Il medico miracoloso
John Silence
Caso V. Un cane al campeggio

di
Algernon Blackwood

tempo di lettura: 120 minuti


I

Isole di tutte le forme e dimensioni si allineano a settentrione, di Stoccolma, sono circa un centinaio. Il vaporino che corre d’estate attraverso i loro intricati labirinti, lascia il passeggero in uno stato un po’ perplesso per ciò che riguarda l’orientamento, quando raggiunge il termine del suo viaggio a Waxholm. Ma è soltanto dopo Waxholm, che le isole vere e proprie cominciano a sparpagliarsi disordinate, e ad assalire la costa nel loro percorso incoerente, lungo un centinaio di leghe di solitaria bellezza. Fu proprio nel cuore di quella deliziosa confusione che piantammo le tende per una villeggiatura estiva. Una vera solitudine selvaggia di isole ci circondava.

Benchè le isole più grandi vantassero fattorie e stazioni di pesca, la maggioranza di esse era disabitata. Tappezzate di muschio e di erica, i loro tratti costieri presentavano una serie di burroni e crepacci e piccole baie sabbiose, con una vegetazione di splendide selve di pini che scendevano fino ai margini dell’acqua e attraevano l’occhio attraverso sconosciute profondità d’ombra e di mistero.

Le isole sulle quali avevamo diritto di campeggio in base al pagamento di una certa somma ad un commerciante di Stoccolma, si stendevano in gruppo pittoresco molto lontane dalla rotta del vapore. Una di esse era formata da un unico scoglio, con una frangia di splendide betulle. Due altre, come mostri cinti da rupi, emergevano con cupole boschive dal mare. La quarta, che ci scegliemmo perchè offriva fra l’altro una piccola laguna adatta all’ancoraggio, al bagno e alla pesca, sarà descritta nel modo che merita, man mano che la nostra storia procede. Per quanto rifletteva il pagamento dell’affitto, avremmo ugualmente potuto piantare le tende su ciascuna delle centinaia di altre isolette che si raggruppavano intorno a noi, fitte come uno sciame di api.

Fu nello splendore di una sera di luglio, dall’aria chiara come cristallo, che lasciammo il piroscafo ai margini della civiltà e facemmo vela con carte geografiche, bussole e provviste verso il piccolo gruppo di isole nelle Skärgard che doveva ospitarci per la durata di due mesi. Il battello e il mio canotto canadese ci seguivano, con tende e attrezzi accuratamente stivati a bordo. Quando l’ammasso rupestre nascose ai nostri occhi il vapore e l’albergo di Waxholm, ci accorgemmo per la prima volta che il frastuono dei treni e delle case si trovava lontano, dietro di noi, insieme alla febbre delle moltitudini delle città, insieme alla noia delle strade e degli angusti spazi della nostra vita quotidiana. Una selvaggia solitudine si spalancava da tutti i lati verso sconfinate distese azzurre, e la carta geografica e le bussole furono tanto spesso messe da parte che il nostro procedere fu incantevole nella sua lentezza. Ci costò, ad esempio, due giorni interi, per trovare la nostra isola prescelta, a forma di luna nuova, e i campeggi in cui sostavamo per via erano tanto affascinanti, che li lasciavamo con difficoltà e rammarico, poichè ogni isola sembrava più desiderabile di quella che la precedeva. L’incanto inesprimibile di una pace che affascinava lo spirito, si stendeva su tutto e faceva maggiormente apprezzare la lontananza dal tumulto del mondo, e la libertà di spazi aperti e desolati.

Tanti di questi luoghi di bellezza ho ricercati e abitati nel mondo, che nella mia mente ne rimane soltanto un ricordo complesso, una vera carta geografica celestiale. Ma quel luogo è scolpito nella mia memoria con particolare rilievo per le strane cose che vi si svolgevano ed anche, credo, perchè ogni situazione in cui Giovanni Silence rappresenta una parte, ha il potere di fissarsi nella mente con una vitalità ostinatamente durevole.

Per il momento, tuttavia, il <Dr. Silence non faceva parte della comitiva. Qualche caso particolare, nell’interno dell’Ungheria, reclamava la sua attenzione, e non era che più tardi, per il 15 agosto precisamente, che avevo predisposto di trovami con lui a Berlino, allo scopo di ritornare insieme a Londra per il lavoro invernale. Tutti i partecipanti alla nostra comitiva, ad ogni modo, lo conoscevano più o meno bene, e fu in quel terzo giorno, mentre veleggiavamo attraverso la stretta apertura nella laguna e vedevamo la cintura d’alberi in un tramonto d’oro e di porpora davanti a noi, che le ultime parole da lui rivoltemi a Londra, al momento della nostra partenza, mi ritornarono, per qualche ragione inesplicabile, distintamente alla memoria, rievocando nella mia mente la strana impressione di profezia con cui le avevo allora ascoltate:

«Godetevi le vostre vacanze e raccogliete tutte le forze di cui disponete!», aveva detto mentre il treno si avviava fuori dalla Stazione Victoria. «Ci ritroveremo a Berlino il giorno 15…, a meno che non mandate a chiamarmi prima».

Ora, improvvisamente, le sue parole mi ritornarono con tanta chiarezza alla memoria, che quasi credetti di udire la sua voce che mi diceva nell’orecchio: «A meno che non mandiate a chiamarmi prima». Quelle parole mi ritornarono alla mente con un significato che non compresi affatto e che destò nelle profondità della mia mente un vago senso di apprensione, tanto da assumere il valore vero e proprio di una profezia.

Nella laguna, il vento ci venne a mancare in quella serata di luglio, com’era ben naturale al riparo di quella cintura di boschi, e ricorremmo ai remi. Eravamo tutti in estasi per l’incanto di quella prima visione della nostra isola prescelta, e discutevamo di una quantità di cose, come ad esempio il migliore punto d’approdo, la profondità dell’acqua, il punto più sicuro per l’ancoraggio, il luogo dove piantare le tende, il posto più riparato per i fuochi del bivacco. A tante cose si deve infatti pensare, quando si ha da impiantare e organizzare la casa in una solitudine selvaggia!

In quell’ora affaccendata, prima del tramonto, l’animazione era al colmo, e le personalità dei miei compagni mi apparivano in tutta la loro vivezza.

In realtà, credo che la nostra comitiva non fosse affatto singolare. Nella convenzionale vita domestica, quelle persone dovevano certamente essere abbastanza comuni, ma improvvisamente, mentre si oltrepassava quella porta della solitudine, le vedevo più distintamente di prima, con caratteri differenti di quelli della gente e dell’atmosfera delle città. Un completo cambiamento d’ambiente porta spesso a una visione sorprendente e nuovissima delle persone già ritenute assai note, che presentano un altro aspetto della loro personalità. Mi pareva di vedere la mia comitiva come composta di gente nuova, gente che non avevo veramente conosciuta fino ad allora, gente che avrebbe presto fatto cadere ogni maschera e si sarebbe, d’allora in poi, rivelata qual’era in realtà. Ognuno sembrava mi dicesse: «Ora mi vedrete come sono. Mi vedrete qui, in questa vita primitiva della solitudine, senza indumenti. Tutte le mie maschere e i miei veli li ho lasciati indietro, nei luoghi abitati dagli uomini. Guardate e stupite!».

Il reverendo Timoteo Maloney mi aiutò a piantare le tende, dato che una lunga pratica gli rendeva facile la operazione. Mentre conficcava cavicchi e stringeva corde, senza giacca, col colletto di flanella aperto e svolazzante, senza cravatta, era impossibile fare a meno di concludere che egli fosse più tagliato per la vita del pioniere che per quella della chiesa. Era un uomo sulla cinquantina, muscoloso, dagli occhi azzurri, molto cordiale, e si accinse alla sua parte di lavoro con mirabile intraprendenza. Era un piacere vedere il modo con cui maneggiava l’ascia nel tagliare gli arbusti per le aste della tenda e il suo occhio nel calcolare il livello era davvero infallibile.

Da giovane, era stato educato tirannicamente per un lucroso regime di vita. Egli, a sua volta, aveva disciplinato la mente secondo il complesso della fede ortodossa, officiando nella sua chiesetta di campagna con un’energia che faceva pensare a uno spaccalegna che manipolasse del vasellame. Da pochi anni soltanto si era ritirato da quella vita per dedicarsi ad impartire ripetizioni ai giovani allo scopo di prepararli ai loro esami, dato che questo gli conveniva maggiormente. Ciò lo metteva pure in grado di dare libero sfogo alla sua passione per la «vita selvaggia». Trascorreva così, ormai da qualche anno, i mesi estivi alla vela o sotto la tenda, in una qualsiasi parte del mondo, portando con sè i suoi giovani, in affascinanti lezioni all’aria aperta.

Sua moglie, di solito, lo accompagnava, e non c’era dubbio che godesse essa pure di quelle gite, poichè possedeva, benchè in misura minore, la stessa gioia della solitudine, caratteristica che distingueva tanto notevolmente il marito. La sola differenza stava in ciò: che, mentre egli vi vedeva la vita vera, essa vi vedeva un piacevole intermezzo. Mentre egli si dava al campeggio col cuore e la mente, essa vi si lasciava indurre per il benessere fisico. Essa rappresentava ciò malgrado una magnifica compagna. Ad osservarla tutta intenta a cucinare la colazione sul fuocherello che avevamo sistemato fra le pietre, si capiva subito che si dedicava con entusiasmo alla bisogna e ne godeva in ogni dettaglio.

La signora Maloney, in casa sua, mentre cuciva al sole, convinta che il mondo fosse stato creato in sei giorni, era una donna a sè. Ma la signora Maloney, ritta con le braccia nude sul fumo di un fuocherello di legna sotto i pini, era tutt’altra cosa. Pietro Sangree, l’alunno canadese dal colorito pallido e dalla gracile ma non sgradevole figura, le stava al fianco, in un contrasto alquanto sfavorevole, a pelar patate e affettar lardo, con delle bianche dita delicate che sembravano più adatte a tenere la penna che il coltello. Essa lo comandava come uno schiavo ed egli ubbidiva con piacere, poichè, malgrado la sua apparente debolezza, era felice di trovarsi al campeggio come tutti gli altri.

Ma più di ogni altro membro della comitiva, Giovanna Maloney, la figlia, formava parte integrante, naturale e genuina, del paesaggio, al quale apparteneva come gli alberi, il muschio e le grigie rocce strapiombanti nell’acqua. Essa era veramente una creatura delle selve, una zingara nel suo ambiente.

Chiunque, dotato di occhio sensibile, si sarebbe facilmente accorto di questo, ma io, che la conoscevo dalla nascita, ero divenuto familiare, in quei ventidue anni della sua vita, col tipo essenzialmente primitivo del suo carattere e del suo temperamento. Dopo averla veduta in quell’ambiente, sembrava impossibile doverla nuovamente immaginare fra le pastoie della civiltà. Perdevo letteralmente ogni ricordo di come essa appariva in città. La memoria della sua vita cittadina svaniva nel nulla. Quella lieve creatura davanti a me, svolazzante di qua e di là con tutta la grazia della vita dei boschi, vispa, svelta, flessuosa, che ravvivava il fuoco stando sulle ginocchia, o agitava la padella in un velo di fumo, mi sembrava improvvisamente il solo aspetto sotto il quale l’avessi sempre vista nella realtà. Là essa era a casa sua. A Londra diventava qualcuno o qualche cosa nascosto dagli indumenti, una specie di bambola artificiale carica di vesti e mossa ad orologeria, che partecipasse alla vita con solo una parte di sè. Nei boschi, invece, si trovava tutta quanta la sua vita.

Non ricordo affatto come fosse vestita, come non ricordo, analogamente, come fosse rivestito ogni singolo albero, o come fosse screziato ogni sasso che giaceva intorno al campeggio. Aveva un aspetto altrettanto selvaggio e naturale e indomito, quanto ogni altra cosa che concorreva a formare il paesaggio. Questo è tutto quanto posso dire.

Bella, decisamente non era. Era esile, magra, bruna di capelli, e possedeva una grande forza fisica agli effetti della resistenza. Aveva pure qualche cosa della forza e dei vigorosi propositi d’un uomo, agitata talvolta e violenta da preoccupare e spaventare sua madre, e imbarazzare suo padre che prendeva ogni cosa con calma, investendolo con le sue bizzarrie, e suscitandone al tempo stesso l’ammirazione con la sua violenza. Pagana tra i pagani, era inoltre, con qualche suggestione ossessionante della bellezza pagana del mondo antico nella espressione del suo volto e agli occhi scuri. Un carattere bisbetico e difficile, insomma, ma d’una generosità e di un coraggio che la rendevano simpaticissima.

Nella vita cittadina, mi sembrava sempre ingranchita e seccata, un vero diavolo in gabbia, con negli occhi una espressione di perseguitata, come se ogni momento temesse di essere catturata. Ma lassù, in quell’ampia solitudine, tutto ciò scompariva. Lontana dalle limitazioni che la infastidivano e la irritavano, si manifestava nel suo modo migliore, e mentre osservavo le sue mosse intorno al campeggio, mi faceva ripetutamente pensare a una creatura selvaggia che avesse appena riconquistata la libertà e stesse per provare i suoi muscoli.

Pietro Sangree, com’era naturale, andò subito in amorosa soggezione davanti a lei. Ma essa era talmente al di là della sua portata, e tanto avveduta e in grado di fare da sola, che i genitori di lei si preoccupavano ben poco della cosa. Egli si trovò così ridotto ad adorarla a rispettosa distanza, celando mirabilmente la sua passione. Alla sua età, tuttavia, gli occhi si possono difficilmente dominare, e la loro espressione spasimante, quasi divorante, che era spesso visibile in essi, era forse sconosciuta anche a lui. Meglio di qualunque altro, comprendeva di essersi innamorato di qualche cosa assai difficile a conquistare, qualche cosa che lo riportava alle stesse origini della vita, e forse più in là. Era senza dubbio per lui una segreta e terribile gioia, quella appassionata adorazione a distanza. Soltanto, penso soffrisse più di quanto si potesse supporre, e che la sua mancanza di vitalità fosse dovuta più che altro alla costante corrente di passione insoddisfatta, che emanava dalla sua anima e dal suo corpo. Mi sembrava inoltre nel vederli per la prima volta insieme, che qualche cosa di indefinibile, qualche caratteristica sfuggente li segnasse come appartenenti al medesimo mondo. Sebbene la ragazza lo ignorasse di proposito, mi pareva che, in segreto, e forse inconsciamente, essa fosse attratta, per mezzo di qualche attributo radicato molto in fondo alla sua natura, verso qualche qualità altrettanto profondamente radicata in lui.

Tale era quindi la comitiva, quando per la prima volta ci accampammo, in quella nostra villeggiatura che doveva durare due mesi sull’isola del Mar Baltico. Altre figure guizzavano, di quando in quando, attraverso lo scenario. Talvolta un uomo, talvolta un altro, venivano a raggiungerci ed a trascorrere le loro quattro ore al giorno nella tenda del sacerdote. Ma venivano soltanto per brevi periodi, e se ne andavano senza lasciar traccie nella mia memoria. Non ebbero comunque alcuna parte importante in ciò che successivamente accadde.

Il tempo quella notte ci favoriva. Al tramonto, le tende erano piantate, le barche scaricate, una provvista di legna raccolta e spaccata per il lungo. Le candele entro le lanterne, pendevano dagli alberi circostanti, pronte per essere accese. Anche Sangree aveva preparato grossi materassi con frasche di balsamo per i letti delle donne, e aveva tracciato piccoli sentieri attraverso la sterpaglia, dalle loro tende al focolare centrale. Tutto era pronto, in caso di maltempo. Fu una cena saporita e bene allestita, quella intorno alla quale ci sedemmo, mangiando sotto le stelle. Secondo il giudizio del sacerdote, era quello l’unico pasto mangiabile che ci toccasse, da quando eravamo partiti da Londra, una settimana prima.

La profonda calma, dopo quello strepito di piroscafi, treni e turisti, aveva in sè qualche cosa da far rabbrividire poichè, mentre stavamo seduti intorno al fuoco, non c’era alcun rumore, all’infuori del tenue sospirare dei pini e del sommesso sciacquìo delle onde lungo la spiaggia e contro i fianchi della barca, nella laguna. La sagoma spettrale delle sue vele bianche era appena visibile fra gli alberi, mentre si dondolava nel suo calmo ancoraggio. Più oltre, si stendevano nella notte i cupi contorni azzurri di altre isole, e da tutti gli ampi spazi intorno a noi giungeva il mormorìo del mare e il placido respiro di profonde foreste. I profumi della solitudine selvaggia, profumi di vento e di terra, di alberi e d’acqua, puri, vigorosi e possenti, erano l’emanazione di un mondo vergine, non contaminato dagli uomini, più penetranti e sottilmente intossicanti di ogni altro profumo nel mondo. C’era in tutto questo, anche un fascino pericoloso, per i temperamenti suggestionabili!

«Ah!» esclamò il sacerdote dopo la cena, con un gesto indescrivibile di soddisfazione e di sollievo. «Qui c’è libertà, e spazio per il corpo e la mente! Ci si sente rinascere! Qui si può lavorare, riposare e giuocare! Qui si può vivere e assorbire qualche cosa delle forze terrestri con le quali non ci si trova mai a contatto nelle città! Per san Giorgio! Farò qui un campeggio permanente e verrò qui, quando verrà il tempo di morire!».

Il buon uomo dava unicamente sfogo alla sua gioia di trovarsi sotto la tenda. Diceva la stessa cosa ogni anno, e la diceva spesso. Ma esprimeva più o meno i sentimenti superficiali di noi tutti. Quando, un po’ più tardi, si volse a complimentare sua moglie per le patate fritte, e scoprì che stava russando col dorso contro un albero, emise un brontolìo di soddisfazione e le pose una coperta sui piedi, come se fosse la cosa più naturale del mondo per lei di addormentarsi così, dopo cena. Poi, si ritirò nel suo angolo, a fumare la pipa, con grande soddisfazione.

Io pure, fumando la pipa, me ne stavo sdraiato e lottavo contro il sonno più delizioso che si possa immaginare, mentre i miei occhi vagavano dal fuoco alle stelle spiando attraverso i rami, e poi, di nuovo, verso il gruppo intorno a me. Il reverendo Timoteo lasciò presto spegnere la pipa, e cedette al sonno come aveva fatto sua moglie, poichè aveva lavorato duramente e mangiato bene. Sangree, pure fumando, sedeva appoggiato contro un albero con lo sguardo fisso sulla ragazza. Aveva un profondo ardore negli occhi, che non sapeva nascondere, e che realmente mi affliggeva per lui. Giovanna, a sua volta, con gli occhi sbarrati, vigile, ricca delle nuove forze del luogo, evidentemente animata dalla magìa di trovarsi fra tutte le cose in mezzo alle quali la sua anima si sentiva a suo agio, sedeva rigida vicino al fuocherello, coi pensieri vaganti per lo spazio e il sangue agitato in fondo al cuore. Essa era altrettanto ignara dello sguardo del canadese quanto del fatto che i genitori dormivano. Mi sembrava piuttosto un alberello, o qualche cosa che fosse cresciuto là, sull’isola, che non una ragazza viva del nostro mondo. Quando le parlavo bisbigliando, dal mio posto, per suggerirle un giro d’ispezione, essa trasalì e guardò verso di me, come se avesse udito una voce in sogno.

Sangree saltò in piedi e ci raggiunse. Senza destare gli altri, ci incamminammo sul crinale dell’isola e ridiscendemmo alla spiaggia dalla parte opposta. L’acqua si stendeva come un lago davanti a noi, ancora colorata dal tramonto. L’aria era frizzante e profumata, greve della fragranza delle isole boscose alitando intorno a noi, nell’oscurità. Piccole onde sciacquavano morbidamente sulla sabbia. Il cielo era cosparso di stelle, e dappertutto spirava e palpitava la bellezza della notte estiva. Confesso che perdetti ben presto la coscienza delle presenze umane ai miei fianchi, e sono quasi convinto che Giovanna la perdesse anche lei. Soltanto Sangree sentiva diversamente, credo, perchè lo udivamo sospirare; e posso ben immaginare che egli assorbiva nel suo cuore afflitto tutta la meraviglia e la suggestiva passione dello scenario, per aumentarne la pena che era più penetrante ancora del fascino provocato dalla vista di tanta incomparabile e incomprensibile bellezza.

Un guizzo di pesce a fior d’acqua ruppe l’incanto.

«Sarebbe bello se avessimo qui il canotto», osservò Giovanna. «Potremmo remare verso le altre isole».

«Certamente!», dissi. «Aspettatemi qui e farò una corsa», e stavo per incamminarmi nel buio, quando essa mi fermò con tono significativo:

«No! Ci andrà il Signor Sangree. Lo attenderemo qui e lo orienteremo con la voce».

Il canadese scattò in piedi, poichè essa aveva soltanto da accennare un desiderio, per essere immediatamente ubbidita.

«Quando v’imbatterete nelle rocce, scansate la spiaggia», gli gridai dietro, «e girate a destra della laguna. È quella la via più breve, secondo la carta».

