Vademecum per uomini liberi
Ogni giorno, in qualche parte del mondo, vengono calpestati i principi su cui poggia la società civile. È un’offesa bruciante, una ferita da sanare con urgenza, ma non bisogna credere che la rimozione di libertà e diritti avvenga solo in casa d’altri. Anche nei Bel Paese accadono fatti intollerabili: l’assenza del reato di tortura nel codice penale, la diseguaglianza tra cittadini e potere davanti alla legge, il dilagare di una sottocultura basata sulla corruzione, la reiterata messa in scena di spettacoli televisivi che esprimono miseria intellettiva e cattivo gusto.
Nel Vocabolario etimologico della lingua italiana di Ottorino Pianigiani leggiamo: «vade-mècum, espressione latina che si traduce va meco. Ciò che si porta ordinariamente e comodamente seco; ma si dice specialmente così un libretto portatile destinato a richiamare in poche parole le nozioni principali di una scienza, di un’arte».
Il vademecum per uomini liberi risponde all’esigenza di rinsaldare e diffondere una cultura della democrazia. E, da sempre, lo strumento principe per imparare a essere liberi sono i libri. Una scelta meditata tra molti titoli restringerà il campo a pochi volumi di alto valore etico e letterario: un compendio di civiltà, una cassetta degli attrezzi sempre pronta per riparare all’istante i danni inferti da autoritarismo e intolleranza.
Iniziamo con un libro che ogni generazione di cittadini dovrebbe leggere e rileggere, Se questo è un uomo, di Primo Levi. Un testo a cui si possono senz’altro premettere le parole che William Carlos Williams scrisse nel presentare le poesie di Allen Ginsberg: “Sollevate il lembo della gonna, Signore: stiamo andando all’inferno”.
Primo Levi, «Se questo è un uomo» – Einaudi, 2005
Un legame tra la classicità pagana e il cristianesimo è l’ubicazione dell’inferno. Tutti gli autori concordano: è un mondo sotterraneo, un luogo posto al termine di una discesa. Primo Levi, stipato insieme a decine d’altri deportati in un vagone merci capisce subito che quel treno è
«in viaggio verso il nulla, in viaggio all’ingiù, verso il fondo…».
La differenza con le descrizioni di Omero, Virgilio e Dante è però sostanziale. Gli antichi, sommi poeti evocano mondi immaginari, mentre l’inferno che inghiotte Primo Levi esiste. È in Polonia. Si chiama Auschwitz. All’arrivo nel lager, il cammino verso il basso procede spedito. Ecco una riproposizione del supplizio di Tantalo nell’Ade:
«ci hanno fatto entrare in una camera vasta e nuda, debolmente riscaldata. Che sete abbiamo! Il debole fruscio dell’acqua nei radiatori ci rende feroci, sono quattro giorni che non beviamo. Eppure c’è un rubinetto, sopra un cartello che dice che è proibito bere, perché l’acqua è inquinata…Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi stare in piedi, e c’è un rubinetto che gocciola, e l’acqua non si può bere…Come pensare? Non si può più pensare, è come essere già morti. Qualcuno si siede per terra. Il tempo passa, goccia a goccia…».
Le lancette sul quadrante dell’orologio si muovono ad una velocità non misurabile oggettivamente. È celebre la storiella raccontata da Einstein per spiegare, con semplici parole, la teoria della relatività: provate a immaginare l’eternità di un minuto seduti su una stufa rovente e, all’opposto, il lampo di un minuto trascorso in compagnia di una bella ragazza. Ad Auschwitz, dove la fame è endemica, l’attesa spasmodica di un tozzo di pane al mattino contrae radicalmente i tempi dedicati ai bisogni corporali:
«si vestono con fretta febbrile, corrono fuori nel gelo dell’aria esterna vestiti a mezzo, si precipitano verso le latrine e il lavatoio. Molti, bestialmente, orinano correndo per risparmiare tempo, perché entro cinque minuti inizia la distribuzione del pane…».
Bastano pochi giorni a Primo Levi per comprendere appieno il progetto d’annientamento architettato dalla Germania nazista. La morte è solo il coronamento, l’ultimo atto di un disegno che, giorno dopo giorno, spoglia l’individuo di ogni traccia d’umanità. Poco importa se, alla fine, tu verrai gassato o cadrai al suolo sfinito e consunto dalla fame, ciò che conta è come arriverai alla morte. Primo Levi, a più riprese, ci consegna impressionanti ritratti dei suoi compagni di sventura, dove si constata la regressione a una condizione antecedente l’Homo sapiens. L’autore non esita ad accomunare questi esseri ai cani da slitta o a insetti dalla breve, effimera vita:
«Credo che lui stesso abbia dimenticato il suo nome, certo si comporta come se così fosse. Quando parla, quando guarda, da l’impressione di essere vuoto interiormente, nulla più che un involucro, come certe spoglie di insetti che si trovano in riva agli stagni, attaccate con un filo ai sassi, e il vento le scuote…Mi ricorda i cani da slitta dei libri di London, che faticano fino all’ultmo respiro e muoiono sulla pista…».
Il 25 gennaio 1945, a due giorni dall’arrivo salvifico dei soldati russi ad Auschwitz, un Primo Levi miracolosamente sopravvissuto allo sterminio racconta, con parole secche e lucide, l’agonia di un uomo. Pochi anni più tardi, appoggiato a un muro lungo la 125ª, un musicista di strada canta per i passanti a Harlem, il quartiere afroamericano di New York. «Blind» Gary Davis, come suggerisce il soprannome, è cieco. Suona con maestria la chitarra, e la sua voce si leva potente e magnifica sopra i rumori di strade affollate da un’umanità cenciosa. Nel suo repertorio c’è posto per le miserie della vita e l’ineluttabilità della morte. Con voce dolente canta «Death Don’t Have No Mercy », la morte non conosce pietà, poi ricorda che «death never takes a vacation», la morte non va mai in vacanza. Verità inconfutabili, che ad Auschwitz si colorano di tinte ancora più fosche. Perché nel lager la morte falcia esseri spogliati della loro dignità, annientati dalla paura. A forza di percosse, intercalate da comandi rabbiosi, il vocabolario di questi uomini è stato ridotto alla sola parola «Jawohl», Signorsì:
«…seguendo un ultimo interminabile sogno di remissione e di schiavitù, prese a mormorare «Jawohl» ad ogni emissione di respiro, regolare e costante come una macchina, «Jawohl» ad ogni abbassarsi della povera rastrelliera delle costole, migliaia di volte, tanto da far venire voglia di scuoterlo, di soffocarlo, o che almeno cambiasse parola. Non ho mai capito come allora quanto sia laboriosa la morte di un uomo».
È difficile collocare Se questo è un uomo in un preciso genere letterario. Come in un gioco di scatole cinesi, i caratteri del saggio antropologico, del trattato morale, del racconto e dell’invettiva si mescolano tra loro. Primo Levi, nel narrare la sua personale discesa agli Inferi, è convinto che la ferita inferta all’umanità è incancellabile. I responsabili di un tale abominio non saranno mai perdonati. La lezione che se ne trae è semplice: vietato dimenticare l’Olocausto, vietato abolire i diritti civili, vietato bruciare i libri,
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
Altre recensioni pubblicate nell’ambito del progetto Vademecum per uomini liberi: Ray Bradbury, “Fahrenheit 451”