(voce di SopraPensiero)
Vittorio Cottafavi, “Vita di Dante”
Riemerge, dalle profondità buie e obliose degli archivi della Rai, un capolavoro quasi dimenticato, la “Vita di Dante” di Vittorio Cottafavi, cineasta forse apprezzato più in Francia che in Italia, anche a causa dei pregiudizi che ancora avvolgono il lavoro di chi, come lui, operò principalmente per la televisione, pur se in un’ottica di divulgazione raffinata e altissima.
Rare volte, crediamo, il cinema è riuscito a fondere con tanta sottigliezza e tanta profondità narrazione e documento, intento didattico e volontà d’arte, con esiti di misurata ed accorta sperimentazione. Rare volte (altro esempio può essere “Idillio” di Nelo Risi) il testo poetico (dalle tenzoni burlesche alle più nobili e meditate corrispondenze poetiche di argomento amoroso e insieme sapienziale, dal rapporto goliardico e svagato con Forese Donati a quello più ombroso, raccolto e sofferto, forse venato di rimozioni e sensi di colpa, con Guido Cavalcanti, qui interpretato da Luigi Vannucchi, attore finissimo e tormentato, morto suicida) si è fuso altrettanto profondamente con la resa e il tessuto narrativi e con il valore simbolico delle immagini e degli ambienti.
Tutto (i gradini, rapidamente e frammentariamente scanditi dallo sguardo cinematografico, meccanico eppure animato, delle “altrui scale” su cui “è duro calle/ lo scendere e ‘l salir”, il viso dolce e tagliente, penetrante e sfuggente, dell’enigmatica e splendida “donna pietra”, parte muta eppure così silenziosamente eloquente, gli occhi fermi e disdegnosi di Dante che guarda in macchina, verso lo spettatore, come da una lontananza mitica e senza tempo, mentre pronuncia l’invettiva piena d’amore e d’odio contro la “serva Italia”, quasi a rappresentare un risentimento morale e una tensione etica intemporali, perenni, sempre attuali e sempre irrisolti) è simbolo visivo del pensiero poetico, allegoria spontanea e naturale, discorso fatto carne, forma, moto, gesto, luce.