La mia voce si diffuse sulle acque tranquille e risvegliò nelle isole lontane degli echi che si ripercossero su di noi come esseri umani vociferanti nello spazio. Non c’erano che trenta o quaranta metri da percorrere oltre il crinale, verso l’altro versante, sino alla laguna dove c’erano le barche, ma c’erano due buoni chilometri da costeggiare intorno alla spiaggia, nel buio, sino al punto in cui ci trovavamo ad aspettare. Lo udimmo ancora inciampare fra i sassi. Poi i rumori cessarono all’improvviso, nel momento in cui, dopo aver raggiunto il crinale, aveva cominciato a discendere per l’altro versante.

«Non volevo trovarmi sola con lui», disse la ragazza a voce bassa. «Ho sempre paura che dica o faccia qualche cosa…» Esitò un momento, guardandosi rapidamente sopra la spalla, in direzione del crinale dove egli era poco prima scomparso, «qualche cosa che possa avere conseguenze spiacevoli».

Essa tacque d’un tratto.

«Sareste voi, Giovanna, a spaventarvi di qualche cosa!» esclamai, con naturale sorpresa. «Questo getta una nuova luce sul vostro carattere. Credevo che l’essere umano capace di spaventarvi non esistesse». Mi accorsi subito, tuttavia, che parlava seriamente, guardandomi come per chiedermi aiuto, e cambiai subito tono.

«Credo, Giovanna, che si sia lasciato andare un bel po’, coi suoi sentimenti», soggiunsi con gravità. «Dovete essere gentile con lui, qualunque altra cosa possiate sentire. Vi vuole un mondo di bene».

«Lo so, ma non so convincermi», essa bisbigliò, per paura che la sua voce potesse propagarsi nel silenzio; «c’è qualche cosa intorno a lui che… che mi fa gelare il sangue e che mi fa quasi paura».

«Ma, povero ragazzo, non è poi colpa sua, se è gracile e se talvolta sembra un morto», risi dolcemente, in vena di difendere quello che sentivo essere un membro innocentissimo del mio sesso.

«Oh, non è questo che intendo dire!», essa rispose subito. «C’è qualche cosa che sento intorno a lui, qualche cosa nella sua anima, qualche cosa di cui egli stesso, probabilmente, non è cosciente, ma che può manifestarsi, se stiamo molto insieme. Questo mi esaurisce, lo sento, tremendamente. Agita quanto vi è in me di violento, di selvaggio… molto in fondo… oh, molto molto in fondo,… eppure al tempo stesso mi fa paura».

«Suppongo che i suoi pensieri si aggirino sempre intorno a voi», dissi, «ma è di animo gentile e…».

«Già, già», essa interruppe impaziente, «posso assolutamente fidarmi di lui. È gentile e di cuore singolarmente puro. Ma c’è qualche cosa d’altro che…». Si fermò di nuovo d’improvviso per ascoltare. Poi mi si riavvicinò nell’oscurità, sussurrando:

«Sapete, Signor Hubbard! Talvolta le mie intuizioni mi mettono in guardia un po’ troppo fortemente, per poterle ignorare. Oh già! Non occorre mi ripetiate che è difficile distinguere fra fantasia e intuizione. So tutto questo. Ma so pure che c’è qualche cosa, molto in fondo, nell’anima di quell’uomo, che fa capo a qualche cosa molto in fondo alla mia anima. È questo che mi spaventa ora. Poichè non so spiegarmi cosa sia. Io so, so, che farà un giorno qualche cosa che… che scuoterà la mia vita sino in fondo». Rise un po’ della stranezza della sua descrizione.

Mi volsi per guardarla più davvicino, ma il buio era eccessivo perchè potessi vederla in viso. C’era un’intensità, quasi una passione soppressa, nella sua voce, che mi colpì e mi sorprese.

«È assurdo, Giovanna», dissi, un po’ severo. «Lo conoscete bene! Si trova già da parecchi mesi con vostro padre».

«Ma questo è stato a Londra! E qui la cosa è diversa… cioè, sento che è diverso. La vita, in un luogo come questo, spazza via i freni della vita normale. Io so, oh! so cosa sto per dire. Mi sento tutta sciolta e libera in un luogo come questo! La rigidezza della natura individuale comincia a fondersi e a dissolversi. Certamente voi dovrete comprendere che cosa sto per dire!».

«Ma certo che comprendo!», risposi, senza però volerla incoraggiare nella sua direttiva di pensiero. «Ed è una grande esperienza… per un tempo breve. Ma siete troppo stanca stanotte, Giovanna, come noi tutti, del resto. Un po’ di giorni in quest’atmosfera vi farà superare tutte le apprensioni del genere che mi avete descritto».

Poi, dopo un istante di silenzio, soggiunsi, sentendo che avrei potuto perdere tutta la sua fiducia, se continuavo a menare il can per l’aia e a trattarla come una bambina:

«Credo, forse, che la vera spiegazione sta in ciò: che voi lo commiserate per il fatto che vi ama, e al tempo stesso sentite la repulsione dell’animale sano e vigoroso per quanto è debole e timido. Se avesse usato la maniera forte e vi avesse afferrata per la gola e avesse urlato che vi avrebbe costretta ad amarlo…. ebbene, allora non sentireste alcuna paura di sorta. Sapreste esattamente come trattarlo. Non è forse qualche cosa di questo genere?».

La ragazza non rispose. Quando la presi per mano, sentii che tremava ed aveva freddo.

«Non è il suo amore che temo», disse in fretta, poichè in quel momento udimmo il tonfo dei remi nell’acqua. «C’è qualche cosa, nella sua stessa anima, che mi atterrisce in un modo che non ho mai provato, prima… e che tuttavia mi affascina. In città, mi accorgevo appena della sua presenza. Ma dal momento che ci siamo allontanati dalla civiltà, ho cominciato a sentire in quel modo… Egli sembra così…. così reale qui! Ho paura di starmene sola con lui. Mi fa sentire come se qualche cosa debba scoppiare e prorompere… che egli farà qualche cosa… o che io farò qualche cosa… non so esattamente che cosa, probabilmente,… ho voglia di gridare…».

«Giovanna!».

«Non allarmatevi!», essa rise brevemente. «Non farò nessuna sciocchezza! Ma avevo bisogno di confidarvi i miei sentimenti, per il caso che avessi bisogno del vostro aiuto. Quando ho delle intuizioni forti come questa, non sono mai sbagliate. Ma non so ancora che cosa tutto questo significhi esattamente…».

«Dovete resistere per questo mese, ad ogni modo», dissi con un’inflessione realistica nella voce, per quanto mi fosse possibile, poichè la sua maniera aveva in qualche modo cambiato la mia sorpresa in una sottile sensazione di allarme. «Sangree rimane qui soltanto questo mese, come sapete. E, comunque, siete una creatura tanto strana voi stessa che dovreste sentire della generosità verso altre creature strane», terminai zoppicante, con un riso forzato.

Essa strinse ad un tratto fortemente la mia mano. «Sono contenta di avervene parlato, ad ogni modo», disse rapidamente sottovoce, poichè il canotto stava ora scivolando silenziosamente come un fantasma ai nostri piedi. «E sono contenta che siate qui anche voi», soggiunse mentre ci avviavamo verso l’acqua, ad incontrarlo.

Feci cambiar di posto a Sangree mettendolo a prua, e mi misi a sedere al timone, prendendo la ragazza fra di noi, in modo da poter osservare entrambi mentre le loro figure spiccavano contro il mare e le stelle. Per le intuizioni di certe persone, specialmente donne e bambini, confesso che ho sempre sentito un grande rispetto, che nella maggior parte dei casi è stato giustificato dall’esperienza. Ora, la curiosa emozione suscitata in me dalle parole della ragazza, rimaneva viva nella mia coscienza. La spiegai in parte col fatto che la ragazza, estenuata dalle fatiche di un viaggio durato parecchi giorni, avesse subìto qualche forte reazione dal possente, solitario paesaggio. Inoltre, essa poteva forse essersi accordata con la mia stessa esperienza, di vedere i partecipanti alla comitiva sotto una nuova luce. Il canadese era, in parte, uno straniero, e questo contribuiva a rendere più vivace l’impressione. Ma, al tempo stesso, sentivo che era ben possibile che essa avesse percepito qualche sottile legame tra la personalità di lui e la sua, qualche qualità che essa finora avesse ignorata e che il regime di vita della città le avesse tenuto nascosta e latente. La sola cosa che sembrava difficile spiegare era la paura di cui essa aveva parlato, e questa speravo si sarebbe presto dissipata per via naturale, col passar del tempo, in seguito ai salutari effetti della vita e dell’esercizio all’aperto.

Intraprendemmo il giro dell’isola senza parlare. Tutto era troppo bello perchè si potesse parlare o discutere di qualsiasi cosa. Gli alberi si piegavano verso la spiaggia, come per sentirci passare. Vedemmo le loro belle chiome scure, chine con splendida dignità per vegliare su di noi, dimenticando per un momento che le stelle si trovavano impigliate nella rete di aghi dei loro rami. Contro il cielo, nell’occidente, dove tuttora indugiava l’ora del tramonto, vedevamo la violenta linea dell’orizzonte, scabra di foreste e di rupi, che ci toccava il cuore come il motivo di una sinfonia, e inviava il senso della sua bellezza tutta brividi nella mente. Le isole si elevavano dall’acqua come basse nuvole, e, come quelle sembravano involarsi silenziosamente nel vortice della notte. Udivamo il tonfo musicale del remo, e il lieve sciacquìo delle nostre onde sulla spiaggia. Poi ci ritrovammo improvvisamente nell’apertura della laguna, dopo aver cioè compiuto il circuito della nostra isola.

Il reverendo Timoteo si era destato e canticchiava a bassa voce.

Il suono del suo canto, mentre scivolavamo per i cinquanta metri d’acqua della laguna, era piacevole a sentirsi e innegabilmente gradevole. Vedevamo il bagliore del fuoco, lassù, fra gli alberi del crinale, e l’ombra di lui muoversi attorno alle fiamme, mentre vi gettava della legna per alimentarle.

«Eccoli là!» esclamò forte. «Bene! Bene! Avete gettato le reti di notte, eh? Caspita! Tua mamma dorme ancora profondamente, Giovanna!».

Il suo riso schietto si diffuse nell’aria. Non si era minimamente turbato per la nostra assenza. I vecchi campeggiatori non si allarmano facilmente.

«Ora, ricordate!», continuò, dopo che seduti intorno al fuoco, gli ebbimo raccontato la nostra piccola escursione, e la signora Maloney ebbe chiesto per la quarta volta dove esattamente si trovasse la sua tenda e se la porta si affacciasse a oriente o a meridione. «A ciascuno per turno toccherà di cucinare la prima colazione, e uno degli uomini sarà sempre fuori, all’alba, per far colazione per primo. Hubbard, tireremo a sorte ciò che dovrete far voi al mattino e ciò che dovrò fare io!». Perdette. «Allora sarò io a far colazione per primo» dissi, ridendo per la sua sconfitta, poichè sapevo che gli spiaceva preparar la minestra. «E fate attenzione di non bruciarla, come facevate ogni volta, se ben ricordo, l’anno scorso, sul Volga», soggiunsi, per rinfrescargli la memoria.

La quinta interruzione della Signora Maloney circa la porticina della sua tenda e l’ulteriore sua osservazione irruente che erano le nove passate, ci fecero accendere le lanterne e per ogni buon conto, spegnere il fuoco.

Ma, prima che ci separassimo per la notte, il sacerdote doveva ancora celebrare un piccolo rituale suo particolare, consacrato dal tempo, che nessuno aveva il coraggio di negargli. Lo faceva sempre. Era un residuo delle sue abitudini del pulpito. Guardò brevemente dall’uno all’altro di noi, con viso grave e serio, le mani alzate verso il cielo e gli occhi chini e accigliati in un momentaneo cipiglio. Poi mormorò una breve preghiera quasi impercettibile, ringraziando il Cielo per averci condotti là sani e salvi, invocando un bel tempo, immunità da malattie e accidenti, abbondanza di pesce, e venti favorevoli per la vela.

Poi, inaspettatamente, e nessuno seppe esattamente il perchè, terminò con una richiesta incomprensibile, che a nessuna cosa appartenente al regno delle tenebre fosse consentito di turbare la nostra pace, e a nessuna cosa malvagia di avvicinarsi, per disturbarci durante la notte.

Mentre pronunciava quelle ultime sorprendenti parole, tanto stranamente diverse dal solito, levai lo sguardo, osservando casualmente il gruppo raccolto intorno al fuoco morente. Mi pareva allora di vedere il volto di Sangree subire un’improvvisa visibile alterazione. I suoi occhi erano fissi su Giovanna, mentre quel cambiamento gli si dipinse come un’ombra sul viso, e svanì. Trasalii mio malgrado, poichè nella sua espressione di solito inespressiva, c’era qualche cosa di stranamente concentrato, potente, raccolto. Ma tutto questo avvenne così rapidamente che, quando guardai una seconda volta, il suo volto era ritornato normale, e stava guardando tranquillamente fra gli alberi.

Giovanna, per fortuna, non lo aveva osservato, perchè teneva la testa china e gli occhi chiusi, mentre il padre pregava.

«La ragazza ha un’immaginazione ben vivace», pensai, ridendo fra di me, mentre accendevo le lanterne, «se i suoi pensieri possono suggestionarmi così!». Quando ci demmo la buona notte, tuttavia, mi valsi dell’occasione per dirle alcune parole di incoraggiamento, ed andai fino alla sua tenda per accertarmi di poterla trovare subito durante la notte, nel caso che qualche cosa accadesse. La ragazza mi dimostrò di aver subito compreso, e mi ringraziò. L’ultima cosa che udii, mentre mi avviavo al reparto riservato agli uomini, furono le grida della Signora Maloney che protestava perchè c’erano delle bestie nella sua tenda, e il riso di Giovanna quando le venne in aiuto per scacciarle.

Mezz’ora dopo l’isola era silenziosa come una tomba, e si udiva la voce cupa del vento che spirava dal mare. Come tre sentinelle, stavano le tre tende degli uomini su una scarpata del crinale, e di contro, a metà nascoste da alcune betulle, le cui fronde tremolavano leggermente alla brezza, erano situate le tende delle donne, più strettamente raggruppate per il reciproco ricovero e la mutua protezione. Qualcosa come cinquanta metri di terreno sconvolto dalle rocce, con muschio e licheni, si stendeva frammezzo, e sopra tutto pendeva il sipario della notte animata dai grandi venti provenienti dalle foreste della Scandinavia.

Mentre mi abbandonavo alla placida dolcezza del sonno, mi parve di riudire le parole di ammonimento del <Dr. Silence. E come per analogia, mi si affacciò alla mente l’incondizionata fiducia accordatami dalla ragazza e le cause della sua afflizione.

Come per un sottile incantesimo i miei sogni parvero riferirsi in qualche modo alla situazione. Ma prima che potessi analizzarne le ragioni, tutto piombò nella profonda incoscienza del sonno e non me ne rimase più alcun ricordo.

«A meno che non mi mandiate a chiamare prima…».

II

Non credo che la Signora Maloney abbia mai scoperto se la porticina della sua tenda si aprisse ad oriente o mezzogiorno, poichè è quasi certo che dormiva sempre con la tenda ermeticamente chiusa. So soltanto che la piccola tenda «uno e mezzo per due, tutta seta» si affacciava doverosamente verso oriente, poichè l’indomani il sole, inondandoci coi suoi raggi, come solo il sole delle solitudini sa fare, mi svegliò per tempo, e un momento dopo, con una breve corsa sul morbido muschio e un tuffo di lancio da una roccia di granito, stavo nuotando nell’acqua più scintillante che si potesse immaginare.

Erano soltanto le quattro e il sole sorgeva già sopra una lunga fila di isole azzurre che conducevano fuori, verso il mare aperto e verso la Finlandia. Più vicine sorgevano le cupole silvestri del nostro recinto, ancora ricoperto e intrecciato dagli strascichi fumosi di nebbia in rapido dissolvimento, e di un aspetto fresco come se fosse il famoso «Sesto Giorno» della Signora Maloney e fossero uscite proprio allora, pure e lucenti, dalle mani del Grande Architetto.

Negli spazi aperti, il terreno era coperto di rugiada, e dal mare un fresco vento salmastro s’insinuava tra gli alberi e faceva tremolare i rami in un’atmosfera di argento cangiante. Le tende splendevano bianche dove il sole le chiazzava. Sotto si stendeva la laguna, tuttora sognante nella notte estiva. Al largo, i pesci saltellavano vivaci, inviando musicali increspature verso la spiaggia. Nell’aria pendeva la magìa dell’aurora… silenziosa, inesprimibile.

Accesi il fuoco, in modo che un’ora dopo il sacerdote trovasse della buona brace per farvi cuocere la minestra. Poi mi misi ad esaminare l’isola, ma avevo superato appena una dozzina di metri, quando vidi una figura ritta di fronte a me, dove la luce del sole cadeva sopra uno stagno tra gli alberi.

Era Giovanna. Era già in piedi da un’ora, mi disse, ed aveva preso un bagno prima che le ultime stelle avessero lasciato il cielo. Vidi subito che lo spirito nuovo di quella regione solitaria era entrato in lei tanto da bandire le paure della notte, poichè il suo volto era quello di una beata abitatrice della foresta, e i suoi occhi erano immacolati e luminosi. Era scalza, e gocce di rugiada screziavano i suoi capelli svolazzanti. Evidentemente era entrata nel suo regno.

«Ho vagato, per tutta l’isola», annunciò ridendo, «e vi mancano due cose».

«Avete un buon istinto, Giovanna. E cosa sarebbero?».

«Non c’è vita animale, e non c’è… acqua».

«Son cose concomitanti», dissi. «Gli animali non infestano sicuramente una roccia come questa, se non vi è almeno una sorgente».

Mentre mi conduceva da un luogo all’altro, felice ed eccitata, saltando lesta di roccia in roccia, mi rallegrai nel notare che le mie prime impressioni erano esatte. Non fece cenno della nostra conversazione della sera precedente. Lo spirito nuovo aveva scacciato quello vecchio. Non c’era spazio nel suo cuore per la paura o per l’ansia, e la natura tracciava dovunque le sue direttive.

Osservammo che le isole erano distanziate a circa tre quarti di lega e disposte a cerchio o ad ampio ferro di cavallo, con un’apertura di venti piedi all’imbocco della laguna. I pini crescevano folti dappertutto, ma qua e là vi erano chiazze di betulle argentate, querce nane, e notevoli colonie di arbusti di lampone e di uva spina. Le due estremità del ferro di cavallo si espandevano a lastre di granito, sgombre, scivolanti nel mare formando pericolosi scogli a fior d’acqua, ma il resto dell’isola si elevava a un crinale alto dodici metri e declinava ripidamente a mare su entrambi i versanti, con una larghezza costante di un centinaio di metri. La costa esterna era frastagliata da innumerevoli insenature e baie e lidi sabbiosi, con qua e là delle caverne e piccole rupi a precipizio, contro le quali s’infrangeva spruzzando la risacca. La costa interna, quella della laguna, era bassa e regolare, e così bene protetta dalle pareti d’alberi lungo il crinale, che nessuna burrasca riusciva ad inviare altro che una lieve increspatura lungo i suoi margini sabbiosi. Vi regnava pertanto una costante tranquillità.

Su una delle isole, distante appena un centinaio di metri, poichè il resto della comitiva dormiva sino a tardi e potemmo così far uso del canotto, scoprimmo una sorgente di acqua fresca non inquinata dall’aroma salmastro del Baltico. Avendo così risolto il problema più importante del campeggio, procedemmo a occuparci del secondo… cioè di quello della pesca. Dopo appena mezz’ora, tornammo già a casa con una buona quantità di pesci. Inutile pescare di più di quello che potevamo consumare in un giorno.

E mentre approdavamo di ritorno verso le sei, sentimmo il sacerdote come al solito e vedemmo sua moglie e Sangree scuotere le coperte di lana e i vestiti al sole in modo da dissipare definitivamente tutti i ricordi della vita cittadina e della civiltà.

«Gli spiriti della foresta mi hanno acceso il fuoco», gridò Maloney allegramente. «Ho potuto così preparare una minestra fin troppo liquida… e stavolta non è bruciata!».

Comunicammo la scoperta dell’acqua e presentammo i pesci.

«Bene! Benissimo!» gridò. «Avremo così la prima colazione decente di quest’anno! Sangree li pulirà in un batter d’occhio, e la ‘fata della dispensa’… «…li friggerà da una sola parte», finì ridendo la voce della signora Maloney, entrando in scena in camiciotto azzurro di lana e sandali, con una padella in mano. Suo marito la chiamava sempre la «fata della dispensa» del campeggio, poichè le incombeva, fra l’altro, l’alto incarico di chiamare tutti a tavola.

«E quanto a te, Giovanna», continuò il vecchio felice, «sembri lo spirito dell’isola, col muschio nei capelli e il vento negli occhi, e sole e stelle mescolati nel volto». La guardò con soddisfazione e ammirazione. «Avanti, Sangree! Prendete questi dodici pesci! Ce n’è uno magnifico! Sono i più grossi! Li friggeremo nel burro in un batter d’occhio!».

Osservai il canadese, mentre lentamente si avviava alla secchia per la pulitura. I suoi occhi si abbeveravano alla grazia della ragazza, e un’onda di gioia appassionata, quasi febbricitante, gli passava sul volto, esprimendo la estasi di una vera adorazione. Pensava forse che aveva ancora tre settimane davanti a sè, con la promessa di quella visione sempre innanzi agli occhi. Forse pensava ai sogni della notte. Non so dirlo. Ma notai la curiosa espressione di spasimo e di beatitudine nei suoi occhi, e la forza dell’impressione ridestò la mia curiosità. Qualche cosa nel suo volto trattenne il mio sguardo per un secondo, qualche cosa che c’era nella intensità del suo sguardo. Che una personalità tanto timida, tanto gentile, dovesse nascondere una passione così virile sembrava quasi esigere una spiegazione.

