico. Anche se si fosse fatto uso esclusivo di armi convenzionali, la morte di oltre centomila persone non dovrebbe sembrare meno rilevante. Fa orrore pensare che questo gruppo dirigente dovrebbe avere a cuore la sorte del suo stesso popolo. I ribelli, dal canto loro, avevano promesso la libertà in tempi brevi […] e come minimo dovremo dire che hanno fatto qualche errore di calcolo.
Lei è stato a contatto con i profughi siriani negli ultimi due mesi tramite «Operazione Colomba». Che cos’è?
Operazione Colomba è un corpo civile di pace della comunità Papa Giovanni XXIII che, nata vent’anni fa, interviene nei conflitti in maniera nonviolenta (al momento è presente in Palestina, in Colombia, in Albania). La sua prerogativa è cercare di proteggere la vita delle persone. Negli ultimi mesi siamo stati al confine siro-libanese, vivendo in un campo insieme ai profughi, condividendo la scelta nonviolenta ma anche e soprattutto il modo di vivere quotidiano, dall’accampamento in tenda alla mancanza d’acqua potabile.
Un modo per avvicinarsi a queste persone.
Sì, per conoscerle, comprenderle e così comprendere anche il fenomeno da cui fuggono e – ambizione tra le più grandi, alla quale non rinunciamo – esplorare così le possibilità di una soluzione pacifica al conflitto. Invece di fornire assistenza noi forniamo «accompagnamento»: ascolto, attenzione, condivisione.
Possiamo definirlo un laboratorio di pace «alla pari»?
«Alla pari» è un termine un po’ forte, perché noi abbiamo una casa a cui tornare. Tutto ciò che proviamo a fare è avvicinarci un po’ (e per un po’) alla loro vita.
E com’è questa vita ordinaria «nel frattempo», in attesa di un’ordinarietà post-bellica?
La vita ordinaria è molto problematica, per tanti motivi. In primo luogo perché il Libano non gradisce l’installazione permanente di un campo profughi di queste dimensioni (probabilmente ricordando i problemi dei precedenti insediamenti palestinesi). Non è difficile da capire: un milione e mezzo di profughi siriani non è una cifra che si possa maneggiare con disinvoltura. In secondo luogo, la realtà è precaria per tanti motivi: da un lato ci si aspettava forse una durata inferiore, di pochi mesi (mentre credo che ci vorrà più di un anno per venirne a capo); dall’altro le difficoltà oggettive sono tante (scarsità di acqua potabile, di servizi igienici ecc.). Si aggiunga che questo inverno si mostra anche particolarmente freddo.
Qual è la prospettiva di rientro in Siria per queste persone?
Nessuno lo sa. Si tenga solo presente che – data l’ampiezza della distruzione – al momento si pensa che ci vorranno venti anni per la ricostruzione. Ciò se la guerra finisse in questo istante. Ma la guerra continua.
Che tipo di storie vi raccontano queste persone? Quali discorsi abitano il campo di giorno fino a sera?
Storie di guerra. Di gente che grida «libertà» e l’esercito gli spara addosso. Di miliziani che si rifiutano di sparare alla folla e disertano, dando vita all’esercito libero. Di gente che fugge perché schedata e perseguitata dal potere, che già pensa a quando dovrà rientrare, con cautela, magari contattando qualcuno per vedere se le acque sono tranquille o se c’è da temere qualche ritorsione […]
E i bambini?
I bambini sono quelli che sembrano adattarsi in maniera più veloce. Al di là di tutto sono quelli che più possono trovare «vantaggi» nella nuova situazione del campo profughi: si gioca tutto il giorno, non si va a scuola […]
Com’è mediamente lo stato dell’igiene e dell’alimentazione nel campo?
È una situazione complicata. Gli aiuti arrivano a sufficienza ma non in abbondanza, anche perché – come dicevamo – le autorità libanesi non gioiscono del fatto che questa permanenza si protragga; preferirebbe che i profughi si guadagnassero da vivere col lavoro, invece che con la dipendenza dagli aiuti. C’è scarsità di acqua potabile e per molti usi viene usata l’acqua dei fossi (che si dovrebbe far bollire, ma non sempre accade).
Possiamo dire che i volontari rischino deliberatamente la propria vita in queste circostanze?
No, è eccessivo, perché comunque i volontari vanno lì in maniera organizzata e strutturata e non si espongono a rischi inutili. Per fare un esempio, quando siamo arrivati c’è stata una tempesta che ha portato improvvisamente la temperatura sottozero. In quel momento, non essendo attrezzati adeguatamente (la nostra tenda era troppo leggera) abbiamo riparato in casa di conoscenti. Si può patire la fame o il freddo, ma non c’è veramente rischio della vita.
Come appare la nostra Italia al rientro da un’esperienza come questa?
È il pensiero della casa, del posto accogliente e sicuro in cui tornare, a dare spesso la forza di andare avanti quando si sta fuori. Però al rientro l’effetto che fa è di una tremenda chiusura mentale, sembra che tutti i problemi del mondo ce li abbiamo noi e che non ci sia altro di cui parlare che delle scaramucce della politica interna o dell’ennesima ruberia da parte di qualche deputato. Sembra un Paese completamente assorbito dai suoi problemi interni. Nessuno che riesca ad alzare lo sguardo oltre il proprio naso. Nessuno che parli di ciò che accade in Siria. Ma nessuno che riesca nemmeno a dire che non si può accettare la guerra come sistema per risolvere un conflitto civile. È impressionante.
Che vuol dire oggi, per Lei, essere volontario in una società che non aspira ad altro che al lavoro e al guadagno?
Innanzitutto per me significa fare quello che amo; la mia aspirazione più grande è quella di poter contribuire a dare una risposta nonviolenta al conflitto. Credo in più che qualcuno debba ascoltare queste persone in fuga dalla sofferenza più grande: la guerra, in cui magari hanno perso un figlio o un genitore, la casa, gli averi, a volte tutto. Reputo un privilegio poter essere io ad ascoltare la loro voce.
Non Le pesa lasciare periodicamente la famiglia e riabbracciarla solo dopo mesi?
Certo, è sempre un peso. Ma al contempo è qualcosa di irrinunciabile, quando si sente di appartenere a una famiglia più grande, quella umana. Può sembrare retorica a chi non conosce questo sentimento; ma in realtà è la scelta di Mandela, che celebriamo proprio in questi giorni. Anche a lui dev’esser pesato tanto lasciare la famiglia per i lunghi anni del carcere. Ma io scopro, conosco, ritrovo me stesso anche in quest’esperienza. Non ci rinuncerei.
Com’è la sera al campo? Dovremmo immaginarci una scena romantica da fuoco di bivacco, con chitarre e canti intonati in coro?
La sera in realtà è molto triste, perché si va subito a dormire e la nostra tenda è molto fredda. Noi speriamo ogni volta che qualcuno venga a chiamarci per offrirci un tè caldo; il che, per fortuna, avviene quasi sempre.
Ha in mente di ripartire a breve?
Sì, all’inizio del nuovo anno ripartirò, probabilmente tornerò in Libano.