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Josh O’Kane
«Sideways (The City Google Couldn’t Buy)»
Penguin Random House Canada, 2022, Toronto, 416 pagine
ISBN: 9781039000780

Sideways (La città che Google non riuscì a comprare)

[segue dalla 1° parte]
A fare la parte del “cattivo” in Sideways è Google naturalmente, che vale in borsa oltre due volte il bilancio del governo canadese del tempo e che, attraverso Sidewalk Lab, intende spingere il proprio modello di business fin dentro le mura immateriali della città del futuro, fatte di piattaforme digitali abilitanti, di App e sensori per tutte le necessità di cittadini perennemente connessi. Obbiettivo dichiarato: migliorare la vita degli abitanti della smart city dopo averla monitorata sotto ogni aspetto. Nel 2017 Google è in cerca di una città che abbia voglia di aprirsi alla dimensione smart che ha pronta nel cassetto.

Il panorama dei “buoni” è più frastagliato. Ci sono gli “ingenui” di Waterfront Toronto, l’agenzia pubblica costituita anni prima per riqualificare la vasta area dismessa del porto e farne un polo hi-tech per la città in crescita. Nel 2017, i tre livelli del potere politico federale ha dato a Waterfront un mandato unanime, nuovo e preciso: trovare un partner tecnologico all’avanguardia che sia disposto a cofinanziare un primo progetto pilota (il distretto di Quayside) e poi, forse, lo sviluppo dei restanti 800 ettari.

Ci sono gli “interessati a fin di bene”, ossia i rappresentanti del mondo imprenditoriale locale determinato a proteggere la loro vibrante ma fragile economia high-tech dallo strapotere dei cugini statunitensi. Tra questi Jim Balsillie, l’ex AD della canadese RIM che, agli inizi degli anni Duemila, aveva consentito ai manager di tutto il mondo di scambiarsi e-mail via Blackberry, finita spiazzata con l’europea Nokia con l’avvento degli smartphone Apple e Android marcato Google.

Tra gli “interessati pro domo sua”, quindi non necessariamente “buoni”, l’autore annovera il sindaco di centrodestra John Tory, ex manager privato sensibile alle sirene della grande impresa e, soprattutto, Justin Trudeau, primo ministro dal 2015. Descritto come un politico ambizioso e ipocrita, avido di photo-opportunities (sic!); per dare un manto progressista alla propria immagine Trudeau avrebbe cercato la compagnia dei campioni dell’high-tech globale. Un opportunismo che lo avrebbe indotto ad attirare a Toronto quell’ingombrante corporation e, suggerisce l’autore, a interferire con il processo di assegnazione dell’appalto.

Poi ci sono i “puri”; i cittadini-attivi e i civil servant nominati negli organismi di supervisione che, soli, percepiscono il pericolo che l’intonsa Toronto si conceda anima e corpo al Leviatano digitale con il pretesto della modernizzazione. Sono Julie di Lorenzo, l’inflessibile consigliera che si oppone al vago contratto di partnership; Bianca Wylie, l’attivista dei diritti civili che, nelle audizioni pubbliche e sui media, mette in guardia dalla hubris di Big-tech; Ann Cavoukian, fautrice di un precoce standard tecnico di privacy by design con cui sopperire al vuoto normativo in fatto di protezione dei dati. Sì, gli eroi di questa storia sono tutte donne, altro segno dei tempi.

