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(voce di SopraPensiero)Il 23 novembre, alle 20.50, si è spento Vittorio Sermonti.
Nato il 26 settembre del 1929, il poliedrico intellettuale romano si laurea con lode in Filologia Moderna alla Sapienza di Roma nel 1963, ma il suo impegno culturale inizia molto tempo prima: dal 1954 è infatti redattore presso la rivista Paragone.
Ma la letteratura da sola non basta. Lo vediamo quindi impegnato, tra il 1975 e il 1979, a Torino, dove dirige il Centro Studi del Teatro Stabile; poi la carriera giornalistica, con le collaborazioni (1979-1994) a L’Unità, Il Mattino, Il Corriere della sera; la radio, che lo impegna come regista.
Una vita all’insegna dell’impegno intellettuale che culmina negli studi danteschi, dove Vincenzo Sermonti dà il meglio di sé non soltanto portando la Commedia per la prima volta sul piccolo schermo tra il 1987 e il 1992 (La Commedia di Dante, raccontata e letta da V.S.), ma anche contribuendo alla formazione di chi Dante doveva (e deve) studiarlo davvero, e da giovane, elaborando l’edizione commentata per le scuole edita nel 1996 da B. Mondadori, poi da Rizzoli, e di cui oggi leggiamo l’edizione definitiva uscita nel 2015 per la BUR (edizione che vanta la supervisione del Contini).
Nel marzo 2016 è insignito del «Premio Nazionale per la traduzione» a cura del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, assegnatogli per gli studi danteschi, certo, ma anche per le traduzioni dei classici, tra cui ricordiamo l’Eneide di Virgilio e le Metamorfosi di Ovidio, testi registrati in video con la regia della seconda moglie Ludovica Ripa di Meana.
E poi i romanzi, numerosi, a partire da La bambina Europa (Sansoni 1954), fino a Se avessero (La Biblioteca della Spiga 2016), finalista alla ventesima edizione del Premio Strega.
Sermonti, lo si è visto, ha trascorso la propria vita dedicandosi alla cultura, ma soprattutto si è impegnato perché questa raggiungesse (democraticamente diremmo) tutti: dalla famiglia davanti alla televisione agli ascoltatori radiofonici, dagli studenti ai lettori di romanzi, perché forse questo era davvero il fine di Vincenzo Sermonti, plasmare quella cultura che ai suoi occhi appariva polimorfica dandole di volta in volta la forma adatta al pubblico dell’occasione.