Cinquantatre anni ben portati, nato nell’hinterland milanese, Valter Binaghi, oltre che scrittore, si interessa anche di musica: per Arcana ha curato alcuni volumi dedicati alla musica pop e rock (Pink Floyd – 1978, Lou Reed – 1979, Punk – 1978, Eroi e canaglie della musica pop – 1979. Come scrittore ha al suo attivo diversi romanzi, tra cui: L’ultimo gioco, scritto con Edoardo Zambon (Mursia 1999), Robinia Blues (Dario Flaccovio Editore, 2004), La porta degli innocenti (Dario Flaccovio Editore, 2005), I tre giorni all’inferno di Enrico Bonetti, Cronista padano (Sironi, 2007) e Devoti a Babele (Perdisa, 2008).
Gli piace presentare i propri romanzi attraverso reading musicali, in cui accompagna stralci di letture delle proprie opere a musica live di ispirazione blues e jazz.
Ucciderò Mefisto esce nel 2010, sempre per Perdisa.«
Ognuno ha diritto al suo angelo» è una frase chiave del breve romanzo e la pronuncia un uomo, Fausto Blangé, accusato e reo confesso di un omicidio. La pronuncia nel corso dell’interrogatorio che gli sottopone il commissario di polizia Leonetti, dalla «sagoma squadrata da montanaro e la mascella leggermente spostata da un cazzotto di dieci anni fa».
L’uomo, docente universitario di Letterature comparate, che ha tutta l’apparenza di essere uno squilibrato, è convinto che nella nostra esistenza il buono non si afferma solo per colpa di minime circostanze. Non ci si incontra, non ci si riconosce, e tutto precipita, mentre se i nostri sguardi si fossero incrociati tutto sarebbe andato per il meglio.
Non accetta che la vita sia soggetta ad una regola così esile ed ingiusta. Da ciò la sua decisione di uccidere Mefisto, cioè la circostanza negativa, quella che gli ha rovinato l’esistenza e sta rovinando il mondo.
Tale circostanza negativa è identificata nel dottor Giacomo Collinaro, il suo psicanalista da tre anni. È stato lui che ha deviato la sua vita. Lui, dunque, è Mefisto. Il diavolo.
A sentirlo parlare in quel modo, al commissariato si domandano se ci si trovi di fronte ad un pazzo.
È il tema scelto dall’autore. Seguiamolo.
Ci possono fare da scorta nel viaggio il Faust di Goethe e Il Maestro e Margherita di Bulgakov. Ma anche Mario Tobino.
Che cos’è mai la follia, si domandava, infatti, Mario Tobino. L’accesso ad un mondo diverso ove regnano una eterna innocenza e una eterna fanciullezza?
Fausto sogna continuamente un airone. È la sua guida, il suo mentore. Attraverso di esso interpreta la vita; non solo, ma la pazzia diventa veggenza, e il suo delirio si trasforma nel privilegio della verità.
Fausto Bergé è un testimone dei nostri tempi.
Da quando ha iniziato le sedute psicanalitiche, la sua vita è cambiata. Quel dottor Collinaro pare più uno stregone che un medico. La sua non è medicina ma qualcosa di più terribile. Un sortilegio, una fattura.
La sua volontà condiziona non soltanto la mente di Fausto, ma la vita che gli sta intorno.
Diventa uno scrittore di successo e la fama lo sospinge lontano dagli affetti familiari. La moglie Margherita si suicida («Un gesto del tutto inatteso e incomprensibile») e lo getterà nella più cupa disperazione. Non ha figli. C’è stato nella loro vita coniugale un aborto che ha segnato profondamente la moglie, e ha creato un sottile muro divisorio tra i due, di cui non si è accorto o non si è voluto accorgere. Non ha fatto niente per abbatterlo.
Sotto la scorza di un noir innocente, si nasconde una specie di gotico sotterraneo.
Sono infatti le parti in corsivo quelle a cui bisogna dedicare attenzione. Lì il sogno, simbolo onirico per eccellenza, si impregna di altri simboli in una rincorsa continua verso una decifrazione improba della realtà.
L’airone prende la forma di un messaggero dell’anima, di quella frazione intima dell’umanità, ossia, che appartiene non solo a ciascuno di noi, ma all’universo intero.
Fausto e Margherita erano una coppia perfetta, innamorata, poi misteriosamente il precipizio si spalanca davanti a loro. Quale cifra dell’anima è stata capovolta? Quale ordine è stato inavvertitamente violato?
Si erano conosciuti proprio grazie all’airone. È l’airone, il messaggero, che ha fallito? È l’airone, ancora una volta lui, che può salvarli?
Fausto da tempo ne disegnava, lui che non aveva alcuna attitudine al disegno; eppure i suoi aironi erano perfetti. Poi vede una coppia di aironi scolpiti sopra una scatola di legno. Vuole conoscere chi li ha fatti così, e conosce Margherita. Figlia di un falegname, «aveva imparato a lavorare e cesellare il legno fin dall’infanzia.»
Queste cose, le racconta al commissario un amico d’infanzia di Fausto, l’avvocato Paolo Gentili.
L’airone porta in sé la sacralità di un lontano passato, in realtà mai trascorso. Parla come una sfinge, una sibilla, le cui parole sono cariche del peso di una umanità millenaria.
Nelle pagine del corsivo scorre l’enigma della vita. Ciò che dovrebbe essere enigmatico nella parte che vede protagonista il commissario, è invece una bianca superficie liscia su cui non si fatica a camminare. Binaghi lavora su questo contrasto. È la vita di tutti i giorni, sceverata dagli enigmi e imperniata sui solidi fatti, quella che si presenta agli occhi del commissario Leonetti. C’è un grande amore, c’è un tradimento, c’è una gelosia nascosta e forse anche inconscia.
Ma le pietre smosse, il selciato alluvionato e quasi impraticabile, lo smottamento della collina, i cocci di vetro appuntito e tagliente sui muri di cinta, si estendono a perdita d’occhio altrove, dove l’airone ha deciso di posare le sue lunghe e aeree zampe.
È su questo sentiero impervio che camminano senza mai incontrarsi la solitudine, l’incomprensione e l’amore.
E vi cammina anche quell’unico angelo a cui abbiamo diritto, e sarà lui alla fine che riusciremo a vedere e a incontrare.