Ma l’impressione fu passeggera, poichè quella prima colazione al campeggio non tollerava attenzioni ripartite, e potrei giurare che la minestra, il tè, la focaccia svedese, e i pesci fritti conditi di fettine di lardo abbrustolite, fossero assai migliori di ogni altro pasto che quel giorno si sarebbe consumato altrove, nel resto del mondo.

Il primo giorno sereno a un nuovo campeggio è sempre affacendato, quasi furioso, da ciò dipendendo in gran parte il reale benessere di tutti. Intorno al focolare, formato da sassi presi dalla spiaggia, costruimmo un’alta palizzata di stecche conficcate nel terreno e densamente avviticchiate da ramoscelli, col tetto foderato di muschio e lichene e gravato di pietre. Tutto all’ingiro, nell’interno, costruimmo bassi sedili di legno, in modo da potercene stare distesi intorno al fuoco anche quando pioveva e consumare i nostri pasti in pace. Tracciammo pure dei sentieri da tenda a tenda, e verso i punti del bagno e del pontile d’attracco, e una netta divisione dell’isola fu pure delineata fra il reparto degli uomini e quello delle donne. Fu accatastata della legna, si rimossero arboscelli e pietrame ingombranti, si sospesero le amache, e si rafforzarono le tende. In una parola, il campeggio fu messo a punto e a nuovo. Si ripartirono e si accettarono le funzioni, come se avessimo deciso di vivere su quell’isola del Baltico per degli anni, e il benchè minimo particolare della vita in comune avesse la sua importanza.

Inoltre, man mano che si formava il campeggio, questo senso di comunanza si sviluppava, a dimostrazione che eravamo un tutto organico e vivente, e non degli esseri umani separati, che vivessero incidentalmente sotto la tenda su un’isola deserta. Ciascuno s’inseriva di buon grado nel regime comune di vita. Sangree, come per vocazione naturale, s’incaricava della pulitura dei pesci e della funzione di spaccare ed apprestare la legna, in misura adeguata per l’uso giornaliero. E si disimpegnava bene. Il mastello dell’acqua non mancava mai di pesci, ripuliti e privati delle scaglie, pronti ad essere fritti per chiunque avesse fame. Il fuoco notturno non si spegneva mai per mancanza di materiale combustibile, e questo senza che si dovesse girare al largo per cercarlo.

E Timoteo, un tempo reverendo sacerdote, faceva da pescatore e tagliava gli alberi. Si assumeva altresì la responsabilità per lo stato della barca, e lo faceva in modo così perfetto che nulla mancò mai, nella piccola imbarcazione. E quando, per qualche ragione, era richiesta la sua presenza, il primo luogo dove si doveva cercarlo era… la barca, ed anche là lo si trovava generalmente a riparare vele, corde o remi, cantarellando allegramente.

Nè la lettura era trascurata. Molte mattine arrivava il suono di voci brontolanti dalla bianca tenda accanto ai rovi di lampone, il che significava che Sangree, il tutore o chiunque altro che si trovasse a far parte incidentalmente della comitiva, si trovava alle prese con la storia o coi classici.

Mentre la Signora Maloney, pure per vocazione naturale, s’incaricava della dispensa o della cucina, del rammendo e della sorveglianza generale di quelle primitive comodità domestiche, essa si rendeva pure particolarmente padrona del megafono che convocava ai pasti e faceva risuonare agevolmente la sua voce da un’estremità all’altra dell’isola. Nelle sue ore di ozio essa imbrattava il suo quaderno di schizzi, trasportandovi il paesaggio, con tutto l’impegno e la devozione della sua anima risoluta ma poco ricettiva.

Intanto Giovanna, la creatura sfuggente delle solitudini selvagge, diventava non so esattamente che cosa. Eseguiva una quantità di lavori nel campeggio, ma sembrava non avere incombenze ben precise. Si dava da fare dappertutto. Ora dormiva nella sua tenda, ora sotto le stelle, avvolta in una coperta di lana. Conosceva ogni angolo dell’isola e faceva la sua comparsa nei punti in cui meno la si aspettava, sempre vagando in giro, leggendo i suoi libri in angoli segregati, accendendo piccoli fuocherelli nei giorni senza sole per «adorare gli dei», come essa amava esprimersi, trovando sempre nuovi stagni in cui tuffarsi e bagnarsi, e nuotando giorno e notte nella calda laguna, senz’onde, come un pesce in un enorme serbatoio.

Camminava scalza e a gambe nude, con la chioma cadente e il gonnellino rialzato sopra le ginocchia, e se mai un essere umano è allegramente ritornato selvaggio nel giro di una sola settimana, Giovanna Maloney era certamente quell’essere privilegiato. Ne andava pazza, addirittura.

Era tanto invasa dal possente spirito del luogo che la paura umana cui essa aveva tanto stranamente ceduto al nostro arrivo, sembrava essere del tutto svanita. Come speravo e mi ripromettevo, non fece più alcuna allusione alla nostra conversazione della prima serata. Sangree non la seccava con attenzioni particolari, e dopo tutto essi si trovavano assai poco insieme. La condotta di lui era inappuntabile a tale riguardo, ed io, da parte mia, non ci pensavo quasi più. Giovanna era sempre in preda a vivide fantasie di vario genere, e quella era forse stata una fantasia delle sue. Per il bene di tutti gli interessati, se ne era liberata davanti allo spirito di vita affaccendata e attiva e alla profonda felicità che regnava sull’isola. Ciascuno era intensamente vivo, e la pace regnava in tutti i cuori.

Nel frattempo, l’effetto della vita di campeggio cominciò a farsi sentire. Nell’esame investigativo di un carattere, i suoi risultati, prima o dopo, riescono sempre infallibili, poichè esso agisce sull’anima in modo altrettanto immediato e sicuro quanto il bagno chimico sul negativo di una fotografia. Il ristabilimento delle forze personali avviene rapidamente. Alcune parti della personalità si addormentano, altre si destano. Ma il primo cambiamento evidente che comporta la vita primitiva sta in ciò: che i tratti artificiosi del carattere cadono di dosso, l’uno dopo l’altro, come involucri disseccati. Atteggiamenti e pose che sembravano schietti nella città, scompaiono. La mente, come il corpo, diventa presto dura, semplice, tutta d’un pezzo. E in un campeggio primitivo e aderente alla natura quale fu il nostro, questi effetti diventarono presto visibili.

Certa gente, naturalmente, che parla in modo altisonante della vita semplice quando se ne trova lontana, fuori dal suo contatto, si tradisce nel campeggio spiando e curiosando intorno per trovare qualche eccitamento artificiale della civiltà che le manca. Alcuni s’infastidiscono subito; altri diventano sudici; alcuni rivelano l’animale nel modo più inatteso; e altri, i pochi, gli eletti, si trovano perfettamente a posto, e sono felici.

Nella nostra piccola comitiva, potevamo lusingarci tutti di appartenere all’ultima categoria, per quanto riguardava l’effetto generale. Soltanto che vi erano certi altri cambiamenti, varianti a seconda di ogni individuo, e tutti interessanti da osservare.

Fu soltanto dopo la prima settimana, o le prime due, forse, che questi cambiamenti affiorarono, ma è probabilmente venuto il momento appropriato per parlarne. Non avendo io altro da fare che di godermi delle ferie ben meritate, usavo caricare il mio canotto di coperte e provviste, ed intraprendere dei giri di esplorazione fra le isole per alcuni giorni di seguito. Fu al mio ritorno dal primo di questi giri esplorativi, quando «riscoprii» per così dire, la comitiva, che questi cambiamenti mi si presentarono vivamente, e produssero, in un senso particolare, una impressione piuttosto curiosa.

In una parola, dunque, mentre ciascuno era diventato più selvaggio, assimilando vita naturale, Sangree mi sembrava essersi inselvatichito in misura maggiore, e potrei soltanto dire in misura non più naturale. Mi faceva pensare a un selvaggio autentico.

Per cominciare, aveva cambiato enormemente l’apparenza puramente fisica, e le piene gote brune, gli occhi più chiari pieni di salute, e l’aria generale di vigore e di robustezza che si era sostituita alla sua abituale rilassatezza e timidezza, avevano operato un tale miglioramento, che quasi non lo riconobbi più. Anche la sua voce s’era fatta più profonda e le sue maniere annunciavano per la prima volta una maggiore misura di fiducia in se stesso. Vantava ora delle prerogative tali da passare per avvenente, o per lo meno, per affacciare una cert’aria virile, che non lo avrebbe certo sminuito agli occhi dell’altro sesso.

Tutto ciò, comunque, era abbastanza naturale, e molto gradito. Ma, del tutto a parte da questo cambiamento fisico, che s’era pure del resto manifestato in noialtri, c’era una nota sottile nella sua personalità che in certa misura mi sorprendeva e quasi mi urtava.

E due cose, mentre discese per darmi il benvenuto e per tirare a riva il canotto, sorsero nella mia mente spontanee, come per un nesso logico, che per il momento non riuscivo a indovinare. In primo luogo, il curioso giudizio che Giovanna si era formato di lui. In secondo luogo, quell’espressione sfuggente che avevo colta sul suo volto mentre Maloney stava proferendo quella sua strana preghiera, per una speciale protezione dal cielo.

La delicatezza delle maniere e dell’apparenza, che è sempre stata una caratteristica di umana distinzione, era stata sostituita da qualche cosa di molto più vigoroso e deciso, che si sottraeva tuttavia ad ogni analisi. Il cambiamento che mi impressionava tanto stranamente non era facile a qualificarsi.

Gli altri, Maloney che canticchiava, la «fata delle dispense» affaccendata, e Giovanna, quella creatura affascinante fra l’ondina e la salamandra, tutti manifestavano gli effetti di una vita così vicina alla natura. Ma, nel caso loro, il cambiamento era perfettamente naturale, e quale si poteva logicamente prevedere, mentre per ciò che riguardava Pietro Sangree, il canadese, era qualche cosa di inusitato e di completamente inatteso.

È impossibile spiegare come abbia fatto per trasmettere progressivamente alla mia mente l’impressione che qualche cosa in lui si fosse inselvatichito, eppure era questa l’impressione che, più o meno, mi faceva. Non che apparisse realmente meno civilizzato, o che il suo carattere avesse subìto qualche alterazione ben definita, ma piuttosto, qualche cosa in lui, fino ad allora, si era risvegliato alla vita. Qualche qualità, fino ad allora latente, almeno per ciò che riguardava noi, che, dopo tutto lo conoscevamo tanto poco, era entrato in attività ed era affiorato alla superficie del suo essere.

Mentre, per il momento, così sembrava, in quanto potevo percepirlo, era più che naturale che la mia mente dovesse continuare nel processo intuitivo, e riconoscere che il <Dr. Silence, in virtù delle sue particolari facoltà, e la ragazza, in virtù del suo temperamento singolarmente ricettivo, dovevano, ciascuno in modo diverso, aver indovinato quella qualità latente nell’anima di lui, e ne temessero le prossime manifestazioni.

Ripensando alla sua penosa avventura, sembra ora ugualmente naturale che lo stesso processo, portato alla sua logica conclusione, dovesse risvegliare in me qualche profondo istinto che, senza direzione alcuna da parte della mia volontà, si era messo in guardia, vigile e persistente, da quello stesso momento. D’allora in poi, la personalità di Sangree non fu mai lontana dai miei pensieri, ed io stavo sempre analizzando e cercando una spiegazione, che si faceva tanto attendere.

«Vi dichiaro, Hubbard, che siete abbronzato e conciato come un vero selvaggio, e ne avete pure tutto l’aspetto», disse ridendo Maloney.

«E io posso rendervi il complimento» fu la mia risposta, mentre ci raccoglievamo intorno alla teiera in ebollizione per scambiarci le novità e confrontare degli appunti.

Più tardi, durante la cena, mi divertivo ad osservare che il distinto precettore, altra volta sacerdote, non mangiava i suoi pasti nello stesso modo «ghiotto» come lo faceva a casa: li divorava addirittura! La Signora Maloney mangiava di più, e, a dire il vero, con maggior fretta che non fosse sua abitudine nell’atmosfera eletta della sua sala da pranzo inglese. Giovanna dava l’assalto al suo ricolmo piatto di latta con genuina avidità. Sangree il Canadese masticava e rosicchiava davanti al suo, ridendo e parlando e complimentando il cuoco per tutta la durata della cena, e facendomi pensare con segreto diletto a un animale affamato al suo primo pasto. Dalle loro osservazioni nei miei riguardi, giudicavo di essermi cambiato e inselvatichito quanto loro.

In questo e in tanti altri piccoli particolari si manifestava il cambiamento, particolari difficili a definirsi minutamente, ma a dimostrazione, non già dell’effetto corroborante della vita primitiva, bensì dei metodi più spontanei e scevri di vernice, che venivano a prevalere nella nuova società. Per tutto il giorno ci trovavamo immersi negli elementi: vento, acqua, sole, e man mano che il corpo diventava insensibile al freddo e ci sbarazzavamo degli indumenti superflui, la mente diventava diritta e franca e rinunciava istintivamente alle molte finzioni richieste dalle convenzioni della civiltà.

In ciascuno, in conformità al temperamento e al carattere, si agitavano gli istinti di vita che erano naturali, indomiti, e in certo senso, selvaggi.

III

Avvenne così che mi fermai con la nostra comitiva insulare, procrastinando di giorno in giorno il mio secondo giro d’esplorazione, e ritengo che questo istinto segreto di sorvegliare Sangree fosse il motivo reale della mia dilazione.

Per un’altra diecina di giorni la vita del campeggio continuò nella sua solita via piana e dilettevole, benedetta da un tempo estivo magnifico, da buona pesca, da venti propizi alla navigazione a vela, e da calme notti stellate. L’egoistica preghiera di Maloney era stata favorevolmente accolta. Nulla accadde che potesse disturbare o rendere perplessi. Non c’era nemmeno l’inconveniente degli animali notturni a molestare il riposo della signora Maloney, giacchè in campeggi precedenti era stata spesso una sua particolare calamità il sentire i ricci graffiare contro la tela, o gli scoiattoli gettare coni d’abete di mattina, a buon’ora, sul tetto della sua tenda, col fracasso d’un tuono in miniatura. Sull’isola non c’era un solo scoiattolo e neppure un topo!

Credo che un paio di rospi e una biscia innocua fossero le uniche creature viventi che si fossero scoperte durante le prime due settimane. E quei due rospi, con tutta probabilità, non erano due, ma uno solo.

Poi, tutto ad un tratto, venne il terrore, che cambiò tutto l’aspetto del luogo… il terrore devastatore!

Arrivò, dapprima, senza farsi sentire troppo, ma sin da principio mi fece comprendere la spiacevole situazione della nostra solitudine, il nostro remoto isolamento tra mare e roccia, e come le isole dell’oceano Baltico ci circondassero formando l’avanguardia di un vasto esercito d’occupazione. La sua entrata, infatti, fu tale da non farsi sentire troppo alla maggior parte di noi. Fu anzi singolare nella sua mancanza di drammaticità. Ma, nella vita reale è questo spesso il modo con cui gli eventi paurosi, crescendo, ci si avvicinano, lasciando l’animo indisturbato quasi sino all’ultimo minuto, e poi sopraffacendolo con improvviso impeto d’orrore. Era nostra abitudine, alla prima colazione del mattino, di ascoltare pazientemente che ciascuno a turno raccontasse le curiose avventure della notte: come avevano dormito, se il vento aveva scosso le tende, se la banderuola sul palo del crinale si era mossa, se avevano udito i rospi, e così via. E Giovanna, nel bel mezzo di una breve pausa, annunciò una cosa del tutto nuova:

«Stanotte ho udito l’ululato di un cane», disse. Poi arrossì sino alle radici dei capelli, quando scoppiammo in una risata. L’idea che vi fosse un cane su quell’isola abbandonata che non era capace che di albergare una biscia e due rospi era davvero addirittura ridicola. Ricordo che Maloney, intento a mescolare la minestra, fece subito eco all’annuncio, naturalmente per ischerzo, dichiarando di aver udito la «tortora baltica» nella laguna, e buffa assai fu l’espressione di frenetico allarme di sua moglie, prima che il riso non la disingannasse.

Ma la mattina dopo Giovanna ripetè la storia con dettagli precisi e convincenti.

«Dei suoni come dei guaiti e dei brontolii mi hanno svegliata», disse, «e ho inteso distintamente fiutare sotto la mia tenda, e un graffare di zampe.»

«Oh, Timoteo! Può forse essere un riccio?» esclamò la «fata della dispensa» con afflizione, dimenticando che la Svezia non è il Canadà.

Ma la voce della ragazza mi aveva colpito per la sua inflessione del tutto diversa, e alzando lo sguardo vidi che suo padre e Sangree la fissavano. Essi pure intuivano che parlava sul serio, ed erano colpiti dalla nota decisa, nella sua voce.

«Storie, Giovanna! Sogni sempre di questo o di quest’altro, senza freno!», disse suo padre un po’ impazientito.

«Non c’è un solo animale, di qualsiasi specie, su tutta l’isola», soggiunse Sangree con espressione confusa.

Non toglieva mai i suoi occhi dalla faccia di lei.

«Ma non c’è nulla che impedisca la traversata a nuoto», interloquii, subito, poichè una sensazione di disagio, tutt’altro che passeggera, si era inserita nella conversazione e nelle pause. «Un daino, per esempio, può facilmente approdare di notte e gettare uno sguardo intorno…».

«Oppure un orso!» ansimò la «fata della dispensa», con uno sguardo talmente spaventato che tutti dovemmo ridere.

Ma Giovanna non rise. Saltò in piedi e ci chiamò, perchè la seguissimo.

«Ecco!», disse, additando il terreno vicino alla sua tenda, dal lato più distante da quella della madre. «Ecco le tracce, vicinissime al mio capo. Potete vedere voi stessi».

Guardammo, naturalmente. I muschi e i licheni, poichè di terra ce n’era ben poca, erano stati arruffati da zampe. Doveva essere stato un animale della grandezza circa di un grosso cane, a giudicare dalle tracce. Stavamo là, in fila, a guardare.

«Vicinissimo al mio capo!», ripetè la ragazza, guardandoci. Il suo volto, notai, era pallidissimo. Le sue labbra sembrarono tremare per qualche istante. Poi, diede in un improvviso singhiozzo… e scoppiò in un torrente di lacrime.

Tutto ciò era avvenuto nel breve spazio di pochi minuti, e, per di più, con un curioso senso di fatalità inevitabile, come se tutto fosse stato scrupolosamente combinato dal principio e nulla avesse potuto fermarne il corso. Tutto era quasi recitato secondo un programma… era effettivamente avvenuto secondo un ordine logico, come talvolta una strana sensazione lo fa prevedere; sembrava la battuta iniziale di un qualche intreccio drammatico, di cui conoscessi esattamente il seguito. Incombeva su di noi qualche grave avvenimento…

Quella sensazione sinistra, di un disastro imminente, si fece sentire fin da principio, e un’atmosfera di tristezza e di spavento pervase tutto il campeggio, da quel momento in poi.

Tirai Sangree da una parte e facemmo qualche passo, mentre Maloney conduceva la ragazza afflitta nella tenda di lei, e sua moglie li seguì, energica e agitatissima.

Fu così che, in maniera tutt’altro che drammatica, il terrore di cui ho parlato, tentò dapprima l’invasione del nostro campeggio. Per quanto sembrasse banale e privo d’importanza, ogni piccolo particolare di quella scena iniziale è rimasto fotografato nella mia mente con spietata accuratezza e precisione. Avvenne esattamente secondo la previsione. Era realmente come una profezia. La vedo scritta davanti a me, in nero su bianco. Vedo pure le facce di tutti gli interessati con l’improvvisa impronta di allarme, dove prima c’era la pace. Il terrore aveva insinuato, per così dire, un primo tentacolo nella nostra direzione ed aveva toccato i cuori di ciascuno con un orrido attacco frontale. Da quel momento, il campeggio cambiò!

Sangree particolarmente, era visibilmente allarmato. Non poteva sopportare di vedere la ragazza afflitta, e udirla piangere era quanto di peggiore potesse sopportare. La sua convinzione, che egli non aveva nessun diritto di proteggerla, lo feriva acutamente. Potevo vedere tutta la sua ansia di porgerle aiuto, e sentivo per questo della simpatia per lui. La sua espressione diceva chiaramente che avrebbe ridotto in mille pezzi qualunque cosa avesse osato torcerle un capello.

Accendemmo le nostre pipe e passeggiammo in silenzio verso il reparto degli uomini. Fu una sua strana dichiarazione che richiamò la mia attenzione su una nuova scoperta.

«Quel mostro è stato a graffiare anche intorno alla mia tenda!», esclamò, mentre additava delle tracce analoghe presso la porta e io mi chinavo a esaminarle. Entrambi guardammo confusi per alcuni minuti, senza proferire parola.

«Soltanto che io dormo come se fossi morto», soggiunse, raddrizzandosi, «e così non ho inteso nulla, credo».

