Una festa da ballo nel secolo XV

di
F. Ramognini

tempo di lettura: 10 minuti


……Non è istoria
Di ch’abbia autor fin qui fatto memoria.
Ariosto, Orl. Fur., c. XXVI.

Il viandante, che, movendo da Alessandria o da Novi, s’inoltra su per la distesa vallata dell’Olba, percorso non molto tratto di via, vede torreggiare sopra una specie di promontorio le maestose reliquie del castello d’Ovada. Ameno e delizioso è questo paese pel suo vasto orizzonte, per l’incanto delle floride campagne, e specialmente degli ubertosi vigneti, rinomati per la squisitezza dei vini, i quali meritarono persino gli elogi di quell’arguto e faceto milanese, che fu Carlo Porta. Svariate e pittoresche vedute si offrono da ogni parte allo sguardo, e molti paesi all’intorno, che avvivano l’industria e il commercio d’Ovada, fanno bella mostra di sè coi loro castelli giganteschi, varii di proporzioni e di forme, monumenti preziosi delle epoche diverse, a cui appartengono.

L’antichissima origine d’Ovada si perde nell’oscurità dei tempi; ma forse non andò lungi dal vero chi da una lettera di Decimo Bruto a Cicerone trasse argomento per sostenere, che già esisteva ai tempi del famoso oratore romanonota 1. Molti secoli adunque ebbero a lasciarvi le traccie del loro passaggio, e coi secoli s’avvicendarono molti rivolgimenti di governo e fortune. Ed in vero, questo paese fu anche percorso da Alarico re de’ Goti, se prestiam fede a Claudiano; dai Longobardi, che venivano a caccia in queste immense foreste, come Paolo Diacono racconta: ebbe a signori i primi Aleramici e i marchesi del Bosco lor discendenti, i Malaspina e la Repubblica genovese.

Gli statuti municipali d’Ovada, che rimontano fino ai tempi in cui era soggetto ai marchesi, sono infallibilmente tra i piú antichi della Liguria, e parecchie convenzioni determinavano i rapporti fra i terrazzani ed il feudatario.

Illimitato non era il dominio che la repubblica di Genova aveva ottenuto su questo paese; e difatti nel 1290 i capitani Oberto Spinola e Corrado Doria confermarono agli Ovadesi i loro antichi statuti, non che molti privilegi ed immunità, delle quali godevano. Oltre a questa si ritrovano dieci e piú successive conferme, fra le quali havvi un atto del 1447, in cui obbligavasi la Repubblica a tenere giudice e birri in Ovada, purché le fosse pagato un tributo di annue lire 500 in ricognizione del suo dominio; dichiarava libero il traffico del sale, immuni da ogni gabella e da qualsivoglia altro diritto i prodotti del paese che si trasportavano a Genova; e tutto ciò che da Genova si trasportava in Ovada. Ma le ricchezze, che poteva fruttare l’esteso e fertilissimo territorio d’Ovada, e il suo fiorente commercio, adescavano troppo la cupidigia della Repubblica genovese, epperò tante franchigie le sapevano troppo d’amaro. Si lusingò adunque di poter violare impunemente le sue promesse, e di riuscire una volta, se non a cancellarle del tutto, almeno a scemarle in gran parte. Però s’ingannava a partito credendo che gli Ovadesi in fin de’ conti sarebbersi acquetati, e avrebbero tollerato in buona pace siffatte sopercherie. Ed in vero a simili pretese, che urtavano di fronte le convenzioni piú solenni, tutto il popolo si mostrò riluttante, dichiarandosi fermamente risoluto di sostenere a prezzo di sangue l’inviolabile integrità de’ proprii diritti. Dopo acerrimi contrasti, dopo fieri e gravi tumulti, la Repubblica fu costretta, suo malgrado, a convincersi, che era troppo malagevole impresa il voler annientare diritti constatati da una lunga antichità, sui quali riposava l’esistenza e l’agiatezza d’un popolo.

Questi furono i preliminari di una tragedia, che l’alternarsi dei secoli e delle vicende non potè cancellare dalla memoria degli Ovadesi; d’una tragedia, la cui tradizione è cosí generale e concorde, che diresti quel fatto da pochi lustri avvenuto. Ma non è a farne le meraviglie, perché affermano molti vecchi d’averne avuto contezza da qualche antico manoscritto, il quale non sappiam dire se sia stato per caso smarrito, o accortamente disperso.

