La mancata cangura
La mancata cangura

L’autrice, morta tragicamente il 7 luglio 2007, travolta dal carico di un autotreno, ha al suo attivo, sempre per le Edizioni Marco Valerio, Torino, “L’Ospizio degli ultimi giorni”, del 2005, una raccolta di racconti. Questo è il suo primo romanzo, che esce postumo per le cure del marito Giuliano e di Marco Civra della Marco Valerio.
La protagonista, di genitori Veneti (di Motta, nel trevigiano), ritiratasi nel Biellese, vive di ricordi. Uno dei più lancinanti riguarda il matrimonio della madre, a cui i nonni non avevano voluto assistere. La madre ne aveva ricavato una grande ferita, non più rimarginata e trasmessa alla figlia, che di quella sofferenza si sente erede. Ha davanti una foto dei genitori scattata in occasione delle nozze, e la memoria crea arabeschi e vagheggiamenti sulle loro figure, smagrite, di persone semplici e povere.
Il ricordo o la visione di piccoli oggetti, come una foto, oppure una lettera venuta dal Veneto ai tempi che la madre ne riceveva ogni tanto dai genitori, ossia le piccole cose domestiche ed intime ad un tempo – ricche di storia e di significati – sfogano nella protagonista sentimenti teneri, malinconie e gioiosità sopite, che costruiscono via via una vita parallela a quella dolorosa di tutti i giorni.
Ne scaturisce una specie di spirituale confessione, permeata da una vigile liricità ed intessuta di una scrittura originale (in cui sovente la parola o le parole si replicano nel loro doppio) che trasporta il sentimento come su di una personalissima tastiera di suoni e di colori: “Ecco così indietro noi ritorniamo e rivediamo i volti delle nostre madri, di tutte le nostre madri che noi siamo state, che noi siamo, madri a noi stesse, e ne assorbiamo le ombre ombre come nuvole sfuggenti sul volto della luna così lontano va il nostro pensiero oh! così lontano adesso noi andiamo adesso che la luna è come l’India ha colori turchesi e verdi e le nostre madri hanno i fruscii dei sari di seta come seta sono stasera le nostre madri stasera che la luna è rossa stasera che la luna ha bruciato le ombre e sono soltanto colori.”
La memoria presto si mette a galoppare e i ricordi si susseguono incalzati da una visione pulita, trasparente degli anni dell’adolescenza quando prendere il treno e recarsi in Veneto dalla nonna Ciglia e dallo zio Liberino rappresentava l’incontro con una realtà quasi favolosa, dove la nonna riappariva spesso come era stata negli anni dell’alluvione, salita sui tetti, tutta quieta e felice, dopo aver portato con sé le bestie che “si buttavano a capofitto a gozzovigliare sul grano e sul mais conservati in solaio.”, in attesa che l’acqua calasse. Perfino: “la nonna si accendeva un sigaro.”
La casa della nonna Ciglia è la casa delle meraviglie e delle scoperte, dove ancora sono rimaste le tracce della mamma, che la Mancata Cangura recupera nella memoria favolistica e nei racconti uditi da piccola. Quando tornerà in Piemonte, ancora di più essa acquisterà il profumo e il sapore di un mito. Cose e animali, in quella casa, si ravvivono e colorano di una loro vita proprio come può accadere nelle fiabe e nei sogni alimentati da una fantasia senza più confini. Il romanzo si configura, così, come un bozzolo in cui sta racchiuso gelosamente il passato filtrato da un’anima allo stesso tempo melanconica e generosa.
Vengono in mente “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi, del 1978, e il romanzo di Nerino Rossi, “La neve nel bicchiere”, del 1977 (da cui il film omonimo di Florestano Vancini del 1984), a mano a mano che la descrizione (molto evocativa e pregnante) della famiglia veneta della mamma s’inoltra nei saporosi riti di una antica tradizione, in cui la casa – all’esterno animata dal razzolare delle bestie da cortile – e la campagna (ossia la civiltà contadina), hanno da sempre rappresentato il cuore stesso della vita: “la nonna continuava a stare vicino al fuoco, perché le piaceva tantissimo stare vicino al fuoco e guardare le braci lentamente e in silenzio perdersi appassendo nella cenere; e anche i suoi occhi diventavano come spessi di cenere, con le palpebre che s’appesantivano e le ciglia che le frastagliavano lo sguardo. Il capo allora un po’ le ciondolava in avanti, con lei che, a sentirne il peso che la sbilanciava, si scrollava staccandosi dal sonno che la invadeva con un colpo secco come quelli dei cocci di legno che si frantumavano a pezzi dentro alla stufa”. E così, prima della nonna, aveva fatto la bisnonna Selene, “magra magra e tutta incurvata di schiena e coi capelli candidi, ma con ancora bande di biondo”, come le aveva raccontato la mamma. In particolare la rustica cucina, ampia, con il fuoco acceso, non solo quella della nonna veneta, ma anche quella della nonna piemontese, diventa il cuore pulsante della narrazione.