Rintracciammo la pista delle zampe dalla porta della sua tenda in una linea retta, di traverso, in direzione di quella della ragazza, mentre in nessun altro punto, intorno al campeggio, vi era alcun segno dello strano visitatore. Il daino, o il cane, o checchè fosse ad averci favoriti due volte di una visita notturna, doveva aver concentrato le sue attenzioni su quelle due tende. Dopo tutto, non c’era effettivamente nulla di strano, in quelle visite di un animale sconosciuto, poichè, sebbene la nostra isola fosse priva di vita, ci trovavamo nel cuore della foresta, e il continente e le isole maggiori dovevano pullulare di ogni specie di quadrupedi, e non si rendeva certo necessario un nuoto prolungato, per raggiungerci. In ogni altra regione, ciò non avrebbe suscitato alcuna preoccupazione, neanche per un momento, vale a dire alcuna preoccupazione degna di nota. Nei nostri campeggi canadesi gli orsi borbottavano sempre, di notte, intorno al bagaglio delle nostre provviste, i ricci vi graffiavano sopra senza posa ed anche le donnole vi scorrazzavano sopra, dappertutto.

«Mia figlia è molto stanca, ecco la verità!», spiegò Maloney quando ci raggiunse, dopo aver esaminato a sua volta le altre tracce delle zampe.

«Si è fatta in quattro, ultimamente, e la vita di campeggio, come sapete, significa sempre un grande eccitamento per lei. È abbastanza naturale! Se teniamo conto di questo, non dobbiamo preoccuparcene».

Fece una pausa per chiedermi il sacchetto del tabacco e riempire la sua pipa, ma il modo trascurato con cui la riempì e versò la preziosa foglia sul terreno, smentì visibilmente la calma del suo linguaggio. «Potreste portarla un po’ via con voi, alla pesca, Hubbard, da bravo ragazzo! Difficilmente va in barca, durante la giornata. Mostratele qualcuna delle altre isole col vostro canotto. Eh?».

All’ora della merenda, la nuvola se n’era andata nello stesso modo subdolo e repentino nel quale era venuta.

Ma nel canotto, avviati verso casa, dopo aver di proposito trascurato l’argomento che più ci stava a cuore, la ragazza me ne parlò ad un tratto nuovamente, in un modo che ancora una volta toccò la nota di sinistro allarme… la nota che continuò poi a risuonare di continuo, finchè alla fine arrivò il <Dr. Silence, con la sua presenza forte e vibrante, a farla cessare. Ma anche dopo la sua venuta, quella nota risuonò, ancora per poco.

«Mi vergogno di chiedervelo», disse improvvisamente, mentre mi guidava a casa, con le maniche rimboccate e la chioma svolazzante al vento, «e mi vergogno pure delle mie sciocche lacrime, poichè realmente non so capire cosa le abbia provocate. Ma, Signor Hubbard, vi prego di promettermi di non partire per le vostre lunghe spedizioni… proprio ora. Ve ne prego!». Era talmente seria, che dimenticò il canotto, e il vento lo prese di fianco e ci fece rollare pericolosamente. «Mi sono fatto forza per non chiedervi questo», soggiunse, riportando il canotto in linea, «ma davvero non so come fare, da sola».

Era molto chiedermi questo, e suppongo che la mia esitazione fosse palese; poichè essa continuò, prima che potessi rispondere, e la sua espressione supplichevole e l’intensità del gesto m’impressionarono fortemente.

«Per altre due settimane soltanto…».

«Il signor Sangree parte fra una quindicina di giorni», dissi, indovinando subito a che cosa volesse alludere, ma chiedendomi nello stesso tempo se dovevo incoraggiarla o meno.

«Se sapessi che rimarrete sull’isola fino ad allora», essa disse, con la faccia ora pallida ora rossa, e con la voce un po’ tremante, «mi sentirei tanto più lieta…».

La guardai fissa, aspettando che finisse.

«…E più al sicuro», soggiunse quasi in un bisbiglio; «specialmente… di notte, voglio dire».

«Più al sicuro, Giovanna?» ripetei pensando di non aver mai visto i suoi occhi così teneri e dolci. Essa fece segno di sì col capo, tenendo lo sguardo fisso sulla mia faccia.

Era davvero difficile rifiutare, per quanto contrari fossero i miei pensieri e i miei giudizi. Compresi in qualche modo che parlava per buone ragioni, benchè, a dire il vero, non avrei saputo spiegare la cosa in modo preciso.

«Più lieta… e più al sicuro», essa ripetè in tono grave, mentre il canotto rollava pericolosamente, ed essa si sporgeva in avanti sul suo sedile per attendere la mia risposta. Forse, dopo tutto, la via più saggia da seguire era quella di aderire alla sua richiesta, calmando e alleviando la sua ansia, senza discuterne troppo la causa.

«Sta bene, Giovanna, strana creatura, lo prometto!», e l’istantaneo sguardo di sollievo nel suo volto, e il sorriso che ritornò come la luce del sole nei suoi occhi, mi fecero sentire che ero capace, malgrado tutto, di un sacrificio non indifferente.

«Ma, vedete, non c’è nulla da temere», soggiunsi irrigidendomi; ed essa levò lo sguardo alla mia faccia col sorriso usato dalle donne quando sanno che parliamo tanto per parlare, ma non vogliono dircelo.

«Voi non temete, lo so», osservò tranquillamente.

«Naturalmente! E perchè dovrei temere?».

«Così, se vorrete soltanto compiacermi questa sola volta, io… io non vi chiederò mai più qualcosa di tanto peso finchè vivrò», disse, riconoscente.

«Avete la mia promessa», era tutto quanto potevo dire.

Orientò allora la prua della barca verso la laguna che si trovava a un chilometro di distanza, e remò rapidamente. Ma due minuti dopo si arrestò nuovamente e mi guardò fissa col remo gocciolante alzato.

«Non avete udita nulla stanotte, voi?», domandò.

«Non sento mai nulla di notte!», risposi brevemente. «Dal momento che mi corico sino al momento in cui mi alzo».

«Quell’orrendo ululato, per esempio», essa continuò, determinata finalmente a giungere ad una spiegazione, «prima da lontano e poi più davvicino, e che poi si fermava proprio fuori del campeggio?».

«Certo che no!».

«Perchè, certe volte, credo di averlo quasi sognato».

«Nulla di più probabile!», fu la mia risposta, alquanto seccata.

«E non pensate, allora, che mio padre possa averlo udito?».

«No! Altrimenti me lo avrebbe detto».

Ciò sembrò sollevarle un po’ l’animo. «So che mia madre non l’ha udito», soggiunse, come parlando con se stessa, «poichè non sente mai nulla…».

Erano trascorse due notti da questo colloquio, quando una notte mi destai da un sonno profondo e udii gridare. La voce era veramente orribile, e rompeva la pace e il silenzio con alte grida. In meno di dieci secondi ero vestito a metà e mi lanciavo fuori dalla mia tenda. Le grida si erano arrestate all’improvviso, ma sapevo la direzione approssimativa dalla quale provenivano, e corsi, con la velocità che il buio mi permetteva, in direzione del reparto delle donne. Nell’avvicinarmi, udii un pianto soffocato. Era la voce di Giovanna. Proprio nel sopraggiungere, vidi la Signora Maloney, destatasi malgrado tutto, che veniva tastoni con una lanterna. Altre voci si fecero udire nello stesso momento dietro di me, e Timoteo Maloney arrivò, senza fiato, vestito neanche a metà, e recando un’altra lanterna che si era spenta per via, per aver battuto contro un albero. L’alba stava per spuntare in quel momento, e un freddo vento soffiava dal mare. Pesanti nuvole nere passavano lente nel cielo.

La scena di confusione potrà essere meglio immaginata che descritta. Domande dalle voci spaventate riempivano l’aria su quello sfondo di pianto soffocato. Insomma, la tenda di seta di Giovanna era stata lacerata, e la ragazza si trovava in uno stato confinante con l’isterismo. Un po’ rassicurata tuttavia dalla nostra rumorosa presenza, poichè era, dopo tutto, di animo coraggioso, si riprese e tentò spiegare che cosa era successo. Le sue parole tronche, pronunciate là, fra notte e giorno, su quel selvaggio crinale dell’isola, erano stranamente raccapriccianti e fatalmente convincenti.

«Qualche cosa mi ha toccato e mi sono destata», disse semplicemente, ma con voce ancora sommessa e tremante dal terrore, «qualche cosa che si era spinto contro la tenda… l’ho sentito attraverso la tela. C’è stato lo stesso fiutare e graffiare dell’altra notte, e ho sentito la tenda cedere un poco come quando è scossa dal vento. Ho udito un fiato… molto rumoroso, un respiro molto pesante… e poi è venuto un gran colpo improvviso, lacerante, e la tela si è squarciata, proprio vicino alla mia faccia».

Essa si era sull’istante precipitata fuori dal lembo aperto e aveva gridato con tutte le sue forze, credendo che l’animale fosse realmente entrato nella tenda. Ma nulla si era presentato alla vista, essa dichiarò, nè aveva udito il minimo rumore di un animale che fuggisse protetto dalle tenebre. Il breve racconto sembrava esercitare un effetto paralizzante su tutti noi, mentre l’ascoltavamo. Mi pare ancora di vedere il gruppo scapigliato di quel giorno, il vento che arruffava le chiome delle donne, e Maloney che sporgeva la testa in avanti, in ascolto, mentre sua moglie, ansimante a bocca aperta, se ne stava appoggiata contro un pino.

«Venite allo steccato e accenderemo il fuoco!» dissi. «Questa è la prima cosa!», poichè stavamo tutti tremando dal freddo, nei nostri indumenti succinti. In quel momento sopraggiunse Sangree avvolto in una coperta col suo fucile in mano. Era ancora tutto assonnato.

«Di nuovo il cane!», spiegò brevemente Maloney, prevenendo la sua domanda. «È stato nella tenda di Giovanna. L’ha lacerata, per Dio, stavolta! È tempo di fare qualche cosa». E continuò a borbottare confusamente con se stesso.

Sangree afferrò il fucile e si guardò rapidamente in giro nel buio. Vidi che i suoi occhi fiammeggiavano al bagliore delle lanterne tremolanti. Fece un movimento, come per balzare all’attacco… e uccidere. Poi il suo sguardo cadde sulla ragazza accovacciata sul terreno, col volto nascosto nelle mani, e allora si manifestò sui suoi lineamenti un’espressione di rabbia furiosa che li trasformò. In quel momento avrebbe potuto affrontare una dozzina di leoni con un bastone da passeggio, e di nuovo lo presi in simpatia per la violenza della sua rabbia, la sua padronanza di sè, e la sua devozione senza speranza.

Ma lo fermai nel suo slancio verso una caccia alla cieca e inutile.

«Venite e aiutatemi ad accendere il fuoco, Sangree!», dissi, ansioso anche di sollevare la ragazza dalla sua presenza. Pochi minuti dopo, le ceneri ancora incandescenti del fuoco notturno avevano attaccato il legno fresco, e ne sortì una fiammata che ci riscaldò gradevolmente, illuminando gli alberi circostanti entro un raggio di venti metri.

«Non ho udito nulla», egli sussurrò; «che cosa mai credete che sia? Di certo non può essere soltanto un cane!».

«Ne verremo a capo più tardi», dissi, mentre gli altri ci raggiungevano attorno al gradevole focolare; «la prima cosa è di fare un fuoco, un falò quanto più nutrito possibile».

Giovanna era ora più calma, e sua madre aveva indossato un vestito più caldo, e meno eccentrico. Mentre si stava parlando a bassa voce, io e Maloney ce ne andammo alla chetichella per esaminare la tenda. C’era ben poco da vedere, ma quel poco non lasciava dubbio. Qualche animale aveva sconvolto il terriccio a capo della tenda, e con un gran colpo d’una potente zampa, zampa evidentemente munita di buoni artigli, aveva intaccato e squarciato la seta. C’era un buco abbastanza grande per farvi passare un pugno e un braccio.

«Non può essere lontano da qui», disse Maloney eccitato. «Organizzeremo subito una battuta. Sull’istante!».

Ci affrettammo di ritorno verso il fuoco, mentre Maloney parlava rumorosamente della sua progettata battuta. «Non c’è che un’azione pronta, per dissipare l’allarme», mi sussurrò nell’orecchio. Poi si rivolse a tutti.

«Faremo una battuta sull’isola, da un’estremità all’altra, subito!», disse eccitato. «Ecco ciò che faremo! L’animale non può trovarsi lontano di qui. E la «fata della dispensa» e Giovanna devono venire anche loro, poichè non si può lasciarle sole. Hubbara, prendete la costa a destra, e voi, Sangree, quella a sinistra, io camminerò nel mezzo con le donne. In questo modo possiamo pacificamente attraversare il crinale e nulla che superi la grandezza d’un coniglio potrà sfuggirci». Mi sembrava oltremodo eccitato. Qualunque cosa affliggesse Giovanna, per forza di cose lo agitava enormemente. «Andate a prendere i vostri fucili e inizieremo subito la battuta!», gridò. Accese un’altra lanterna, ne diede una a sua moglie e l’altra a Giovanna, e mentre correvo a provvedermi del mio fucile, lo udii canticchiare fra sè e sè, malgrado tutto quel trambusto.

Nel frattempo, l’alba era spuntata rapidamente, e le nostre lanterne tremolanti apparivano scialbe in quella luce. Anche il vento stava levandosi e sentivo gli alberi gemere sopra la testa e le onde infrangersi sempre più rumorose sulla costa. Nella laguna, la barca dondolava. Le scintille del fuoco venivano trasportate in alto dall’aria e si sparpagliavano in lungo e in largo.

Ci avviammo ad una estremità dell’isola, misurammo accuratamente le nostre distanze, e cominciammo poi ad avanzare. Nessuno di noi parlava. Io e Sangree, coi fucili a cane alzato, sorvegliavamo le linee della costa, mantenendoci tutti a comodo contatto e a richiamo di voce. Fu una battuta lenta e balorda, e vi furono parecchi falsi allarmi, ma dopo quasi una mezz’ora ci trovammo all’estremità più lontana, dopo aver fatto il giro completo, senza scovare neanche uno scoiattolo. Certamente non c’era creatura vivente su quell’isola all’infuori di noi.

«Io so che cos’è!» gridò Maloney, lanciando lo sguardo sulla cupa distesa del mare grigio, e parlando con l’aria d’un uomo sul punto di fare una scoperta; «è un cane proveniente da una delle fattorie situate sulle isole maggiori». E additò verso il mare dove l’arcipelago s’ingrossava. «È scappato ed è ritornato selvaggio. I nostri fuochi e le nostre voci lo hanno attirato, ed è probabilmente mezzo stecchito dalla fame in qualche buco, povera bestia!».

Nessuno di noi parlò, ed egli ricominciò a canticchiare molto sommesso tra sè.

Il punto su cui stavano dava sui canali più ampi che conducevano al mare aperto e alla Finlandia. L’alba grigia era infine spuntata interamente e potevamo vedere le onde rincorrersi con furiose creste bianche. Le isole circostanti si presentavano come masse oscure in lontananza, verso oriente, e mentre Maloney parlava, il sole si levò d’un tratto in un cielo tempestoso, di un magnifico rosso oro. Contro quello sfondo sfarzosamente chiazzato, alcune nuvole nere, dalla forma di animali fantastici e leggendari, sfilavano portate dal vento, e ancora oggi non ho che da chiudere gli occhi per rivedere quella vivace e rapidissima processione nell’aria. Tutt’intorno a noi, i pini formavano delle macchie nere contro il cielo.

Il sole si levò, quasi rabbioso. La pioggia aveva nel frattempo cominciato a cadere, a grosse gocce.

Ci volgemmo, come per istinto generale, e senza dir parola, rifacemmo lentamente la nostra via verso lo steccato. Maloney canticchiava una sua litania, Sangree procedeva in testa col fucile, pronto a sparare al minimo richiamo, e le donne seguivano, al mio fianco, con le lanterne spente.

Eppure era soltanto un cane!

In realtà era singolarissimo se si poneva mente a tutto ciò! Gli eventi, dicono gli occultisti, hanno un’anima, o per lo meno una vita generica dovuta alle emozioni e ai pensieri di tutti gli interessati, cosicchè le città, e perfino delle regioni intere, presentano grandi forme astrali che possono rendesi visibili agli occhi del chiaroveggente.

Lo «spirito» di quella passeggiata, quella passeggiata vana, insensata e inutile, si trovava certamente in qualche luogo, fra di noi, e… rideva.

Noi tutti udimmo, nella nostra mente quella risata, e ci sforzammo molto di soffocarne il suono, o per lo meno di ignorarlo. Ognuno parlò improvvisamente, ad alta voce, con una decisione esagerata, evidentemente cercando di dire qualche cosa di plausibile contro quella grave calamità, sforzandosi a spiegare in modo naturale che un animale poteva tanto facilmente nascondersi alla nostra percezione, o allontanarsi a nuoto prima che avessimo trovato il tempo di far luce sulla sua pista. Poichè tutti parlavamo, infatti, di quella «pista» come se realmente esistesse, e che dovessimo senz’altro rintracciarla, oltre ai soli segni di zampe lasciati intorno alle tende di Giovanna e del canadese. Se non vi fossero state quelle traccie, e la tenda lacerata, credo che non avremmo mai creduto all’esistenza di quell’animale.

Fu là, sotto quell’alba triste e cupa, mentre ci trovavamo nel capanno al riparo della pioggia, stanchi eppure stranamente eccitati, fu là fra quella confusione di voci e di spiegazioni, che, in modo affatto furtivo, lo spettro di qualche cosa di orribile s’introdusse e rimase fra noi. Fece apparire puerili e inesatte tutte le nostre spiegazioni; ogni possibile dimostrazione si trovò allo istante compromessa. Gli occhi si scambiarono rapidi sguardi ansiosi, interrogativi, spaventati. C’era fra noi un senso di stupore, di acuta angoscia, di trepidazione. L’allarme stava in agguato, alle nostre spalle. Rabbrividimmo.

Allora, all’improvviso, mentre ci guardavamo in faccia l’un l’altro, subentrò la lunga, sgradita paura con la quale quella nuova impressione s’insinuò nelle nostre menti.

Senza fare altre parole, o tentativi di spiegazione, Maloney, si staccò ad un tratto per rimestare la minestra per una colazione anzi tempo; Sangree per pulire i pesci; io per tagliuzzare la legna e attendere al fuoco; Giovanna e sua madre per cambiare i loro indumenti bagnati e, cosa questa più significativa di tutte, per adattare la tenda della madre ad accoglierle ambedue.

Ciascuno si dedicò al proprio lavoro, ma in modo frettoloso, grave, silenzioso; e quella nuova impressione, quella sagoma di terrore e di ossessione incedeva, invisibile, a fianco di ognuno.

«Se avessi almeno potuto rintracciare il cane!», era, ritengo, il pensiero che correva nella mente di tutti.

Ma nel campeggio, in cui ciascuno si accorge quanto è importante il contributo del singolo per la comodità e il benessere di tutti, la mente presto ricupera le proprie forze e il proprio equilibrio.

Per tutta la giornata, una giornata di pioggia dirotta e incessante, rimanemmo più o meno sotto le nostre tende, e benchè vi fossero segni di misteriosi colloqui fra i tre membri della famiglia Maloney, credo che la maggior parte di noi dormisse un bel po’ e si trovasse solo coi propri pensieri. Certamente feci così anch’io, poichè, quando Maloney venne a dire che sua moglie c’invitava tutti a un «tè» speciale nella sua tenda, dovette scuotermi per destarmi prima che mi accorgessi della sua presenza.

All’ora del pasto eravamo di nuovo più o meno equilibrati, e quasi allegri. Notai tuttavia l’esistenza di una specie di corrente sotterranea che si sarebbe potuto benissimo qualificare come «sussultoria», dato che il più insignificante scatto d’una frasca, o il tonfo d’un pesce nella laguna, bastava per farci trasalire e guardarci alle spalle. Le pause si facevano rare nelle nostre conversazioni, e il fuoco non era lasciato affievolire un istante. Il vento e la pioggia avevano cessato, ma il gocciolamento delle frasche costituiva una bella imitazione dello stillicidio delle grotte. Maloney, in particolare, era vigile e vivace, raccontandoci una serie di storielle in cui predominava l’elemento sanamente faceto. Si attardò ancora con me, dopo che Sangree se ne fu andato a letto, e, mentre mi mettevo a mescere un bicchiere di ponce svedese, fece una cosa che non lo avevo mai visto nè sentito fare prima. Si mise a mescerne un bicchiere anche per se stesso e mi chiese poi di fargli luce, sino alla sua tenda. Non dicemmo nulla per via, ma sentivo che era contento della mia compagnia.

Ritornai solo al capanno, e per lungo tempo, dopo aver riattizzato il fuoco, vi rimasi seduto, fumando e riflettendo. Non ne so precisamente il perchè; ma il sonno era lontano da me per varie ragioni, e un’idea cominciò a prender forma nella mia mente, un’idea che richiedeva il conforto del tabacco e un fuoco luminoso per il suo sviluppo. Giacevo contro un angolo del sedile, ascoltando il fruscìo del vento e l’incessante stillicidio degli alberi. La notte, del resto, era molto tranquilla, e il mare calmo come un lago. Ricordo di aver avuto la impressione, la precisa impressione della presenza di quella folla di isole desolate, pigiate intorno a noi, nell’oscurità, l’impressione che eravamo il solo piccolo palpito di umanità in quella strana solitudine.