Tanta fermezza d’un pugno di terrazzani lasciò un amaro corruccio nella Repubblica genovese: tuttavia non ebbe coraggio di sottometterli al giogo colle armi, perché ben s’avvedeva che nulla avrebbe mai potuto giustificare un atto di sola ingordigia e di prepotenza. Ma forse questa considerazione non l’avrebbe contenuta gran tempo ne’ limiti del dovere e distolta dagli eccessi arbitrarii, se una ragione piú forte non l’avesse consigliata a temporeggiare, aspettando piú opportune occasioni. Confinava il territorio degli Ovadesi coi dominii dei marchesi di Monferrato, e perciò non si volea molta politica a prevedere che si sarebbero gettati in braccio ai medesimi, dove la Repubblica si fosse ostinata ne’ suoi irragionevoli propositi; e per questo motivo principalmente si piegò a confermare le convenzioni primiere. Senonché il podestà, a cui essa aveva affidato il governo d’Ovada, volle addossarsi l’abbominevole incarico di vendicare col sangue gli oltraggi da lei ricevuti.

Costui era d’indole fiera e superba, ma come i tempi ed i casi mutabile. Saldo ne’ suoi propositi, tenace nell’odio e ne’ desiderii della vendetta, sapeva però, quale astuto conoscitore degli uomini, padroneggiare cosí destramente i moti dell’animo, che indarno avresti tentato sorprendere nel lampo de’ suoi sguardi, nelle impressioni del volto, e negli atteggiamenti della persona, un solo de’ suoi segreti pensieri. In breve, possedeva tutte le doti che si volevano in que’ tempi per essere un esperto inquisitore di stato.

Ridotte le cose allo stato primiero, ogni questione, ogni diffidenza degli Ovadesi era cessata, e la pace e la tranquillità regnavano in tutto il paese, mentre il podestà volgeva in mente perversi disegni, e attendeva l’occasione propizia per mandarli ad effetto. Intanto, reprimendo nell’animo l’innata alterigia e il profondo rancore, si dimostrava condiscendente e urbano con tutti per inspirare fiducia, e cosí prepararsi la strada ad un tradimento.

Le reliquie del castello, che resistettero all’opera distruggitrice del tempo e ai trambusti di procellose vicende, fanno ancora testimonianza della sua primiera vastità e magnificenza. Un ampio circuito di mura che vanno sfasciandosi, una gran torre rotonda ed un’altra quadrilatera, nella quale ponno ancora vedersi le tremende prigioni del medio evo, facilmente persuadono che i feudatarii vi avevano un tempo, e stanza convenevole al loro fasto e potere, e inespugnabile presidio. Nelle vaste sale di questo castello divisò il podestà d’invitare a una splendida festa da ballo le famiglie piú ragguardevoli del borgo, e tutte corrisposero all’onorevole invito.

Venuta la sera del giorno stabilito, i notabili del paese s’avviarono al castello colle consorti e le figlie, adorne delle vesti piú eleganti; e il podestà gli onorò delle piú cortesi e festose accoglienze. Quando cominciarono ad essere alquanto popolate le sale, risuonarono intorno gioconde armonie, e si diè principio alle danze. Mentre il Genovese pareva non aver altro pensiero in quel punto, fuorché di rendere piú aggradevole che per lui si potesse il trattenimento, nel segreto dell’anima pregustava la gioia della vendetta.

Di molto era già varcata la mezzanotte, e il tripudio della festa era al sommo, allorché il podestà invitò a passare in altre stanze alcuni della brigata, e, facendo sembiante ognora piú gioviale ed amico, s’avviò precedendoli. Usciti che furono dalla sala del ballo, fece tosto annunziare alle consorti, che s’erano stretti a colloquio per trattare d’urgenti interessi, e forse non sarebbero tornati alle lor case per quella notte: elleno intanto continuassero le danze a loro bell’agio.

E le danze si produssero a lungo. – Poco piú di un’ora mancava al rompere dell’alba, allorché tacquero i musicali concenti e uscirono gli Ovadesi dal castello, dove tornò a regnare il silenzio e l’oscurità. Quando non s’udì piú all’intorno anima viva, uscì pure dal castello un uomo avviluppato in un pastrano, col berretto calato sulla faccia, cavalcando un veloce destriero, e valicato il ponte della Stura, senza che fosse riconosciuto da alcuno, prese la strada di Novi.

Gli Ovadesi intervenuti alla festa riposavano le membra affaticate dalla danza: forse colla mente ancora commossa ed agitata udivano tuttavia il suono de’ musicali strumenti, e vedevano in sogno trascorrere e volteggiare le agili coppie. Forse lusingavano ancora l’orecchio alle donzelle le sussurrate parole degli amanti, ancora sentivano balzare il cuore per gioia, e rapido e caldo correre il sangue nelle vene. Ma a questi sogni ridenti succederanno disperati affanni e lagrime di sangue al loro destarsi!