Tra le abilità necessarie in questo genere letterario, c’è quella di saper caratterizzare psicologicamente i protagonisti sbirciando dietro la curata immagine pubblica dei più noti, attraverso aneddoti e retroscena raccolti tra chi gli sia vicino. Così Larry Page, il cofondatore di Google, il genio della programmazione che ha creato il motore di ricerca più usato al modo e un impero economico in soli quindici anni, sarebbe un introverso al limite dell’asocialità afflitto da alcune fissazioni (il termine «ossessionato» ricorre) riconducibili alla missione che si sarebbe auto imposto di migliorare il mondo per via tecnologica. Tra le aspirazioni più risalenti di Page c’è quella di costruire la città perfetta, quella dove la tecnologia risolve i problemi del vivere, dai trasporti alle relazioni interpersonali, dall’amministrazione pubblica alle regole di convivenza, come nell’utopia di Pentland (vedi 1° parte). Accanto alle auto senza pilota, alle macchine volanti e ai robot per la raccolta differenziata, anche la gestione delle tasse, il controllo della polizia, premi e sanzioni per i cittadini. Idee su cui il team di Larry è a lavoro da anni e raccolte nelle 437 pagine dello Yellow Book, il manuale tecno-sociologico per il prototipo della comunità nuova. Un altro visionario, Walt Disney, mezzo secolo prima aveva coltivato progetti simili per quel pezzo di Florida su cui aveva ottenuto dal Governo la delega ad esercitare gran parte dei poteri statali. EPCOT, che oggi è uno dei grandi parchi divertimenti, se Disney non fosse scomparso nel 1966 sarebbe divenuta quel che l’acronimo dichiarava: Experimental Prototype Community of Tomorrow. Con Disney, e con tutti i visionari ricchi e megalomani del presente e del passato, Page condivide l’allergia per i processi deliberativi delle amministrazioni pubbliche condannate a pensare in piccolo, a finire prigioniere di meschini compromessi e della loro stessa burocrazia.

Alla testa di quella Sidewalk Lab che doveva realizzare la sua visione, Page aveva voluto Dan Doctoroff, già broker di Lehman Brothers e vicesindaco di New York City nella giunta Bloomberg, con delega all’urbanistica; un sessantenne infaticabile il cui stile di management, dice O’Kane, è quello tipico del «maschio bianco dispotico che ottiene quel che vuole con accessi d’ira», veri e simulati. Al suo esordio pubblico, annunciando la partnership con la città accanto a Trudeau, Doctoroff dichiara: «Il nostro viaggio inizia qui, in stretta collaborazione con la [vostra] comunità, e terminerà con noi che creiamo il nuovo modello di vita urbana per il ventunesimo secolo». Anche i meno scettici erano avvisati. Tuttavia, nei mesi in cui l’offerta di Sidewalk prevale tra le sei in concorso, il vento comincia a cambiare.

In un noto articolo [vedi nota] del maggio 2017, l’Observer aveva svelato le attività di manipolazione del voto per la Brexit e per le presidenziali americane dell’anno prima ad opera di una piccola e oscura società britannica già vicina ad ambienti dell’intelligence, Cambridge Analytica. Grazie ai dati di milioni di persone ottenuti principalmente attraverso Facebook, era stata in grado di identificare i “convincibili” e di bombardarli con messaggi personalizzati direttamente sui loro telefoni. Non pubblicità dunque, ma notizie confezionate secondo lo specifico profilo psicologico del destinatario che i metadati suggerivano per “attivare” la risposta elettorale desiderata. Cambridge Analytica, chiarisce l’articolo, era stata acquisita da Robert Mercer, un miliardario statunitense vicino ai repubblicani, aveva come vicepresidente Steve Bannon, lo stratega dell’ascesa di The Donald ma anche «legami con l’amministrazione Trump e con la destra britannica ed europea, [legami] che conducevano alla Russia». Una manipolazione del voto interamente da accollare alla politica, dunque, ma resa possibile da Facebook e dal “commercio di dati”.

Nel maggio 2018, il varo dell’innovativo regolamento europeo sulla protezione dei dati (GDPR) indica che i policy maker più avveduti stanno già correndo ai ripari. A fine 2019, Shoshana Zuboff lancia il suo circostanziato allarme invitando alla «mobilitazione» gli oppressi digitali. Come reagiscono i nostri canadesi al mutamento di sentiment?
Cercando di rendere breve una storia un po’ troppo lunga (416 pagine di meetings, conferenze stampa, clausole contrattuali, audit e negoziati), accade che le obiezioni tecniche e i timori dei “puri” fanno proseliti: che fine faranno i nostri dati? Come evitare che Quayside si trasformi nel cavallo di Troia con cui Google dilaghi in tutta la città? Come beneficiare delle innovazioni che scaturiranno dall’esperimento? Come abbiamo fatto a sottovalutare il pericolo?

Il primo a finire epurato è Will Flessing, il «visionario» AD di Waterfront, colpevole di eccessivo entusiasmo per il perfect match di ieri. Con gli occhi finalmente aperti, membri del team e del board (Kristina Verner, Megan Davis, Helen Burnstyn, Marisa Piattelli su tutti) si uniscono alla schiera degli scettici assieme a intellettuali, esponenti LGBTQ+ e al pubblico che Bianca Wylie mobilita sui social. Bonnie Lysyk (auditrice generale del governo regionale) apre un’inchiesta interna sulle modalità di gestione di quella relazione divenuta pericolosa e anche il nuovo AD pro bono, Michael Nobrega, salta.