Ma questo, credo, era l’unico sintomo che venisse a mettermi in guardia contro i nervi troppo tesi, e certamente non era abbastanza allarmante da distruggere la pace del mio animo. Una cosa però sopravvenne a disturbare quella pace, poichè, proprio nel momento in cui finalmente stavo per andarmene, e avevo spinto coi piedi i tizzoni per cavarne un’ultima vampata, mi parve vedere, guardandomi intorno verso l’estremità più lontana della parete del capanno, una massa scura e folta che poteva essere, effettivamente, il corpo di un grosso animale. Due occhi di brage luccicavano per un istante nel mezzo di quella massa scura. Ma subito dopo mi avvidi ch’era soltanto una massa sporgente di muschio e licheni contro la parete del capanno, e gli occhi un paio di scintille vaganti staccatesi dalle ceneri morenti che avevo io stesso agitate. Era poi abbastanza facile immaginare di aver visto un animale muoversi qua e là fra gli alberi, mentre mi avviavo circospetto verso la mia tenda. Senz’altro, le ombre m’ingannavano, e l’immaginazione giocava dei brutti tiri.

Benchè fosse l’una passata, il lume di Maloney ardeva tuttora, poichè vidi la sua tenda biancheggiare fra i pini.

Fu tuttavia nel breve spazio fra veglia e sonno, in quel periodo di tempo in cui il corpo giace inerte e le voci della mente sommersa talvolta dicono il vero, che l’idea che durante tutto quel tempo stava maturando, raggiunse il punto di un’effettiva decisione, e mi accorsi di aver deliberato di mandare un rigo al <Dr. Silence. Poichè, con un’improvvisa sorpresa di essere stato fino ad allora tanto cieco, la convinzione tutt’altro che gradita era sorta ad un tratto in me che qualche cosa di terribile stava acquattato intorno a noi, su quell’isola, e che l’incolumità di almeno una persona fra noi era minacciata da qualche cosa di mostruoso e impuro, troppo orribile da pensare. Di nuovo, ricordando quelle ultime parole di lui, mentre il treno stava per lasciare la banchina della stazione, compresi che il <Dr. Silence sarebbe stato pronto a raggiungerei.

«A meno che non mandiate a chiamarmi prima», aveva detto….

Mi ritrovai improvvisamente del tutto sveglio. È impossibile dire cosa mi svegliasse, ma non fu un processo graduale. Mi trovai desto tutto d’un tratto. Evidentemente, avevo dormito per un’ora e più, poichè la notte si era rischiarata, le stelle si erano addensate nel cielo, e una pallida mezza luna, sul punto di immergersi nel mare, gettava una luce spettrale fra gli alberi.

Uscii per fiutare l’aria, e stetti ritto nella radura. Mi era venuta la curiosa impressione che qualche cosa non fosse in ordine nel campeggio, e quando lanciai un’occhiata verso la tenda di Sangree, distante circa venti piedi, vidi che si muoveva. Anch’egli, quindi, era desto e inquieto, poichè vidi i lati della tela gonfiarsi di qui e di là, mentre si muoveva di dentro. Poi il lembo della tenda si spinse in avanti. Stava per uscire, come me, per fiutare l’aria. Non fui sorpreso, poichè l’aroma, dopo la pioggia era frizzante e allettante. Uscì carponi, proprio come avevo fatto io. Vidi una testa sbucare e oltrepassare l’orlo della tenda.

E mi avvidi allora che non era affatto Sangree. Era un animale. E, nello stesso momento, mi resi conto di qualche cosa d’altro ancora… Era proprio quel determinato animale; e tutto il suo aspetto, per qualche, ragione inesplicabile, era inesprimibilmente malefico.

Un grido, che fui del tutto incapace di sopprimere mi sfuggì, e al mio grido l’animale si volse all’istante e mi fissò con occhi terrificanti. Avrei potuto cadere sul posto in cui mi trovavo, poichè tutta la forza abbandonò istantaneamente il mio corpo. Qualche cosa, in quell’aspetto, toccò in me la corda del più folle terrore, che afferra e paralizza. Se la mente non richiede che un decimo di secondo per formarsi un’impressione, debbo essere stato così, impalato, per parecchi secondi, mentre mi aggrappavo alle funi e guardavo. Molte vivide impressioni mi guizzarono attraverso la mente, ma nessuna che mi risolvesse all’azione, poichè per un istante temetti veramente che l’animale, ad ogni momento, sarebbe balzato nella mia direzione, e su di me. Invece, trascorso quanto mi sembrò un lungo intervallo, esso lentamente distolse gli occhi dal mio viso, emise un basso guaito, e uscì completamente all’aperto.

Allora, per la prima volta, lo vidi tutto intero e notai due cose: aveva, approssimativamente, le dimensioni di un grosso cane, ma, nello stesso tempo, era affatto diverso da qualsiasi animale che avessi mai visto. Inoltre, la qualità che mi aveva impressionato dapprima come malefica, derivava unicamente, in realtà, dalla sua singolare e originale stranezza. Per quanto possa sembrare pazzesco, e mi sia impossibile fornire delle prove, posso soltanto dire che l’animale mi sembrò allora… non reale.

Ma tutto ciò attraversò la mia mente come un lampo, quasi nel subcosciente, prima che trovassi il tempo di controllare le mie impressioni, e perfino di rendermene esattamente conto. Feci allora un movimento involontario, riafferrando e lasciando andare la fune tesa, in modo da farne uscire un suono acuto, come la corda di un bangio. In quello stesso istante l’animale girava l’angolo della tenda di Sangree e se ne andava nel buio.

Allora, naturalmente, i miei sensi, in qualche misura, mi ritornarono, e mi accorsi di una sola cosa: l’animale era stato nell’interno della tenda di lui!

Guizzai fuori, raggiunsi in pochi salti l’entrata della sua tenda, e guardai dentro. Il canadese, grazie a Dio! era sdraiato sul suo giaciglio di frasche. Il braccio era disteso in fuori, attraverso le coperte, col pugno teso e rattrappito. Il corpo aveva un’apparenza di rigidità insolita, allarmante. Sul suo volto vi era un’espressione di sforzo, quasi di sforzo penoso, per quanto la luce incerta mi permettesse di vedere, e il suo sonno sembrava molto profondo. Appariva, secondo me, più che rigido, di una rigidezza non più naturale. Per qualche ragione indefinibile, mi sembrava inoltre più piccolo… e come rattrappito.

Lo chiamai per destarlo, ma chiamai parecchie volte invano. Allora decisi di scuoterlo, e mi ero già mosso in avanti per scuoterlo vigorosamente, quando sopravvenne un rumore di passi attutiti e ovattati dietro di me, e sentii la corrente di un caldo respiro bruciarmi il collo, mentre stavo chino su di lui. Mi volsi rapidamente. Il lembo aperto della tenda era oscurato e qualche cosa vi era sgusciato dentro. Sentii un corpo ruvido e peloso spingersi in avanti, accanto a me, e compresi che l’animale era ritornato. Mi parve volesse balzare innanzi, fra me e Sangree… balzare addirittura su Sangree, poichè infatti, nel balzo, il suo corpo oscurò e nascose momentaneamente alla vista il corpo di lui. In quell’istante, la mia anima fu nuovamente invasa dalla nausea e dal terrore, da un orrore profondo che sorse dalle sorgenti stesse della vita. Un terrore e un orrore che attaccavano la mia esistenza nei suoi centri vitali.

L’animale sembrò in qualche modo fondersi in lui, quasi come se appartenesse a lui e fosse una parte di lui stesso. Ma nello stesso istante, un istante di straordinaria confusione e di profondo terrore nella mia mente, esso sembrò passare oltre e dietro di lui, in qualche modo del tutto inesplicabile, per sparire d’un tratto. Il canadese si svegliò in quel punto, e si mise a sedere di soprassalto.

«Presto! Pazzo che siete!» gridai, nella mia eccitazione. «Quell’animale è stato nella vostra tenda! Qui, al vostro collo, addirittura, mentre dormivate come un morto! Su, alzatevi! Prendete il vostro fucile! In questo stesso istante è scomparso qui, dietro il vostro capo. Presto! a Giovanna…».

Il fatto che egli si trovava là, completamente desto, per essermi d’appoggio, fece sorgere, in qualche modo, nella mia mente, la convinzione che non si trattasse di un animale, ma di una sconcertante e terribile forma di vita. Feci appello alle mie conoscenze più profonde, che molte letture avevano forse alimentate, ma che non si erano, sino ad allora, accostate alla portata effettiva di fenomeni di tale stranezza, che cadessero sotto il controllo dei miei sensi.

Sangree scattò in piedi in un lampo ed uscì. Tremava, ed era pallidissimo. Cercammo in fretta, febbrilmente, ma trovammo soltanto le tracce di zampe passanti dall’entrata della sua tenda, attraverso il muschio, verso le tende delle donne. La vista delle tracce intorno alla tenda della Signora Maloney, in cui dormiva Giovanna, lo fece andare su tutte le furie.

«Sapete che cos’è, Hubbard, quella bestia?» sibilò rivolto a me. «È un lupo dannato, ecco ciò che… un lupo sperduto tra le isole, e affamato da morire. Che Dio mi aiuti, credo sia proprio così!».

Proferì parecchie bestemmie, nella sua eccitazione. Dichiarò che avrebbe dormito di giorno, e si sarebbe posto in agguato ogni notte, finchè lo avesse ucciso. Di nuovo, la sua ira riscosse la mia ammirazione, ma me lo trascinai via, prima che facesse troppo chiasso per svegliare tutto il campeggio.

«Ho un piano migliore», dissi, osservando davvicino il suo viso, «Non credo che questa sia una cosa di cui noi ci possiamo occupare. Voglio chiamare qui l’unico uomo che ci possa recare aiuto. Andremo a Waxholm questa stessa mattina, e gli spediremo di là un telegramma».

Sangree mi fissò con una strana espressione, mentre l’ira gli si spegneva in volto e un nuovo aspetto di allarme vi si dipingeva.

«Il <Dr. Silence», dissi, «saprà…».

«Credete che sia qualche cosa… di quella specie?» balbettò.

«Ne sono certo!».

Vi fu una pausa, per un momento. «Questo è peggio, assai peggio di ogni cosa materiale e concreta», disse, impallidendo visibilmente. Guardò la mia faccia e poi il cielo, e aggiunse, con improvvisa risoluzione, «venite! Il vento sta per levarsi. Andiamocene subito! Di là potremo telefonare a Stoccolma, e far spedire un telegramma senza indugio!».

Lo mandai giù per approntare la barca, e mi valsi dell’occasione per correre a svegliare Maloney. Dormiva di un sonno assai leggero e saltò in piedi non appena misi la testa nella sua tenda. Gli dissi brevemente quello che avevo visto, ed egli mostrò tanto poca sorpresa che mi vidi ridotto a chiedermi, per la prima volta, se non avesse visto assai di più di quanto ritenesse saggio di comunicare agli altri, me compreso.

Acconsentì alla mia proposta senza esitare un momento, e ci mettemmo subito d’accordo di lasciar credere a sua moglie e a sua figlia che il grande studioso sarebbe venuto soltanto come un visitatore occasionale, senza alcun interesse professionale.

Così, con padella, provviste e coperte a bordo, io e Sangree facemmo vela fuori della laguna quindici minuti dopo, e puntammo con buona brezza su Waxholm, ai margini della civiltà.

IV

Benchè nulla di quanto faceva il <Dr. Silence mi cogliesse veramente di sorpresa, fu certamente inaspettato il fatto che trovai ad attendermi una sua lettera da Stoccolma. «Ho terminato i miei affari in Ungheria», scriveva, «e sono qui per una diecina di giorni. Non esitate a chiamarmi, se avete bisogno di me. Se telefonate in una mattina qualsiasi da Waxholm, posso prendere il vapore pomeridiano».

Gli anni trascorsi con lui erano pieni di «coincidenze» di questo genere, e benchè non cercasse mai di spiegarle, riferendosi a qualche sistema magico di comunicazione con la mia psiche, non ho mai dubitato che esistesse veramente qualche metodo telepatico, in base al quale egli veniva a conoscere le circostanze nelle quali mi trovavo e misurava il grado del mio bisogno. Che questo potere fosse indipendente dal tempo, nel senso che egli vedesse anche nel futuro, mi sembrava pure altrettanto evidente.

Sangree ne fu pure molto sollevato, e nel giro di un’ora dopo il tramonto, incontrammo quella sera stessa il <Dr. Silence, che arrivò col piccolo battello da cabotaggio. Al crepuscolo, lo conducemmo con noi al bivacco che avevamo predisposto su di un’isola vicina, col proposito di partire per il nostro campeggio, all’indomani.

«Ora», disse il dottore a cena consumata e mentre fumavamo intorno al fuoco, «raccontatemi la vostra storia». Ci guardava ora l’uno ora l’altro, sorridendo.

«Raccontatelo voi, Signor Hubbard», interruppe subito Sangree, e si scostò per lavare i piatti, tenendosi sempre, però, a portata d’orecchio. Mentre egli risciacquava e raschiava i piatti di latta con la sabbia e col muschio, la mia voce, senza essere mai interrotta dal dott. Silence, continuò per una buona mezz’ora con la migliore esposizione che potevo fornire sull’accaduto.

Il mio ascoltatore era seduto dall’altra parte del fuoco, con la faccia mezzo nascosta da un cappello a larghe falde. Levava talvolta lo sguardo in segno di domanda, quando un punto aveva bisogno di essere maggiormente lumeggiato, ma egli non proferì parola, finchè non fui alla fine. Il suo contegno, durante tutto il racconto, era stato grave e attento. Sopra il nostro capo, lo stormire del vento nei rami dei pini riempiva le pause. L’oscurità discendeva sul mare, e le stelle spuntavano a migliaia. Nel momento in cui terminai, anche la luna era sorta per inondare d’argento il paesaggio. Eppure, dal suo volto e dal suo sguardo compresi benissimo che il dottore non aveva ascoltato che quanto già si attendeva di sentire, anche se non era forse a conoscenza di tutti i particolari.

«Avete fatto bene a chiamarmi!…», disse a voce bassissima, con un’occhiata significativa per me, quando ebbe terminato; «Benissimo!…» e per un breve secondo i suoi occhi si fissarono su Sangree, «Non abbiamo a che fare che con un lupo mannaro… fenomeno abbastanza raro, grazie al cielo, ma talvolta molto funesto, talvolta terrificante».

Sussultai come se qualcuno mi avesse sparato addosso, ma il secondo dopo mi vergognai di cuore per aver perduto la padronanza di me. Questa breve osservazione, pur confermando i miei peggiori sospetti, mi convinceva infatti della gravità dell’avventura più di una lunga sequela di domande o spiegazioni. Sembrava restringere il cerchio intorno a noi, serrando, in qualche punto, una porta che ci rinchiuse con l’animale e con l’orrore che ispirava, girando poi la chiave nella toppa. Qualunque cosa fosse, doveva ora essere affrontata e adeguatamente trattata come meritava.

«Nessuno finora ne ha avuto danno concreto?» domandò ad alta voce, ma con tono positivo, da far sembrare reali le possibilità equivoche e minacciose che la sua domanda implicava.

«Grazie al cielo, no!» gridò il canadese, gettando a terra i suoi strofinacci e avanzando nel cerchio della luce del fuoco. «Ma quella povera bestia mezzo stecchita dalla fame, non può certamente far male a nessuno, nevvero?».

I capelli gli cadevano disordinati sulla fronte, e c’era un ardore nei suoi occhi che non era il solo riflesso del fuoco. Le sue parole mi fecero voltare di colpo. Ridemmo tutti, di una risatina breve e forzata.

«Spero di no, infatti», disse calmo il <Dr. Silence. «Ma cosa vi fa supporre che l’animale sia affamato?». Pronunciò quella domanda, fissando gli occhi dritti in faccia all’altro. La pronta domanda rivoltagli dal dottore mi spiegò perchè aveva sussultato, e attesi con un tremito di eccitazione la risposta.

Sangree esitò un momento, come se la domanda lo cogliesse di sorpresa. Ma sostenne senza scomporsene e col più completo candore l’occhiata scrutatrice che il dottore gli rivolse, al di là del fuoco.

«Realmente», balbettò, con una lieve scrollata di spalle, «mi riesce difficile spiegarlo. La frase mi è uscita di bocca mio malgrado. Ho sentito sin da principio che dev’essere un animale in pena e… affamato, benchè la ragione di questo non mi si è mai affacciata alla mente, finchè non me l’avete chiesta».

«Ne sapete allora ben poco!» disse l’altro, con improvvisa gentilezza nella voce.

«Già, non più di questo», rispose Sangree, guardandolo con un’espressione imbarazzata che era inconfondibilmente schietta. «O per essere più esatto, non ne so assolutamente nulla», soggiunse, cercando di spiegarsi meglio.

«Ne sono contento», sentii il dottore mormorare sottovoce, tanto sottovoce, che appena ne udii le parole, e Sangree non le udì affatto, come evidentemente era nella sua intenzione.

«E ora», esclamò, levandosi in piedi scrollandosi con un gesto caratteristico, come per scuotere da sè l’orrore e il mistero, «lasciamo il problema in sospeso sino a domani e godiamoci questa brezza, questo mare e queste stelle. In questi ultimi tempi ho vissuto nell’atmosfera di molta gente, e sento il bisogno di lavarmi e pulirmi. Propongo una nuotata, e poi, a letto! Chi accetta?». Due miniti dopo stavamo tutti tuffandoci dalla barca nell’acqua fredda e profonda, che riverberava un migliaio di lune mentre le onde si moltiplicavano intorno a noi in innumerevoli increspature.

Dormimmo avvolti nelle coperte, sotto il cielo aperto, io e Sangree occupando i punti esterni, e ci trovammo in piedi prima dell’alba per approfittare del vento. Aiutati da quella partenza tempestiva, ci trovammo a mezzogiorno a mezza strada dal nostro campeggio. Poi il vento cambiò di alcuni gradi dietro di noi e potemmo filare più veloci. Dentro e fuori, fra un migliaio di isole, entro stretti canali in cui perdevamo il vento, fuori negli spazi aperti dove dovevamo superare gli scogli, navigando sotto un cielo caldo e terso, volammo letteralmente, attraverso quel paesaggio incantevole e sperduto.

«Che selvaggia solitudine!», esclamò il <Dr. Silence dal suo sedile a prua, dove teneva il fiocco. Era a capo scoperto, i capelli gli svolazzavano al vento, e il volto scarno e abbronzato gli dava l’aspetto d’un orientale. Poi cambiò posto con Sangree, e venne verso di me, alla barra del timone, per parlarmi.

«Una regione meravigliosa, tutto questo mondo di isole!», disse, agitando la mano verso lo scenario che ci sfilava davanti. «Ma non vi colpisce, che ci sia qualche cosa che manca?».

«È… difficile dirlo», risposi, dopo un momento di riflessione. «Presenta una bellezza superficiale, brillante, ma senza…». Esitai a trovare la parola che mi mancava.

Il <Dr. Silence accennò col capo, in segno di approvazione.

«Esattamente!», disse. «La qualità pittoresca d’uno scenario da teatro, che non è reale, non è viva! È come un paesaggio dipinto da un abile artista, ma senza vera immaginazione. Senz’anima… Ecco la parola che vi mancava!».

«Qualche cosa di questo genere», risposi, osservando le raffiche di vento nelle vele. «Non è tanto la morte, quanto la mancanza di anima. Ecco!».

«Naturalmente!», continuò, con voce studiata, in tono basso, mi parve, perchè il nostro compagno a prua non udisse, «il vivere a lungo in un luogo come questo… a lungo e da solo… può produrre uno strano effetto in alcuni uomini».

Constatai subito che parlava con un determinato scopo e aguzzai le orecchie.

«Non c’è vita qui! Queste isole sono solo delle rocce morte, sollevate dal fondo del mare… non è roccia viva, non è terra vivente; nè vi respira sopra alcunchè di veramente vivo. Perfino questo mare, privo del giuoco delle maree, nè salmastro nè dolce, è morto. È tutto una bella immagine di vita senza un vero cuore e un’anima di vita. Ad un uomo con desideri troppo forti, che da un momento all’altro sia venuto a trovarsi trasferito qui, ed a vivere a stretto contatto della natura, possono accadere strane cose».

«Alleggerite un po’» gridai verso Sangree, che stava per venire verso poppa. «Il vento manda raffiche impreviste e non abbiamo stivato zavorra sufficiente».

Egli ritornò a prua, e il <Dr. Silence continuò:

«Credo che qui, un soggiorno prolungato porterebbe a un deterioramento, a una degenerazione. Il luogo non è addolcito da influenze umane, da nessuna vita in comune, umanizzante, della storia, buona o cattiva che sia. Questo paesaggio non s’è mai destato alla vita. È tuttora immerso nei sogni del suo sonno primordiale».

«Col tempo», interloquii, «credete che un uomo vivente da queste parti possa ridiventare un bruto?».

«Le passioni potrebbero scatenarsi, l’egoismo predominare, gli istinti abbrutirsi e ridiventare selvaggi, probabilmente».

«Ma…».