Poche stelle tremolavano ancora nel cielo scolorite dal ritorno dell’alba, e già i solleciti montanari e le villanelle s’incamminavano verso il borgo, portando i frutti del loro sudore al mercato. Approssimandosi al castello alzarono per avventura gli sguardi, e allibirono sopraffatti dall’orrore e dallo spavento. – Nefando spettacolo! Penzolavano dai merli le teste sanguinose di molti Ovadesi!!!

Sparsasi in un momento la voce di cosí atroce e inudita vendetta, come fiamma che irrompa all’improvviso da un sopito vulcano, si destò nel borgo un tumulto universale, un cosí amaro dolore, ed un impeto irrefrenabile di sdegno, che stringe il cuore di pietà e di raccapriccio al solo pensarlo. S’udirono tosto altissime grida di donne, di fanciulli e donzelle orbate del padre, a cui rispondevano i pianti e i singhiozzi degli amici. Una moltitudine di popolo assordando l’aria di fremiti, di urla e di minacce, si slanciò impetuosa verso il castello con animo di sfondare ogni porta, cercare dovunque il perfido assassino, e trascinarlo a versar l’anima dannata sui cadaveri ancor palpitanti di quegli infelici. Ma stava in guardia del castello un cosí forte presidio, provveduto di armi d’ogni maniera, che quella moltitudine divorando il proprio sdegno dovette ritrarsi per non sacrificare la vita senza alcun pro. Intanto già un buon tratto di cammino divideva dagli indignati Ovadesi lo scellerato, che confitti gli sproni nei fianchi del veloce destriero, galoppava alla volta di Genova. Cosí dalla danza venivano tratti al macello i personaggi piú autorevoli d’Ovada, i nomi dei quali non ricorda la tradizione, tranne quelli d’un nobile Mainero e d’un Lanzavecchia.

Dobbiam credere però che non si calmasse cosí facilmente lo sdegno degli Ovadesi, perché dopo alcun tempo la Repubblica accordò un generale perdono a tutti coloro, che avevano tentato di vendicare in qualche modo la morte de’ proprii concittadini, e tutti gli antichi privilegi furono da lei nuovamente confermati. Nè osò piú mai di riaccendere i sopiti rancori con estorsioni arbitrarie; anzi, essendole venuto una volta in pensiero di stabilire qualche imposizione in Ovada, si obbligò a corrispondere un’indennità che dovevasi in proporzione della rendita ripartire fra i possidenti.

Alcuni esagerati panegiristi mi accuseranno di poco amore alla patria per aver propagato un avvenimento disonorevole alla Repubblica genovese, quasi che io non avessi rossore di denigrarne la fama. – Ogni pagina delle storie di que’ tempi è contaminata da siffatte enormezze, e ci apprende per nostro rammarico e vergogna, che la politica del principe di Machiavelli era ben nota in Italia e fuori d’Italia, molto prima che quel gran Fiorentino con ridurla a sistema ne facesse maggiormente sentire l’iniquità e l’orridezza. Che, se merita acerbe rampogne chi rimescola nel fango delle turpitudini umane, e le tratteggia coi piú vivi colori, come se vi trovasse un pascolo gradito alla propria immaginazione corrotta, incumbe l’obbligo però allo scrittore sincero di rivelare quel tanto delle umane scelleratezze, che può essere necessario per delineare con verità il carattere di una nazione, d’un governo e di un’epoca, affinché poggi sicuro il giudizio dei posteri sul confronto dei vizi e delle virtù, e sia feconda la storia di profittevoli ammaestramenti. Oltre a ciò, nel caso nostro nulla vieta supporre che l’animo violento e feroce del podestà oltrepassasse il mandato della Repubblica; e questa opinione, la quale restringe ad un solo la colpa di cosí nera vendetta, sarà piú volentieri abbracciata, non solo da un Genovese, ma da ogni cuore ben fatto.

Fine.


nota 1 – Vedi l’articolo sopra Ovada nel Dizionario compilato dal dottissimo Casalis.
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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Una festa da ballo nel secolo XV
AUTORE: F. Ramognini
CURATORE: Rigoli, Aurelio
NOTE: Racconti popolari che, nella prima metà dell'Ottocento "rinomati scrittori italiani" (Pietro Giuria, Emanuele Celesia, F. Ramognini) recuperarono dalla tradizione orale e trasposero in prosa d'arte, per la ben nota raccolta di Angelo Brofferio "Tradizioni italiane".

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: Racconti popolari dell'Ottocento ligure. - Palermo : Edikronos, 1981. - 2 v. ; 17 cm. - vol. 1.: 203 p. - vol. 2.: 226 p. - (I Contastorie)

SOGGETTO: FIC027080 FICTION / Romantico / Brevi Racconti