(voce di SopraPensiero)

 

«Vetri rotti», adattamento dell’omonima opera del drammaturgo statunitense Arthur Miller, sarà rappresentata in alcuni teatri del centro Italia nei prossimi mesi con la regia di Armando Pugliese, dopo aver riscosso un certo consenso di pubblico a Lucca per il Giorno della Memoria. L’opera tratta il tema delle persecuzioni naziste e le conseguenze a livello psicologico che la notizia delle leggi razziali portò negli Stati Uniti tra la popolazione di origine semitica che, malgrado l’enorme distanza, visse con estrema preoccupazione questo difficile momento storico.

Miller, del resto appartenente a una famiglia ebrea, nella sua opera offre uno spaccato della comunità etnica di cui faceva parte, andando in profondità nel descriverne le angosce. Se la storia di Philip e Sylvia Gellburg rappresenta la crisi matrimoniale possibile in qualsiasi coppia, alle incomprensioni e alle paure comuni si aggiungono le debolezze dovute all’origine etnica dei protagonisti, al bisogno di nascondere le proprie particolarità fisiche e culturali. Ne derivano i timori che hanno caratterizzato il popolo ebreo in ogni momento storico e in ogni luogo, che andarono oltre l’incomprensione e la persecuzione delle comunità autoctone. Una condizione esistenziale che Miller conosceva bene,intenzionato a rivelare quanto distruttivo possa essere rifiutare le proprie origini, dimenticando l’importanza del contributo culturale ereditato fin dalla più giovane età.

Un dramma ben rappresentato da un Gian Marco Tognazzi che veste i panni del ricco ebreo Phillip Gellburg, un uomo d’affari impiegato in una società che si occupa di acquistare immobili, disperato per l’improvvisa malattia della moglie, interpretata da Elena Sofia Ricci, che ha inspiegabilmente perso l’uso delle gambe. Il dottor Herry Hyman (Maurizio Donadoni), anch’egli ebreo, sostiene che il disturbo della donna è di origine psicosomatica, ossia dovuto a un’alterazione della psiche che avrebbe avuto come conseguenza la paralisi. La notizia delle leggi razziali promulgate da Hitler avrebbe turbato la povera Sylvia a tal punto da renderla un vegetale, capace solo di trascinarsi da una stanza all’altra della casa con la sua sedia a rotelle. L’immagine delle vetrine infrante durante la Notte dei cristalli dalle SA (i vetri rotti del titolo) angoscerebbe senza tregua la povera donna, incompresa da un marito che in più di un’occasione palesa il dubbio che la moglie finga la paralisi per metterlo in difficoltà.

Miller scava nella psiche umana per rappresentare gli effetti di una rapporto di coppia consumato dal rancore, e da questo punto di vista l’adattamento restituisce a pieno la lezione del maestro del teatro americano. Sylvia è una donna sottomessa al coniuge, forse per sua volontà, ma resta il fatto che per il matrimonio ha rinunciato a vivere in modo autonomo. A iniziare dall’abbandono del posto di lavoro, immediatamente dopo le nozze, quando Phillip l’ha convinta a dedicarsi a tempo pieno alla famiglia. Giunta alla mezza età la casalinga ha maturato una profonda avversione per il consorte, che si manifesta attraverso scatti di ira spesso ingiustificati, che le danno l’occasione di sbattere in faccia a Phillip tutto il suo risentimento. Ma in realtà Sylvia non si è mai ribellata al destino, condizione che secondo Hyman l’ha portata a una profonda depressione sfociata nel rifiuto a camminare.

Dal canto suo il marito ha pagato a caro prezzo la condizione matrimoniale che ha voluto, inizialmente con l’impotenza come reazione inconscia all’atteggiamento ostile da tempo assunto dalla moglie nei suoi confronti, successivamente con le difficoltà che sono seguite alla paralisi. E come se le sue disgrazie non fossero abbastanza, il datore di lavoro inizia a guardarlo con sospetto per avergli fatto perdere un ottimo affare con un immobile, che disgraziatamente è stato poi acquistato da una ditta di proprietà di un ebreo. In questa circostanza emerge l’altro tema centrale dell’opera: il bisogno di Phillip di dimenticare le sue origini, vissute fin da giovane come una vergogna o tantomeno come un fattore di svantaggio nella società statunitense. Timori che non ha mancato di trasmettere alla moglie, favorendo in lei l’angoscia di fronte ai soprusi sofferti dal suo popolo in Europa con le leggi razziali.

Il dottor Hyman si inserisce nel difficile rapporto tra i due protagonisti come medico di fiducia raccogliendo il loro consenso, ma dopo le prime terapie sarà solo Sylvia, anche contro il parere del dottore stesso, a voler continuare. Hyman, infatti, quando Phillip palesa il desiderio di cambiare medico, ammette di non sentirsi abbastanza preparato per un caso del genere, ma in realtà non ha paura di sbagliare la cura, vuole solo evitare la sua paziente perché si sente trascinato dall’attrazione fisica che prova per lei. Sentimenti ricambiati da Sylvia, che vede nel dottore un riscatto sessuale alle privazioni a cui l’ha sottoposta il marito.

L’aspetto più interessante dell’opera va cercato nelle reazioni dei protagonisti ai timori inconsci, il modo sofferto in cui vivono non solo il loro essere ebrei, ma anche l’angusto ambiente sociale a cui appartengono. Ogni loro reazione a questa condizione dimostra la necessità di ribellarsi, ma il desiderio di liberarsi dal peso dell’angoscia resta sempre inappagato. Provano il bisogno di essere liberi, cercano di dare sfogo alle passioni o alle aspirazioni, ma infine restano sempre legati alle regole sociali.