«In altri luoghi altrettanto selvaggi, in determinate parti d’Italia per esempio, dove vi sono altre influenze moderatrici, questo non potrebbe succedere. Il carattere potrebbe sì diventare selvaggio, ed anche violento in un certo senso, ma sarebbe un inselvatichimento pur sempre umano, col quale si potrebbe sempre trattare e intendersi. Ma qui, in un luogo rude e grezzo, come questo, la cosa deve, inevitabilmente, presentarsi diversa». Parlava lentamente, pesando accuratamente le parole.

Lo guardai con molte domande sulle labbra, mentre badavo a trattenere Sangree a prua, lontano da noi.

«In primo luogo, subentrerebbe una spiccata insensibilità, rispetto ai dolori e ai diritti altrui. Poi, l’anima ritornerebbe selvaggia, non per cause passionali umane, o per l’entusiasmo, ma per la mortificazione, ritornando ad una specie di brutalità fredda, primitiva, priva di emozioni… ritornando, come il paesaggio, senza anima».

«E un uomo dai forti desideri, dite, potrebbe cambiarsi?».

«Senza accorgersene, si! Potrebbe ridiventare selvaggio. I suoi istinti e i suoi desideri potrebbero ritornare animali. E se» egli abbassò la voce, volgendosi un momento verso prua, e continuando poi nel suo modo più grave «per la salute delicata o per altre cause predisponenti, il suo doppio, voi comprendete che cosa intendo, naturalmente, il suo corpo eterico dei desideri, o corpo astrale, come alcuni lo denominano, quella parte in cui risiedono le emozioni, le passioni e desideri, se questo, dico, per qualche ragione costituzionale si trova congiunto soltanto leggermente col suo organismo fisico, può verificarsi benissimo una proiezione occasionale…».

Sangree venne in quel momento verso poppa con uno slancio improvviso, con la faccia in fiamme, ma se a causa del vento o del sole, o di quanto avesse udito, non saprei dirlo. Nella mia sorpresa mi sfuggì di mano la barra del timone e la barca diede un tracollo mentre veniva investita in pieno dal vento, gettandoci tutti quanti sul fondo. Sangree non disse nulla, ma mentre si alzava e correva a fissare il fiocco, il mio compagno trovò l’occasione per aggiungere alla sua frase rimasta in tronco le parole:

«Del tutto a sua insaputa però!» che a qualunque orecchio, tranne il mio, sarebbero apparse abbastanza strane.

Rimettemmo in sesto la barca e scoppiammo a ridere… Poi Sangree tirò fuori la carta topografica e spiegò esattamente dove ci trovavamo. Lontano, all’orizzonte, attraverso un tratto d’acqua aperto, giaceva un branco azzurro d’isole. In mezzo ad esse c’era anche la nostra, a forma di falce, con l’ancoraggio protetto della laguna. Un’ora di quel vento ci avrebbe portato comodamente laggiù. Mentre il <Dr. Silence e Sangree conversavano fra loro, io sedevo ripensando agli strani accenni che mi si erano or ora impressi nella mente a proposito del «doppio», e la possibile forma che avrebbe potuto assumere, in quanto temporaneamente disgiunto dal corpo fisico.

Per tutto l’ultimo tratto verso casa entrambi conversarono ed il <Dr. Silence fu affabilissimo. Non potevo afferrare molto del loro colloquio, poichè il vento si era levato nel frattempo con la forza di una burrasca e le vele e il timone assorbivano la mia attenzione. Ma potevo vedere che Sangree era compiaciuto e felice, e stava per confidare rivelazioni intime al suo compagno, proprio nel modo in cui tanta gente lo faceva… quando il dottore lo desiderava.

Ma tutto ad un tratto, mentre sedevo tutto intento al vento e alle vele, il vero significato dell’osservazione di Sangree sullo stato dell’animale balenò in me in tutta la sua portata. La sua ammissione, che esso si trovasse in pena e affamato, non era in realtà, nè più nè meno, che una rivelazione del suo io più profondo. Era quasi una confessione! Aveva parlato di qualche cosa che sapeva positivamente, di qualche cosa che era fuori di ogni discussione, fuori dubbio, di qualche cosa che aveva a che fare con lui direttamente. «Povera bestia affamata» l’aveva chiamata con parole che «gli erano uscite dalla bocca suo malgrado», e non vi era stata la minima traccia di un desiderio di nascondere o di spiegarsi. Aveva parlato istintivamente… col cuore, e quasi a proposito di se stesso.

Una mezz’ora prima dell’alba filavamo attraverso la stretta apertura della laguna e vedevamo il fumo del fuoco della colazione sollevarsi qua e là fra gli alberi, mentre Giovanna e la «fata della dispensa» correvano giù, per incontrarci, al pontile d’attracco.

V

Ogni cosa cambiò, dal momento in cui il <Dr. Silence mise piede sull’isola. Fu come l’effetto prodotto su un malato, dall’aver fatto venire per la consultazione qualche grande medico, qualche grande arbitro della vita e della morte. Il senso della gravità della cosa aumentò di colpo. Perfino gli oggetti inanimati subirono una sottile alterazione, per la sola impostazione dell’avventura. Quel po’ po’ di mare deserto, con le sue centinaia di isole disabitate, si fece in qualche modo più cupo. Un elemento misterioso, e in un certo senso scoraggiante, s’insinuò spontaneamente nella severità della roccia grigia e della tetra foresta di pini, togliendo lo splendore alla luce del sole e ai riflessi del mare.

Io, per lo meno, mi resi conto del cambiamento, poichè tutto il mio essere salì, per così dire, verso un gradino più alto, schiudendosi e facendosi più attento. I personaggi, dallo sfondo del palcoscenico, avanzarono un po’ verso il proscenio illuminato, più vicini all’azione ineluttabile. In una parola, l’arrivo di quell’uomo intensificò tutta la vicenda.

Guardando indietro al di là degli anni, sino all’epoca in cui tutto ciò accadde, vedo con certezza che egli aveva un’idea chiara e precisa del suo significato, sin da principio. Quanto già ne sapesse anticipatamente, in base ai suoi strani poteri divinatori, è difficile a dirsi, ma dal momento che entrò in scena e assorbì il tono di quanto stava accadendo fra noi, tenne senza dubbio in mano la vera soluzione del problema e non ebbe bisogno di avanzare domande. Fu questa certezza a circondarlo di un tale alone di potenza e a farcelo guardare tutti istintivamente sotto questo aspetto. Non fece passi subdoli, nè mosse false. Mentre noi ci dibattevamo qua e là, egli mirava dritto allo scopo. Era un autentico indovino delle anime.

Riesco ora a interpretare buona parte del suo comportamento, che allora mi sconcertava, poichè, pur indovinando oscuramente la soluzione, non avevo idea come avrebbe agito. Le conversazioni posso riprodurle quasi alla lettera, poichè, secondo la mia abitudine, prendevo nota di tutto quanto diceva.

Alla signora Maloney, semplice ed ingenua; a Giovanna, allarmata, ma coraggiosa; e al sacerdote, scosso dalla calamità di sua figlia più a fondo delle sue solite emozioni superficiali, rendeva il migliore trattamento possibile, ma sempre tanto naturalmente, tanto semplicemente, da farlo apparire del tutto spontaneo. Si imponeva alla «fata della dispensa», sopportando la misura della ingenuità di lei con infinita pazienza. Dischiudeva l’anima di Giovanna, incitandone al massimo il coraggio e l’interesse, per la sua stessa salvezza. Calmava e confortava il reverendo Timoteo, ottenendone l’implicita sottomissione col prenderlo nella sua confidenza, e col portarlo progressivamente alla comprensione dell’esito che doveva necessariamente seguire.

Quanto a Sangree, e qui la sua sapienza era dosata al massimo, in apparenza lo trascurava, mentre nel suo interno rappresentava il soggetto della sua incessante e concentratissima attenzione. Sotto la maschera di apparente indifferenza, la sua mente teneva costantemente d’occhio il canadese.

C’era una sensazione irrequieta nel campeggio, quella sera, e nessuno di noi si attardò come al solito intorno al fuoco, dopo cena. Io e Sangree ci demmo da fare a rattoppare la tenda strappata per il nostro ospite e a trovare dei sassi pesanti per trattenere le corde, poichè il <Dr. Silence insisteva che fosse eretta sul punto più alto del crinale dell’isola, proprio là dov’era del tutto rocciosa e non c’era terra per i cavicchi. Il punto, per di più, si trovava a metà strada fra le tende degli uomini e quelle delle donne e, naturalmente, abbracciava la vista più ampia del campeggio.

«Così, se viene il vostro cane», disse semplicemente, «potrò acchiapparlo al suo passaggio di qui».

Il vento si era dileguato col sole e un calore insolito covava sull’isola, un calore che faceva dormire profondamente. Al mattino ci riunimmo a colazione piuttosto in ritardo, fregandoci gli occhi e sbadigliando. Il vento fresco da settentrione aveva ceduto il passo all’aria calda del meridione, che si levava talvolta, con la nebbia e l’umidità, dal Baltico, recando con sè sensazioni rilassanti che ci rendevano snervati e svogliati.

Questa può essere stata la ragione per cui, di primo acchito, non ebbi modo di notare che c’era nell’aria qualche cosa di insolito, e per cui fui meno vigile del consueto. Non fu che dopo la colazione, che il silenzio della nostra piccola comitiva mi colpì e scoprii che Giovanna non era ancora apparsa. Allora, in un batter d’occhio, l’ultima pesantezza del sonno svanì e vidi che Maloney era pallido e turbato e sua moglie non riusciva a tenere un piatto senza tremare.

Un mio desiderio di fare delle domande fu troncato da un rapido sguardo del <Dr. Silence. Compresi subito, benchè vagamente, che aspettavamo che Sangree se ne fosse andato. Come mi venisse quest’idea non so spiegarlo, ma la verità dell’intuizione fu subito messa alla prova, poichè nello stesso momento in cui egli si allontanò dalla tenda, Maloney sollevò lo sguardo verso di me e cominciò a parlare a bassa voce.

«Avete dormito per tutta la notte, quando è accaduto…», egli bisbigliò.

«Accaduto che cosa?» domandai, subito allarmato dalla sensazione che qualche cosa di terribile doveva aver avuto luogo.

«Non vi abbiamo svegliato per paura di mettere sossopra tutto il campeggio», continuò, volendo significare colla parola «campeggio», sopratutto, Sangree. «Fu proprio prima dell’alba, quando le grida mi svegliarono».

«Di nuovo il cane?» domandai, con una curiosa stretta al cuore.

«È entrato dritto nella tenda», egli proseguì, parlando appassionatamente, ma a voce bassissima. «Ha svegliato mia moglie strisciandole sopra. Allora essa si è accorta che Giovanna stava lottando vicino a lei. E, Dio mio, la bestia le ha ferito il braccio! È stata graffiata per tutto il braccio, e sanguinava».

«Giovanna ferita?» ansai.

«Soltanto graffiata… stavolta» interloquì il <Dr. Silence; «soffre più per lo spavento che per le ferite vere e proprie».

«Se, grazie al cielo, non fosse stato qui il dottore», disse la Signora Maloney, che aveva un aspetto di chi non avrebbe mai più riacquistato la pace, «credo che saremmo state uccise entrambe».

«È stata una salvezza miracolosa», disse Maloney, con la sua vece da pulpito, lottando contro l’emozione. «Ma, naturalmente, non possiamo arrischiare un’altra simile avventura… dobbiamo levare le tende e andarcene subito».

«Soltanto il povero Signor Sangree non deve sapere nulla di quanto è accaduto. È tanto affezionato a Giovanna, che ne sarebbe terribilmente colpito», soggiunse la «fata della dispensa» distrattamente, guardandosi in giro nel suo terrore.

«È consigliabile che il signor Sangree non sappia nulla dell’accaduto», disse il <Dr. Silence con calma autorità, «ma credo, per la salvezza di tutti gli interessati, che sarebbe meglio non abbandonare l’isola proprio ora». Parlò con grande decisione e Maloney sollevò lo sguardo e si associò subito alle sue parole.

«Se siete d’accordo di rimanere qui pochi giorni ancora, non dubito che potremo por fine alle attenzioni del vostro strano visitatore, e al tempo stesso, avrò l’occasione di osservare un singolarissimo e interessante fenomeno…».

«Che cosa!» balbettò la Signora Maloney. «Un fenomeno?… Sapete forse cosa sia?…».

«Sono certissimo di saperlo!», egli rispose a voce assai bassa, poichè udimmo i passi di Sangree che si avvicinava. «Ma non ancora tanto sicuro sul miglior modo di occuparcene. In ogni caso, non è saggio di partire precipitosamente…».

«Oh, Timoteo, crede forse che sia un demonio?…» gridò la «fata della dispensa» con una voce che anche il canadese deve aver sentita.

«Secondo il mio parere», continuò il <Dr. Silenee, guardando me e il sacerdote, «è un caso di licantropia moderna con altre complicazioni che potrebbero…» lasciò la frase a metà, poichè la Signora Maloney saltò in piedi e se ne fuggì verso la sua tenda per paura di dover udire qualche cosa di peggio ancora. In quel momento, Sangree girò intorno all’angolo del capanno e si fece vedere.

«Vi sono tracce tutt’intorno all’ingresso della mia tenda!», disse eccitato. «L’animale è stato qui di nuovo stanotte! <Dr. Silence, dovete veramente venire a vederle in persona. Sono visibilissime sul muschio, come piste nella neve».

Ma più tardi, durante la giornata, quando Sangree se ne andò nel canotto per pescare negli stagni vicini alle isole maggiori, e Giovanna era tuttora coricata, fasciata a riposare, nella sua tenda, il <Dr. Silence chiamò me e il tutore e propose una passeggiata alle lastre di granito all’estremità più distante. La Signora Maloney sedeva su un tronco, vicino a sua figlia, e si dava energicamente da fare alternando le sue faccende con la pittura.

«Vi lasciamo in carica!», disse il dottore con un sorriso che doveva essere incoraggiante. «Quando avrete bisogno di noi per la merenda, o per altro, il megafono ci porterà sempre in tempo il vostro desiderio».

Poichè, sebbene l’aria stessa fosse satura di strane emozioni, ciascuno parlava calmo e naturale, come per un desiderio ben definito di reagire contro ogni eccitamento superfluo.

«Farò la guardia!», disse la coraggiosa «fata della dispensa», «e nel frattempo mi consolerò col mio lavoro». Era affaccendata con lo schizzo che aveva abbozzato sin dal giorno dopo il nostro arrivo. «Poichè anche un albero», essa soggiunse orgogliosamente additando il suo piccolo cavalletto, «è un simbolo del divino, e il pensarci fa che mi senta più al sicuro». Gettammo un’occhiata per un attimo su quello scarabocchio che sembrava piuttosto un sintomo postumo di qualche indigestione che un simbolo del divino, e imboccammo poi il sentiero intorno alla laguna.

All’estremità più distante, accendemmo un fuocherello e ci distendemmo intorno, all’ombra di un grosso macigno. Maloney s’interruppe improvvisamente nel suo canticchiare e si rivolse al suo compagno.

«Che cosa ne pensate di tutto ciò?» domandò improvvisamente.

«In primo luogo», rispose il <Dr. Silence, accomodandosi contro la roccia, «questo animale è di origine umana. Si tratta senza dubbio di licantropia».

Le sue parole ebbero lo stesso effetto di una bomba. Maloney ascoltò come se ne fosse stato annientato.

«Mi confondete completamente», disse rizzandosi a sedere ed accostandosi a guardarlo con occhi sbarrati.

«Forse!», rispose l’altro. «Ma se vorrete ascoltarmi per qualche istante, alla fine sarete meno confuso… Dipende da quanto sapete. Lasciatemi proseguire e dirvi che avete sottovalutato, o male calcolato, l’effetto di questa vita primitiva e selvatica su tutti voi».

«In che senso?» domandò il sacerdote, un po’ stizzito.

«Essa fornisce una forte medicina ad ogni abitatore di città, e per qualcuno di voi è stata troppo forte. Uno tra voi, specialmente, ne è rimasto abbrutito». Pronunciò queste ultime parole con molta enfasi.

«Abbrutito!», soggiunse, guardandoci entrambi.

Nessuno di noi due trovò nulla da aggiungere.

«Affermare che il bruto si sia svegliato in un uomo, non è sempre una sola metafora», egli proseguì.

«Naturalmente!».

«Ma, nel senso che io intendo, può avere un significato assai letterale e terribile», proseguì il <Dr. Silence. «Antichi istinti che nessuno si è mai sognato di avere, e men che meno il loro possessore, possono affiorare…».

«L’atavismo potrà ben difficilmente spiegare un animale vagabondo con denti e artigli e istinti sanguinari», interruppe Maloney con impazienza.

«Il termine è di vostra scelta», continuò il dottore equanime, «non mia, e rappresenta un bell’esempio di una parola che indica un risultato, mentre nasconde il processo per giungervi. Ma la spiegazione di quella bestia che infesta la vostra isola e attacca vostra figlia è di un significato ben più profondo che non le sole tendenze ataviche, o il ritorno all’origine animale, che suppongo sia il pensiero cui accennate».

«Avete parlato or ora della licantropia», disse Maloney, dall’aspetto sbalordito e ansioso di attenersi a fatti concreti ed evidenti, «penso di essere venuto a capo della parola, ma veramente… veramente… non può avere un significato concreto oggi, non è così?… Queste superstizioni di epoche medioevali difficilmente possono…».

Mi guardò con la sua faccia rubiconda e allegra, e la sua espressione di stupore e di spavento mi avrebbe fatto scoppiare dalle risa in ogni altro momento. Il riso tuttavia era lontanissimo dalla mia mente, quando udii il <Dr. Silence fornire coscienziosamente al sacerdote proprio la spiegazione che progressivamente andava prendendo forma concreta nella mia mente.

«Comunque le idee medioevali possano essere state esagerate, questo punto non ha molta importanza per noi, ora», disse tranquillamente. «Ci troviamo di fronte ad un esempio moderno di quanto, com’è anche mia convinzione, è sempre stato un fatto profondamente reale. Per il momento dobbiamo prescindere dal nome dell’uno o dell’altro in particolare, e considerare certe possibilità».

Tutti fummo perfettamente d’accordo con lui. Non c’era bisogno di parlare di Sangree, nè di chiunque altro, finchè non ne avessimo saputo un po’ di più.

«Il fatto fondamentale, in questo curiosissimo caso», proseguì, «consiste in ciò che il “doppio” d’un uomo…».

«Intendete dire il corpo astrale? Ne ho inteso parlare, infatti», Maloney interloquì con accento trionfale.

«Senza dubbio!», disse l’altro, sorridendo. «Senza dubbio ne avrete inteso parlare. Questo doppio, o corpo fluidico d’un uomo, come stavo dicendo, vanta il potere, sotto certe condizioni, di proiettarsi e diventare visibile ad altri. Un certo allenamento può portare a questo fenomeno, e così pure determinate droghe. Anche alcune malattie che infestano il corpo, possono temporaneamente sortire l’effetto che la morte produce in via permanente, e allentare o abbandonare quella controparte di un essere umano sino a renderla percettibile alla vista altrui.

«Tutti, infatti, lo sanno, oggigiorno, più o meno. Ma non è tanto generalmente noto, nè probabilmente creduto da alcuno che non ne sia stato testimonio, che questo corpo fluidico può, sotto certe condizioni, assumere altre forme diverse da quelle umane, e che queste altre forme possono essere determinate dal pensiero o dal desiderio predominanti nel possessore. Poichè questo doppio, o corpo astrale, come lo chiamate, è realmente la sede delle passioni, delle emozioni e dei desideri, nell’economia psichica. È il corpo delle passioni! E proiettando se stesso, può spesso assumere una forma che dà espressione al desiderio predominante che lo plasma. Poichè è composto d’una materia talmente tenue, da prestarsi prontamente ad essere plasmato dal pensiero e dal desiderio».

«Vi seguo perfettamente», disse Maloney, mentre tradiva nell’espressione del volto la convinzione che avrebbe molto più volentieri sminuzzato della legna da ardere.

«Esistono alcune persone così costituite», continuò il dottore con serietà crescente, «che il corpo fluidico si trova in essi soltanto leggermente congiunto con quello fisico. Si tratta, di regola, di persone di salute cagionevole, ma dominate da desideri e passioni forti. In esse, è facile al «doppio» di separarsi durante il sonno dal loro organismo e, sospinto da qualche desiderio divorante, di assumere una forma animale e di cercare la soddisfazione di quello stesso desiderio».

Là, all’ampia luce del giorno, vidi Maloney avvicinarsi di proposito al fuoco e ammucchiarvi la legna. Ci raccogliemmo attorno alla fiamma avvicinandoci l’uno all’altro, e porgemmo ascolto alla voce del <Dr. Silence che si confondeva coi sibili del vento intorno a noi, e con lo sciacquìo delle piccole onde.

«Per servirci di un esempio concreto», egli concluse, «supponete qualche giovane, dalla delicata costituzione di cui ho parlato, che concepisca un attaccamento soverchiante per una giovane donna, ma si accorga di non essere corrisposto, e sia uomo abbastanza tenace e volitivo da sopprimerne le manifestazioni esteriori. In tal caso, supponendo che il suo «doppio» venga facilmente proiettato, la stessa repressione del suo amore durante il giorno, verrebbe ad aggiungersi all’intensa forza del suo desiderio durante il sonno profondo, nel suo distacco dal controllo della sua volontà. Il suo corpo fluidico potrebbe allora uscirsene in forma di un mostro o animale, e diventare concretamente visibile agli altri. Se la sua devozione fosse canina per la sua fedeltà, pur nascondendosi sotto il fuoco di una violenta passione, essa potrebbe benissimo assumere la forma di una creatura che sembri a metà cane e a metà lupo…»

«Un lupo mannaro, intendete dire?…» gridò Maloney, pallido sin sulle labbra, nell’ascoltare.