La volontà di Sidewalk Lab di dare al progetto una scala adeguata agli investimenti necessari, andando oltre il piccolo Quayside, vengono bollati dagli attivisti come tentativi di Land Grabbing (sic!) e le speranze di avere campo libero a Toronto si fanno via via più flebili. A fronte di questa levata di scudi delle élite cittadine, il movimento #BlockSidewalk non riesce mai ad assumere il carattere della sollevazione generale che «Fuck Off Google» aveva avuto a Berlino nel 2016, in una situazione identica. Anzi, l’idea che Google si stabilisse in città, ammette O’Kane, al torontiano della strada sembrava non dispiacere.
A tagliare il nodo gordiano, quando le parti sono ormai stremate da un negoziato infinito, arriva il COVID: quotazioni azionarie e mercato immobiliare precipitano ed entrambe perdono interesse. La partnership viene dichiarata morta e l’area del porto lasciata al suo degrado, come una Bagnoli qualunque. Anche Sidewalk Lab, avendo generato costi per centinaia di milioni, qualche ottima idea ma nessun grande progetto in sei anni, chiude i battenti nel 2021.

Davide ha sconfitto Golia dunque. Questa pare l’ottica compiaciuta con cui l’autore presenta la vicenda sin dal sottotitolo, flirtando con il mondo dell’attivismo anticapitalista/antimperialista/anti-multinazionali e strizzando l’occhio a un inedito sovranismo canadese. Altre letture sono tuttavia possibili:

  • Per il lettore italiano: non una mazzetta o un’intercettazione ambientale, non una testa di cavallo lasciata sotto il portico del consigliere riottoso, nessun magistrato che sequestri tutto e riscriva storia e destino della smart city per sentenza. Anche le ventilate interferenze di Trudeau non si dimostreranno che il generico interessamento ex ante, difficile da qualificare anche solo come inopportuno. Nonostante il suo sforzo critico, quello che O’Kane descrive è un sistema politico-amministrativo articolato e dinamico che opera in un ambiente improntato alla trasparenza, sorvegliato da media e cittadini attenti. Un sistema che, alle prese con problematiche nuove, riesce in qualche modo a intermediare gli interessi (e perfino le isterie) dei consociati, senza che questi debbano fare le barricate per strada. Insomma, una noia mortale.
  • Per Big-tech e i teorici della società pianificata dai computer: infilarsi nella più politica delle arene dell’Occidente, la vita della polis, con l’aspirazione di forgiare la società nuova, sostituendo quel che già è con ciò che sensori e algoritmi suggeriscono debba essere, somiglia più alla riedizione di un miraggio illuminista che a una sfida tecnologica. Un’utopia razionalistica che, fortunatamente, anche il primo tra i «capitalisti della sorveglianza» si dimostra inadeguato a maneggiare.

Una chiosa 

Se, come suggerisce Zuboff, la sorveglianza digitale è il naturale esito dello «estrattivismo» che caratterizza il capitalismo occidentale, una tendenza opposta dovrebbe essere osservabile in quei regimi politici improntati a modelli socioeconomici ad esso alternativi e Stato-centrici. I fatti, inclusa la storia raccontata in Sideways, sembrano dire altro: nel nostro imperfetto mondo conflittuale e liberal-capitalista gli strumenti civili e legali per limitare lo strapotere dei “nuovi padroni digitali” esistono e sono agibili.

Quando le medesime facoltà sono concentrate nelle mani di governi illiberali, invece, la «sorveglianza» smette di essere una suggestione intellettuale e muta in concretissima repressione, assistita da quel potere coercitivo e violento di cui nessuna GAFAM è dotata. Il che, a sua volta, conduce a una domanda per i discepoli di Shoshana Zuboff: che la giustificata paranoia dei “sorvegliati” vada meglio indirizzata o, quantomeno, egualmente distribuita?

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[Nota] Carole Cadwalladr, «The great British Brexit robbery: how our democracy was hijacked», The Observer, 7 maggio 2017.