L’emigrazione che nei primi del Novecento, a causa della povertà, costringeva molti a rifugiarsi all’estero, quasi sempre in America, tanto del Nord quanto del Sud, trova un suo posto significativo nei ricordi della protagonista. Si andava all’estero con il sogno di poter ritornare e comprarsi una casetta e un campo, per poter vivere meglio sulla propria terra natia.
L’autrice trova sempre il modo, con la sua personalissima scrittura, di non drammatizzare, di dare alla vita uno sguardo sempre positivo: “Quei d’Argentina li mangiavano con la polenta che arrivava nei pacchi del Veneto. E gli pareva, ma gli pareva soltanto perché non ce n’era il savor, di essere a casa.” Il brano si riferisce ai parenti emigrati che raccoglievano i funghi chiodini e li mangiavano con la polenta ricevuta dal Veneto. La protagonista, “bela putea”, l’ha scampata per un pelo dall’emigrazione, questa volta in Australia, da cui il suo soprannome di Mancata Cangura. Risponderà la nonna Ciglia al nonno, che vorrebbe emigrare: “La valigia l’han già presa i colombi. E mi, senza valigia, non vegno. Non me ne va de sembrar poareta. E poi di acqua, di fiume o di mare, ne g’ho abbastanza di quella nostrana. E per ber, mi basta l’acqua del pozzo.”
A mano a mano che si procede, si va rafforzando nella scrittura una specie di sentimento giocoso di forte positività, colorito dall’uso popolare della parola, che lascia intravedere che un certo modo di affrontare la vita può aiutarci a superare le tristezze e le miserie dell’esistenza. I popoli si somigliano, Piemonte e Veneto non sono lontani tra di loro: ciò che muta è solo “Il modo di dire le cose.”
Ma la scrittura ha anche questa particolarità: essa, in quei suoi rimbalzi, in quelle sue ripetizioni (sapientemente collocate), mostra taluni passaggi che avvengono dal momento della formazione del pensiero a quello della sua realizzazione attraverso la parola. Ossia, la mano che scrive riproduce gli impulsi del pensiero che crea, produce, riflette, ritorna su se stesso per meglio affermarsi; è una scelta consapevole che segna lo stile di una personalità marcata e sicura.
L’ultima parte è quella non riveduta dall’autrice, morta prima di arrivare ad una rivisitazione completa del romanzo. Ha ancora intatta la selvatichezza della composizione, la sua primogenitura un po’ allucinata e futurista, che conferma quel transito tra il pensiero e la parola che si è detto. È la parte che ha curato il marito Giuliano, con l’aiuto di Marco Civra, che ha creduto, come editore, in quest’opera e ne ha deciso la pubblicazione. Scrive il marito: “Prima gli interventi miei sono stati quasi nulli, solo qualche refuso. Ora devo invece intervenire a formattare il testo. Sono costretto talvolta a riposizionare un minimo la struttura grafica, pur lasciando le frasi intatte.” Bene hanno fatto entrambi, editore e congiunto, a deciderne la pubblicazione, e anche a lasciare pressoché intatte le ultime pagine che mostrano una scrittura non aliena dagli influssi di talune avanguardie, a partire dal marinettismo fino ad arrivare alle prove che negli anni Sessanta si tenevano specialmente in Francia (la rivista “Tel quel”) e in Italia (Gruppo ’63). A quest’ultima parte appartengono, fra l’altro, alcune delle descrizioni più vivide, come quella della castrazione del galletto, di cui era reputata bravissima nonna Celina, o quella della danza della piccola zingara, oppure del suonatore di banjo. Grazie a questa pubblicazione, si è potuto dare voce, così, ad una autrice attenta, puntigliosa e singolare (come lo fu, ad esempio, Stefano D’Arrigo), rara nel panorama letterario dei nostri giorni.

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