Il <Dr. Silence levò una mano in segno di riserva. «Il lupo mannaro», disse, «è un fatto reale psichico, di profondo significato. Può essere stato esagerato dalla immaginazione dei contadini superstiziosi, nei giorni dell’oscurantismo. Ma un lupo mannaro, altro non è che gli istinti selvaggi, ed eventualmente sanguinari, di un uomo passionale, scorrazzanti per il mondo nel suo corpo fluidico, cioè il corpo passionale, vale a dire il corpo dei desideri. Dato che, nel caso presente, egli può anche non saperlo…».

«Non si tratta dunque necessariamente di cosa intenzionale?» interruppe subito Maloney, con sollievo.

«…Non è quasi mai intenzionale. Si tratta dei desideri sottratti, durante il sonno, al controllo della volontà, desideri che trovano uno sfogo. In tutte le razze selvagge, è stato riconosciuto e temuto, questo fenomeno denominato «lupo mannaro», ma oggi esso è raro. E sta per diventare anche sempre più raro, poichè il mondo diventa sempre più riflessivo e civilizzato. Le emozioni si sono raffinate, i desideri intiepiditi, e pochi uomini soltanto covano ancora degli istinti selvaggi, sufficienti a dar vita ad impulsi di forza talmente intensa, certo però non già per proiettarli in forma animale».

«Per Dio!» esclamò il sacerdote senza fiato, e con crescente eccitazione. «Allora mi sento di dovervi dire, ciò che mi è stato confidato segretamente, che Sangree ha in sè un miscuglio di sangue selvaggio… di antenati pellirosse…».

«Proseguiamo nella nostra supposizione, di un uomo come abbiamo descritto», lo interruppe il dottore tranquillamente. «Immaginiamo pure che abbia in sè questo miscuglio di sangue selvaggio, che sia inoltre del tutto all’oscuro della sua infermità fisica e psichica; che improvvisamente si trovi a condurre la vita primitiva insieme agli oggetti dei suoi desideri; col risultato che la tensione dell’indomito uomo selvaggio nel suo sangue…».

«Pellirossa, perfettamente!», confermò il dottore. «Col risultato, dico, che questa tensione selvaggia, latente in lui, si desti e trabocchi nella vita passionale. Che accadrebbe allora?».

Guardò fisso Timoteo Maloney, e il sacerdote a sua volta guardò fisso l’altro.

«La vita selvaggia, così come la conducete su quest’isola, per esempio, potrebbe risvegliare improvvisamente i suoi istinti selvaggi… e con risultati profondamente inquietanti».

«Intendete dire che il suo corpo sottile, come lo chiamate, potrebbe uscirsene automaticamente durante il sonno profondo e cercare l’oggetto del proprio desiderio?», dissi, venendo in aiuto a Maloney, il quale trovava sempre più difficile seguire.

«Precisamente!… Malgrado che il desiderio dell’uomo rimanga del tutto innocuo… puro e sano in ogni senso…».

«Ah!» esclamò il sacerdote.

«Il desiderio dell’innamorato, di unirsi all’essere amato, irrompe violento, sfrenato, forzando la via in modo primitivo, indomito, voglio dire», continuò il dottore, cercando di spiegarsi nei confronti di una mente limitata da un pensare e da una educazione convenzionali. «Poichè il desiderio del possesso, ricordate, può facilmente rendersi importuno e, incorporato in questa forma animale del corpo sottile, che agisce come suo veicolo, può uscire per ridurre a pezzi ogni ostacolo, ed arrivare al cuore stesso dell’oggetto amato e afferrarlo. In fondo, altro non è che l’aspirazione all’unione, come dissi… il desiderio splendente e perfettamente puro di assorbire completamente in se stesso…».

Egli fece una pausa per un momento, e guardò negli occhi Maloney.

«Per bagnarsi nel sangue stesso della persona desiderata», soggiunse infine gravemente enfatico.

Il fuoco, che schizzò e scoppiettò, mi fece trasalire, ma Maloney trovò sollievo in un vero brivido, e lo vidi volgere il capo e guardarsi in giro, dal mare agli alberi. Il vento si calmò proprio in quel momento, e le parole del dottore risuonarono acute nel silenzio.

«Allora può anche uccidere?…» balbettò il sacerdote con voce attonita, e con un risolino forzato, in segno di protesta, che risuonò però quasi spettrale.

«Nella sua ultima fase, esso può uccidere!», ripetè il <Dr. Silence. Poi, dopo un’altra pausa, durante la quale stava chiaramente dibattendosi se confidarlo o meno ai suoi ascoltatori, continuò: «Se il doppio non riuscisse più a rientrare nel suo corpo fisico, questo corpo fisico si sveglierebbe incompleto… idiota, cioè… o forse non si sveglierebbe più!».

Maloney si sedette ritto e ritrovò la parola.

«Intendete dire che se questo… animale fluidico, o checchessia, venisse impedito a rientrare, l’uomo non si ridesterebbe mai più?» chiese, con voce tremante.

«Potrebbe morire!…», rispose l’altro con calma. Il tremito d’una sensazione effettiva, pareva desse brividi nell’aria, intorno a noi.

«Allora non è questo il modo migliore per guarire il pazzo… il bruto?…» tuonò il sacerdote rizzandosi in piedi a metà.

«Certamente, sarebbe una facile e non accertabile forma di omicidio», fu la compassata risposta, pronunciata con altrettanta calma come se fosse un’osservazione intorno alla temperatura.

Maloney si accasciò visibilmente. Io accumulai la legna sul fuoco e lo riattizzai a una fiammata.

«La parte maggiore della vita di un uomo… delle sue forze vitali… esce col doppio», concluse il <Dr. Silence, dopo aver riflettuto un istante, «ed anche una parte notevole del materiale concreto del suo corpo fisico. Così, il corpo fisico, rimanendo indietro, si affloscia, si svuota, non soltanto rispetto alle forze, ma anche rispetto alla materia. Lo vedreste rimpicciolito, rattrappito, afflosciato, esattamente come il corpo di un medium materializzatore durante una seduta. Inoltre, ogni segno di lesione inferta al doppio si troverà esattamente riprodotta in base al fenomeno della ripercussione sul corpo fisico così ridotto, immerso nella trance…».

«Una lesione inferta all’uno dite che si riprodurrebbe pure sull’altro?» ripetè Maloney, la cui eccitazione cresceva nuovamente.

«Senza dubbio!», rispose l’altro tranquillo. «Poichè corre, per tutto il tempo, un nesso continuo tra il corpo fisico e il doppio… un nesso di materia, benchè di materia oltremodo attenuata, quasi eterica. La ferita viaggia, per così dire, dall’uno all’altro, e se questo nesso fosse interrotto, il risultato sarebbe la morte».

«La morte!», ripetè Maloney a se stesso, «la morte!» E ci guardò ansiosamente in faccia. I suoi pensieri evidentemente cominciavano a rischiararsi.

«E quella… solidità?» domandò ora, dopo una pausa generale; «quegli strappi alle tende e alla carne; quell’ululato, e le tracce delle zampe? Volete dire che il doppio?…».

«Ha materia sufficente tratta dal corpo afflosciato da produrre effetti fisici? Certamente!» confermò il dottore. «Benchè lo spiegare in questo momento problemi quali il passaggio della materia attraverso ad altra materia possa essere altrettanto arduo come lo spiegare come il pensiero di una madre possa, sia pure indipendentemente dalla sua volontà, rompere effettivamente le ossa del bambino non ancora nato».

Il <Dr. Silence additò fuori, verso il mare, e Maloney, guardandosi intorno selvaggiamente, si volse con un violento sussulto. Vidi il canotto, con Sangree sul sedile a poppa, venire lentamente in vista girando la punta più lontana. Era senza cappello, e il suo volto abbronzato, per la prima volta, mi apparve… e a noi tutti, credo…. come se fosse il volto di un’altra persona. Aveva l’aspetto di un uomo selvaggio. Poi si levò nel canotto per gettare la lenza, e somigliava, in tutto e per tutto a un pellerossa. Ricordai l’espressione del suo volto, così come l’avevo visto una volta o due, specialmente in occasione della preghiera serale, e un brivido involontario mi corse giù per la schiena.

In quello stesso momento, si volse e ci scorse dove ce ne stavamo sdraiati. Il suo volto si allargò tutto in un sorriso, cosicchè i suoi denti splendettero, bianchi nel sole. Appariva nel suo elemento, e oltremodo suggestivo. Gridò qualche cosa, a proposito della sua pesca, e subito dopo scomparve alla vista, nella laguna.

Per qualche istante nessuno di noi profferì parola.

«E la cura?…» avventurò infine Maloney.

«Non sta nell’estinguere questa forza selvaggia», rispose il <Dr. Silence, «ma nel guidarla verso il meglio, e nel procurarle altri sfoghi. In ciò sta generalmente la soluzione di tutti questi problemi di forza accumulata. Poichè questa forza rappresenta il materiale grezzo dell’utilità, e dovrebbe essere aumentata e favorita, non già separandola dal corpo attraverso la morte, ma riportandola verso canali più alti. La cura migliore, e la più rapida», proseguì, parlando molto affabilmente e con una mano appoggiata sul braccio del sacerdote, «sta nel guidare questa forza verso il suo oggetto, a meno che quell’oggetto non sia inalterabilmente ostile… per procuragli il riposo dove…».

S’interruppe improvvisamente, e gli occhi dei due uomini s’incontrarono in un solo sguardo di comprensione.

«Giovanna?…» esclamò Maloney, sottovoce.

«Giovanna!» rispose il <Dr. Silence.

Ce ne andammo tutti a letto molto presto. Il giorno era stato insolitamente caldo e, dopo il tramonto, uno strano silenzio era disceso sull’isola. Nulla si udiva, all’infuori di quel fievole canto, che si potrebbe chiamare canto di spiriti e che è inseparabile da un bosco di pini, anche nel giorno più silenzioso… un suono lieve e penetrante, come se il vento avesse una chioma distesa come un’arpa sul mondo.

Col rapido raffreddamento dell’atmosfera cominciò a formarsi la nebbia sul mare. Apparve a chiazze isolate sull’acqua. Poi quelle chiazze si riunirono, e una bianca muraglia avanzò verso di noi. Non un alito si agitava nell’aria. Gli abeti stavano lì come sagome tagliate su lastre di metallo; il mare si era fatto calmo come olio. Tutto il paesaggio si distendeva, come immobilizzato da qualche enorme peso nell’aria; e le fiammate del nostro fuoco, il più grande che avessimo mai acceso, si levavano in alto, diritte come un campanile.

Seguimmo il resto della nostra comitiva verso le tende. L’avanguardia della nebbia stava strisciando lentamente fra gli alberi. Commista alla nebbia vi era la fragranza del muschio e della terra, e il peculiare aroma salmastro del Baltico, come il profumo di un estuario a bassa marea.

È difficile spiegare perchè mi sembrasse che quel profondo silenzio mascherasse una intensa attività. Forse in ogni umore vi è la suggestione del suo opposto, cosicchè intravedevo per contrasto una furiosa energia, che stesse come attraversando la profonda pausa precedente una tempesta. Camminavo cautamente per paura che, spezzando qualche ramoscello o spostando qualche sassolino, potessi mettere il paesaggio in qualche tumultuoso subbuglio. Effettivamente, e senza dubbio, non era altro che un effetto di nervi troppo tesi.

Non si poteva nemmeno pensare a svestirsi e andare a letto. Un sesto senso in me, era vigile e in attesa. Mi sedetti nella mia tenda e aspettai. Circa mezz’ora dopo, la mia aspettativa fu giustificata, poichè la tela improvvisamente si mise a sbattere, e qualcuno inciampò sulle corde che la tenevano fissa al suolo. Il <Dr. Silence entrò.

L’effetto di quel tranquillo ingresso fu singolare e profetico. Era come se l’energia covante dietro a quel silenzio, fosse entrata in lizza per agire: In ciò vi era, senza dubbio soltanto lo stimolo della mia mente, e non vi era altra giustificazione. La presenza del <Dr. Silence suggeriva sempre, infatti, imminente possibilità di un’azione vigorosa. Entrò senz’altro, con un cenno della testa, e un gesto significativo.

Si sedette su un angolo del mio pagliericcio di frasche, ed io spinsi la coperta in modo da coprirgli le gambe. Egli si tirò dietro il lembo della tenda e si mise disteso, ma appena lo ebbe fatto, la tela si scosse per una seconda volta, e Maloney brancolò dentro anche lui.

«Seduti nel buio?» disse con accento soddisfatto, spingendo dentro la testa, e appendendo la sua lanterna al chiodo dell’asta di sostegno. «Ho messo dentro la testa per chiedere un po’ di tabacco. Credo che…».

Si guardò intorno, fissò negli occhi il <Dr. Silence, e si fermò. Si rimise poi la pipa in tasca e cominciò a canticchiare sommesso – quel canticchiare sottovoce che conoscevo ormai tanto bene e che mi dava ai nervi.

Il <Dr. Silence si sporse in avanti, girò la lanterna e spense il lume con un soffio. «Parlate piano!», disse. «E non accendete dei fiammiferi! Ascoltate i rumori e i movimenti intorno al campeggio, e tenetevi pronti a seguirmi sull’istante, quando ve lo dirò». C’era luce sufficiente per distinguere facilmente i nostri visi. Vidi Maloney lanciare una rapida occhiata a noi due.

«Il campeggio dorme?» chiese il dottore, sottovoce.

«Sangree, sì», rispose il sacerdote, con voce ugualmente bassa. «Non posso rispondere per le donne. Credo che veglino sedute».

«È la miglior cosa». Poi soggiunse: «Sarebbe bene che la nebbia si attenuasse un po’, in modo da lasciar passare il chiaro di luna. Più tardi… potremmo averne bisogno».

«Sta già levandosi ora, credo», sussurrò Maloney di rimando. «Si trova già sulle cime degli alberi».

Non so dire cosa vi fosse di sconcertante in questo comunissimo scambio di osservazioni. Probabilmente si trattava soltanto della rapida sottomissione di Maloney ai modi del dottore. La sua immediata obbedienza certamente m’impressionò alquanto. Ma, pure prescindendo da questa evidenza più o meno insignificante, era chiaro che ciascuno di noi riconosceva la gravità del momento, e comprendeva che il sonno era impossibile e l’incombenza di montare la guardia era un imperativo per la notte.

«Riferitemi», ripetè il <Dr. Silence ancora una volta, «il minimo rumore, e non fate nulla con precipitazione».

Si spostò di traverso, verso l’imbocco della tenda, e sollevò il lembo, fissandolo contro l’asta, in modo da poter guardare fuori. Maloney cessò di canticchiare e cominciò a forzare il respiro attraverso i denti, fischiettando debolmente, propinandoci un misto tra inni ecclesiastici e canzonette popolari del giorno.

In quel momento la tenda tremò come se qualcuno l’avesse toccata.

«È il vento che si leva», sussurrò il sacerdote, e spinse il lembo aprendolo interamente. Entrò un’ondata di aria fredda e umida che ci fece rabbrividire, e con essa, arrivò il suono sommesso del mare.

«Il vento gira a settentrione», soggiunse, e seguendo la sua voce arrivò un sussurrar prolungato che si levò da tutta l’isola, mentre gli alberi, in risposta, stormivano lievemente. «La nebbia, ora, si sposterà un pochino. Riesco già a distinguere il mare».

«Zitto!» disse il <Dr. Silence, poichè la voce di Maloney si era fatta più forte. Ci stendemmo per un ulteriore periodo di veglia e di attesa interrotto soltanto dall’occasionale sfregamento delle nostre spalle contro la tela, mentre cambiavamo di posizione, e dal crescente suono delle onde sul litorale esterno dell’isola. Su tutto, si propagava il mormorìo del vento che passava sulle cime degli alberi come una grande arpa, e il sommesso fischiettare sulla tenda, mentre le gocce di umidità cadevano dai rami, con un suono netto e distinto.

Stavamo seduti così da più di un’ora ed io e Maloney trovavamo sempre più arduo mantenerci svegli, quando, improvvisamente, il <Dr. Silence si levò e spiò fuori. Un minuto dopo, se n’era andato.

Sollevato da quella presenza dominante, il sacerdote mi si appressò: «Non mi garba molto questa faccenda dell’attesa», sussurrò, «ma Silence non vuole che rimanga con le donne. Ha detto che, facendo ciò, impedirei lo svolgimento di quanto dovrebbe accadere».

«Egli sa il fatto suo!», risposi brevemente.

«Non ne dubito affatto!», rispose; «ma penso ancora a quella questione del “doppio”, come egli lo chiama, o a quella «ossessione» come è descritta nella Bibbia. Qualunque cosa sia, è cosa malvagia, ed io ho lasciato qui fuori il mio fucile carico, e ho portato con me anche questo». E mi mise sotto il naso una Bibbia tascabile. In un’altra epoca della sua vita la Bibbia gli era stata compagna inseparabile.

«L’una cosa è inutile e l’altra è pericolosa», risposi sottovoce, provando un acuto desiderio di ridere. «La salvezza sta nel seguire il nostro capo…».

«Non penso a me stesso!», interruppe subito. «Soltanto, se qualcosa dovesse accadere a Giovanna stanotte, per primo sparerei… e poi pregherei!».

Maloney si rimise il libro in tasca e spiò fuori dalla apertura. «Che cosa sta facendo ora, in nome del diavolo, mi chiedo!…» soggiunse. «Cammina intorno alla tenda di Sangree, gesticolando. Che sinistro aspetto che ha, mentre scompare e ricompare nella nebbia!».

«Basta che confidiate in lui e attendiate!», dissi subito, poichè il dottore già si trovava sulla via del ritorno. «Ricordate che sa il fatto suo, e sa cosa deve fare. Ho sperimentato con lui momenti più brutti di questo».

Maloney si tirò indietro mentre il <Dr. Silence passava davanti all’apertura e si chinava per entrare.

«Il suo sonno è molto profondo», sussurrò, rimettendosi seduto presso il lembo della tenda. «Si trova in una condizione catalettica e il doppio può essere proiettato fuori da un minuto all’altro. Ma ho preso le mie misure per tenerlo imprigionato nella tenda, e non potrà uscirne, finchè non glielo permetterò io. Fate attenzione ai segni di qualche movimento». Poi fissò Maloney. «Ma nessuna violenza, nè spari! Ricordate, signor Maloney! A meno che non vogliate macchiarvi di un omicidio! Qualunque cosa arrecate al doppio si ripete di contraccolpo sul corpo fisico. Fareste bene a levare subito le cartucce».

La sua voce era severa. Il sacerdote uscì, e lo udii vuotare la canna del fucile. Ritornato, si sedette più vicino all’uscita, e da quel momento, fino a quando abbandonammo la tenda, non distolse una sola volta gli occhi dalla figura del <Dr. Silence, che si delineava fra il cielo e la tela.

Nel frattempo, il vento soffiava ininterrotto sul mare e squarciava la nebbia, cacciandola davanti a sè come una cosa viva.

Doveva essere già parecchio tempo dopo mezzanotte, quando un basso suono, come un rimbombo, richiamò la mia attenzione. Dapprima il suono era talmente attutito che fu impossibile individuarlo esattamente. Immaginai fosse lo sparo di grossi fucili in lontananza, sul mare, riportato a noi dal vento che s’era levato. Allora Maloney, appoggiandosi al mio braccio e sporgendosi in avanti, accertò di che si trattasse, e un secondo dopo mi resi conto che la canoa non era distante che di pochi passi.

«La tenda di Sangree», egli esclamò, con voce spaventata.

Allungai il collo, ma, in principio, l’effetto della nebbia fu talmente ingannevole, che ogni chiazza di bianco incalzata dal vento, mi parve l’aspetto di una tenda in movimento. Trascorsero alcuni secondi prima che scoprissi la sola chiazza che si mantenesse relativamente ferma. Notai allora che la tenda di Sangree si scuoteva in tutti i sensi, e vidi che i suoi lati si dibattevano per quanto lo permetteva la saldezza delle aste. Questo era la causa del suono rimbombante che avevamo inteso. Qualche cosa di vivente stava agitandosi freneticamente nell’interno e sbatteva contro la tela tesa in una maniera che mi fece pensare a una grossa falena cozzante contro le pareti e il soffitto di una stanza. La tenda si gonfiava e traballava.

«Tenta di uscire, per Giove!» borbottò il sacerdote, levandosi in piedi e volgendosi dalla parte dove giaceva il fucile scarico. Balzai in piedi anch’io, pronto a tutto, benchè non sapessi come comportarmi. Il <Dr. Silence però ci stava già davanti, e la sua figura ci passò d’accanto e bloccò la soglia della tenda. C’era un certo che nella sua voce, quando un minuto dopo cominciò a parlare, che riportò le nostre menti, istantaneamente, a uno stato di calma obbedienza.

«Prima… la tenda delle donne», disse a bassa voce, fissando Maloney. «E se mi occorrerà il vostro aiuto, chiamerò».

Il sacerdote non ebbe bisogno di farselo dire due volte. Si chinò davanti a me e fu fuori in un momento. Stava evidentemente dibattendosi sotto un’intensa eccitazione. Lo vidi incamminarsi silenziosamente sul fondo sdrucciolevole, circuendo alla larga la tenda agitata, e scomparire tra le forme fluttuanti della nebbia.

Il <Dr. Silence ritornò da me. «Avete udito quei passi, circa mezz’ora fa?» chiese in tono significativo.

«Non ho udito nulla!».

«Erano straordinariamente lievi… come quelli, quasi silenziosi, di una creatura della foresta. Ora però, seguitemi da vicino», soggiunse. «Poichè non dobbiamo perdere tempo, se debbo guarire quel pover’uomo dalla sua malattia e ricondurre questo doppio, questo lupo mannaro, al suo riposo. Se non erro…» mormorò, spiandomi nel buio, «Giovanna e Sangree sono proprio fatti l’uno per l’altro. Credo che lo sappia anche lei… proprio come lo sa lui!».

Mi venne quasi il capogiro, mentre ascoltavo, ma al tempo stesso, qualche cosa si schiarì nel mio cervello, e vidi che aveva ragione. Era tutto quanto così bizzarro e incredibile, così lontano dai fatti comuni della vita come la gente comune li conosce… Più di una volta mi balenò l’idea che tutta la scena: la gente, le parole, le tende, e tutto il resto, non fossero, in qualche modo, che illusioni create dalla profonda eccitazione della mia mente, e che la nebbia del mare, improvvisamente, si sarebbe rischiarata e il mondo sarebbe ritornato normale.

L’aria fredda proveniente dal mare ci punse aspramente le gote quando lasciammo l’atmosfera chiusa della piccola tenda che ci aveva ospitati. I sospiri degli alberi, le onde alla risacca laggiù, contro le rocce, e i contorni e le chiazze della nebbia che si sfacevano intorno a noi, sembravano creare la momentanea illusione che tutta l’isola si sarebbe troncata e staccata, per galleggiare fuori al largo, nel mare, alla deriva, come una zattera gigantesca.

Il dottore mi camminava davanti, affrettato e silenzioso. Puntò dritto sulla tenda del canadese le cui pareti tuttora rintronavano e si scuotevano mentre la creatura malaugurata, dalla vita sinistra, infuriava e si dimenava impaziente là dentro. A breve distanza dal lembo di quella tenda, si fermò, e stese una mano per trattenermi. Ne distavamo circa quattro metri.

«Prima che lo lasci libero, dovete accertare voi stesso», disse, «che la realtà del lupo mannaro è fuori di ogni dubbio. La materia di cui è costituito è, certo, oltremodo tenue, ma voi siete parzialmente chiaroveggente… ed anche se non fosse abbastanza denso per la vista normale, vedreste qualche cosa».

Aggiunse altre parole che non afferrai. L’atmosfera, dalle vibrazioni stranamente forti, che avvolgeva la sua persona, mi confuse un po’ i sensi. Era evidentemente il risultato di un’intensa concentrazione della sua mente e dei suoi poteri, e permeava l’intero campeggio e tutte le persone che vi si trovavano. Mentre vedevo il telo scuotersi e lo udivo rintronare, la presenza del dottore e la sua influenza mi confortarono. Poichè aveva un significato ed uno scopo essenzialmente protettivi.

Dietro la tenda di Sangree c’era un esile gruppo di pini, ma di fronte e ai lati, il terreno era relativamente sgombro. Il lembo della tenda era spalancato e qualsiasi animale comune avrebbe potuto uscirne e scapparne senza il minimo disturbo. Il <Dr. Silence mi fece accostare fino ad una distanza di pochi passi, evidentemente preoccupato di non avanzare oltre un certo limite. Poi si chinò, e mi fece cenno di fare lo stesso. Guardandogli sopra la spalla, vidi l’interno illuminarsi debolmente nella luce spettrale riflessa dalla nebbia. L’oscura macchia sul pagliericcio di foglie di balsamo era il corpo di Sangree. Al di sopra di esso, e su e giù per tutta la sua persona, scorazzava l’oscura massa di «qualche cosa» a quattro zampe, con un muso appuntito e delle orecchie aguzze, nettamente visibile contro le pareti della tenda. Ogni tanto, lampeggiava nel buio l’ardore di occhi infocati e di bianche zanne.

Trattenni il respiro e mi mantenni completamente zitto, dentro e fuori, per paura, suppongo, che la creatura si accorgesse della mia presenza. Ma l’ansia che sentii si addentrò molto più a fondo nel mio essere che non la sola preoccupazione della sicurezza personale, o il fatto che stavo osservando qualche cosa di incredibile nella sua attività e nella sua realtà. Mi resi perfettamente conto della paurosa calamità psichica che quel fenomeno coinvolgeva. Il pensiero che Sangree giaceva rinchiuso in quello stretto spazio, con quella specie di mostruosa proiezione di se stesso… che stava disteso immerso in un sonno catalettico, del tutto incosciente che quella cosa stesse mascherando e svisando la sua vita e le sue energie… aumentava affannosamente l’orrore della scena. In tutti i casi del <Dr. Silence, e furono molti, e spesso terribili, nessun tormento psichico mi ha mai, nè prima nè dopo, impressionato in modo tanto convincente sulla tragica incostanza della personalità umana, sulla sua natura fluida e fluidica, e sulle allarmanti possibilità delle sue trasformazioni.

«Venite», sussurrò il dottore, dopo di aver osservato per alcuni minuti i frenetici sforzi di fuga dal cerchio opposto dal pensiero e dalla volontà di tenervelo prigioniero, «scostatevi un po’ con me, mentre lo lascerò libero».

Indietreggiammo per circa una dozzina di metri. Fu come la scena di un dramma impossibile, o di un incubo macabro e oppressivo.

In base a qualche metodo, senza dubbio mentale, ma che, nella mia confusione ed eccitazione, non potei comprendere, il dottore mandò ad effetto il suo piano, e il minuto dopo lo sentii dire chiaramente, sottovoce: «È venuto il momento! Ora, osservate!».

In quello stesso istante un’improvvisa raffica dal mare soffiò di traverso nella nebbia, in modo che si aprì uno squarcio verso il cielo, e la luna, spettrale e innaturale come l’effetto di un riflettore da teatro, inviò un raggio passeggero sull’ingresso della tenda di Sangree. Mi avvidi allora che qualche cosa si era mosso in avanti, dal buio interno, e stava distintamente delineato sulla soglia. Nello stesso momento, la tenda cessò di agitarsi, e rimase immobile.

Là, sulla soglia, stava un animale, col collo e col muso sporti in avanti, con la testa insinuata nell’oscurità della notte, con tutto il corpo irrigidito in quella posa intensamente circospetta che precede il salto verso la libertà, la rincorsa, il balzo all’attacco. Appariva della grandezza di un vitello, più scarno di un mastino, ma più tozzo di un lupo. Potrei giurare di aver visto la pelliccia formare un irto crinale sul suo dorso. Allora il suo labbro lentamente si sollevò, e vidi balenare il candore delle sue zanne.

Certamente nessun essere umano avrà mai forzato i suoi occhi con tanto tremendo stupore quanto io lo feci, nei pochi minuti che seguirono. Comunque, più li forzavo, e più distinta diventava la sensazionale e mostruosa apparizione. Poichè, dopo tutto, era Sangree… eppure non lo era. Era la testa e il muso di un animale, eppure era la faccia di Sangree! Il muso di un cane selvatico, di un lupo, eppure la faccia di lui! Gli occhi erano più affilati, più stretti, più infuocati, eppure erano gli occhi di lui… inselvatichiti! I denti erano più lunghi, più bianchi, più acuminati… eppure erano i denti di lui, trasformati in atroci zanne! L’espressione era infiammata, terribile, esultante… eppure era l’espressione di lui, portata ai margini di quanto vi è di più selvaggio… l’espressione di lui così come già più di una volta l’avevo sorpresa, ma molto più violenta, ora, completamente liberata dalla costrizione umana, con la pazza brama di un’anima feroce e famelica! Era l’anima di Sangree, il suo amore lungamente compresso, profondamente intenso, espresso nel suo unico e tormentoso desiderio…

Eppure, al tempo stesso, subentrò la sensazione che tutto fosse illusione. Ricordai improvvisamente gli straordinari cambiamenti che il volto umano può subire in certe forme cicliche di infermità mentale, quando cambia dalla malinconia all’esultanza. Ricordai l’effetto di certi stupefacenti, che fanno apparire il volto umano in forma dell’uccello o dell’animale, cui come carattere maggiormente si avvicina. E per un attimo attribuii questo misto fra la faccia di Sangree e il muso di un lupo a qualche genere analogo di illusione dei sensi. Mi sentivo pazzo, illuso, sognante! L’eccitazione del giorno, quella luce cupa delle stelle, quella nebbia subdola, cospiravano ad ingannarmi. Dovevo essere stato suggestionato da qualche falsa stregoneria dei sensi. Era tutto così assurdo e fantastico; in breve sarebbe tutto passato.

Allora, viva, in quel mare fluttuante di confusione mentale, come una campana nella nebbia, mi giunse la voce del <Dr. Silence, riportandomi alla consapevolezza che tutto quello che vedevo era reale:

«Sangree!.. nel suo doppio!»

Guardando di nuovo con maggior calma, vidi senz’altro che era effettivamente la faccia dal canadese, ma ritornata animale, eppure con misto all’espressione del bruto un curioso sguardo patetico, come di un’anima, talvolta individuabile negli occhi bramosi d’un cane… il muso di un animale vivamente improntato di mente umana.

Il dottore lo chiamò dolcemente, sottovoce…,

«Sangree! Sangree, povera creatura afflitta! Mi conosci? Ti rendi conto cosa stai facendo nel tuo “corpo del desiderio”?».

Per la prima volta, dalla sua comparsa, la creatura si mosse. Le orecchie si contrassero, e spostò il peso del corpo sulle zampe posteriori. Poi, sollevando la testa e il muso verso il cielo, aprì le lunghe mascelle, e diede sfogo a un lungo e lugubre ululato.

Nell’udire quell’ululato salire verso il cielo, il respiro mi si mozzò nella gola e mi sembrò che il cuore mi si rallentasse nel petto. Pur essendo, infatti, quell’ululato, un suono del tutto animale, era al tempo stesso altrettanto umano. Anzi, più ancora, era il grido che tanto spesso avevo udito negli Stati Americani dell’Ovest, dove gli Indiani tuttora combattono e cacciano e lottano… era il grido dei pellerossa!

«Il sangue indiano!» mormorò il <Dr. Silence, quando gli afferrai il braccio per sostenermi; «Il grido degli antenati!».

Quell’urlo penetrante, supplichevole, quella voce umana spezzata, mista con l’ululo selvaggio della bestia bruta, mi si immerse diretta nel cuore come una lama e vi toccò qualche cosa che nessuna musica, nessuna voce, appassionata o tenera, di uomo, di donna o bambino, aveva mai prima, per un solo secondo, chiamato in vita. Echeggiò, e si sperdette lontano, fra la nebbia e gli alberi, verso il mare nascosto. Per alcuni minuti, perdetti la coscienza dell’ambiente e mi sentii interamente assorbito dalla pena di quella creatura afflitta.

Di nuovo la voce del <Dr. Silence mi richiamò a me stesso.

«Ascoltate!» disse a voce alta. «Ascoltate!».

Il suo tono mi galvanizzò nuovamente. Stemmo ad ascoltare, l’uno accanto all’altro.

Da lontano, attraverso l’isola, risuonando fievolmente fra gli alberi e i cespugli, arrivò un grido analogo, di risposta. Era un grido squillante, acuto, eppure meravigliosamente musicale, tal da far vibrare il cuore con una singolare, selvaggia dolcezza. Lo udimmo raggiungere il suo tono più alto e quindi svanire nell’aria notturna.

«Viene dall’altra parte della laguna», esclamò il <Dr. Silence, ma questa volta a voce alta, noncurante di precauzioni di sorta. «È Giovanna! Gli risponde!».

Di nuovo, il meraviglioso grido si alzò e si perdette in lontananza. Nello stesso istante l’animale abbassò la testa e, col muso a terra, si mise a trotterellare, rapido e leggero, e si involò alla nostra vista, fra la caligine, come una visione materiata di vento.

Il dottore si lanciò rapidamente verso la tenda di Sangree e, seguendolo dappresso guardai dentro e colsi una momentanea visione di quel piccolo corpo rattrappito e afflosciato, disteso sulle frasche, avvolto solo a metà dalle coperte… la gabbia dalla quale la maggior parte della vita, e non poco dell’effettiva sostanza corporea, se n’era andata verso un’altra forma di vita e di energia: il corpo della passione e del desiderio.

Per un altro di quei rapidi e indefinibili processi che a quel tempo non ero ancora in grado di afferrare, il <Dr. Silence richiuse rapidamente, con le sue formule, in un cerchio magico, la tenda e il corpo che conteneva.

«Ora non potrà rientrare finchè non glielo permetterò io!», disse. Subito dopo si lanciava correndo nel bosco, mentre io gli tenevo dietro a stento. Avevo già fatto una buona esperienza dell’abilità del mio compagno di correre rapidamente attraverso un bosco foltissimo, ed ebbi un’altra prova della sua capacità di vedere al buio quasi completo. Dopo aver, infatti, abbandonato lo spazio aperto intorno alle tende, gli alberi si serrarono d’ogni parte intorno a noi, e compresi allora la speciale, preziosa sensibilità che si sviluppa nei ciechi: il senso degli ostacoli.

Per due volte, mentre correvamo, udimmo il lugubre ululato approssimarsi sempre più al fievole grido di risposta, proveniente dal punto dell’isola dove anche noi eravamo diretti.

Allora, ad un tratto, gli alberi vennero a mancare, ed emergemmo, sudati e ansanti, sulla punta rocciosa, da dove le lastre di granito si immergevano, nude e oblique, nel mare. Fu come affiorare all’aperto in un giorno luminoso. E là, nettamente delineata contro il cielo e il mare, stava la figura di un essere umano. Era Giovanna!

Mi avvidi subito che c’era qualche cosa di singolare e di insolito nella persona e nell’atteggiamento di lei. Ma fu soltanto quando ci fummo appressati, che riconobbi cosa ne fosse la causa. Mentre le sue labbra, infatti, esprimevano un sorriso che le illuminava tutto il volto di una beatitudine che non avevo mai vista prima, gli occhi erano invece fissi in uno sguardo vitreo, costante e senza vista, come se fossero privi di vita.

Abbozzai un’impulsiva mossa in avanti, ma il <Dr. Silence istantaneamente mi tirò indietro.

«No», gridò, «non svegliatela!».

«Che intendete dire?» domandai ad alta voce, dibattendomi nella sua stretta.

«Dorme! È un fenomeno di sonnambulismo. Lo spavento potrebbe arrecarle un danno permanente!».

Mi volsi e lo guardai fisso in faccia. Era assolutamente calmo. Cominciai a comprendere un po’ di più, afferrando qualche cosa del suo pensiero.

«Volete dare che cammina nel sonno?».

Accennò di sì col capo. «Si accinge ad incontrarlo. Fin da principio, egli deve averla attirata… irresistibilmente!».

«Ma la tenda squarciata, e le carni ferite, come le spiegate?».

«Quando essa non dormiva abbastanza profondamente per entrare nello stato di trance e di sonnambulismo, egli non la trovò… Da notare che egli era andato istintivamente e con tutta innocenza in cerca di lei. Ma poichè essa non dormiva, la venuta di lui ebbe come risultato, naturalmente, di svegliarla ed atterrirla…».

«Allora, nel profondo del loro cuore, si amano?» domandai infine.

Il <Dr. Silence sorrise con un sorriso impercettibile.

«Profondamente!», rispose. «E con un candore col quale solo le anime semplici e primitive sanno amare! Se entrambi riusciranno a realizzare il loro amore nel loro stato normale di veglia, il doppio di lui abbandonerà per sempre queste escursioni notturne! Egli sarà guarito e tranquillo!».

Le parole erano appena uscite dalle sue labbra, quando s’intese un rumore di frasche agitate alla nostra sinistra, e nello stesso momento il denso sterpeto si aprì e ne guizzò fuori l’agile forma di un animale lanciato al galoppo. Il rumore delle zampe era appena percettibile, ma in quel completo silenzio, udii il pesante respiro ansante, e colsi il fruscìo dei bassi cespugli divelti. L’animale puntò diritto su Giovanna… e mentre stava per raggiungerla, la ragazza alzò la testa e gli mosse incontro. Proprio in quel momento, un canotto che si era insinuato silenzioso e inosservato intorno alla costa interna della laguna, emerse dalle ombre e si delineò sull’acqua, con una figura ritta nel mezzo. Era Maloney.

Egli non ci vedeva, perchè eravamo praticamente invisibili, nel punto in cui ci trovavamo, sul cupo sfondo degli alberi. Le figure di Giovanna e dell’animale egli le vedeva distintamente. Io e il <Dr. Silence non potevamo invece veder bene perchè ci trovavamo più lontani. Ritto nel canotto, Maloney puntò, col braccio destro. Vidi che qualche cosa gli luccicava nella mano.

«Fatti da parte, Giovanna, figliuola mia, o sarai uccisa!», egli tuonò, mentre la sua voce rimbombava orribilmente nel profondo silenzio. Nello stesso momento, un colpo di pistola esplose con una vampata di fuoco e di fumo, e la figura dell’animale, con un tremendo scarto nell’aria, ricadde nell’ombra e scomparve, come una sagoma di notte e di nebbia. Subito dopo, Giovanna aprì gli occhi, si guardò intorno con aria trasognata e, premendosi le mani sul cuore, mi cadde con un acuto grido fra le braccia mentre giungevo appena in tempo per sostenerla.

Un grido di risposta risuonò attraverso la laguna… tenue, flebile, pietoso. Proveniva dalla tenda di Sangree.

«Pazzo, che siete!», gridò il <Dr. Silence. «Lo avete ferito!» e prima che potessimo muoverci e renderci conto che cosa precisamente intendesse dire, egli saltò nel canotto e si trovava già in mezzo alla laguna.

Molto probabilmente i rimproveri che rivolsi a Maloney, per aver disubbidito gli ordini del dottore furono assai vivaci. Lo investii davvero in malo modo, mentre cercavo di adagiare la ragazza al suolo. Il sacerdote accorse assai confuso, distese su di lei la sua giacca e spruzzò il suo volto con dell’acqua.

«Non è Giovanna che ho ucciso, in tutti i casi», lo sentii borbottare, mentre essa apriva gli occhi e gli sorrideva debolmente in volto. «Giuro che la palla è filata dritta».

Giovanna lo fissò. Era ancora tramortita e disorientata, e s’immaginava ancora, certamente, di essere insieme al compagno della sua trance. La strana lucidità del sonnambulo era tuttora distesa sul cervello e sulla mente di lei, benchè esternamente essa apparisse turbata e confusa.

«Dov’è andato? È scomparso così presto, gridando che era ferito», essa disse, guardando suo padre, come se non lo riconoscesse. «E se gli hanno fatto del male… lo hanno fatto anche a me…. perchè egli è per me più di…».

Le sue parole si fecero sempre più vaghe, mentre lentamente si risvegliava, e poi tacque del tutto, come se fosse stata colta a svelare dei segreti. Ma per tutta la strada del ritorno, mentre la portavano con cura tra gli alberi, la ragazza sorrise, mormorando il nome di Sangree e chiedendo se fosse ferito. Compresi allora chiaramente che l’anima selvaggia dell’una aveva richiamato l’anima selvaggia dell’altro, e che nei segreti recessi del loro essere il richiamo era stato inteso e compreso. Il <Dr. Silence aveva ragione! Nel profondo del cuore, troppo in fondo, forse, per averne coscienza, la ragazza lo amava, e lo aveva amato fin da principio. Poichè allo stato di veglia essa aveva ormai coscienza della cosa, essi si sarebbero certamente fusi come fiamme gemelle, e l’afflizione di lui sarebbe cessata. L’intenso desiderio sarebbe stato soddisfatto ed egli sarebbe guarito!

Io e il <Dr. Silence passammo il resto della notte nella tenda di Sangree. Quella notte meravigliosa e agitata, ci aveva presentato aspetti ben strani di un nuovo cielo e di un nuovo inferno… Il canadese si agitava sul suo pagliericcio di foglie di balsamo, con una forte febbre, e su ciascuna guancia di lui era visibile una strana contusione, dolorante al tatto, benchè la pelle non fosse lesa e non vi fosse nessun segno esterno di ferita.

«Maloney ha mirato bene, vedete!», mi mormorò il <Dr. Silence dopo che il sacerdote se ne fu andato alla sua tenda. Giovanna, nel frattempo, era stata posta accanto a sua madre, la quale, del resto, non s’era mai destata, neppure per un momento. «La palla dev’essere passata attraverso il muso, poichè entrambe le guance sono macchiate. Egli porterà questi segni per tutta la vita… più piccoli, ma indelebili. Rappresentano lo sfregio più curioso del mondo, uno sfregio cioè provocato di rimbalzo da un «doppio» ferito. Rimarrà visibile esattamente sino a poco prima della sua morte. Poi, ritirandosi il corpo sottile, scomparirà».

Le sue parole si confondevano, nella mia mente intontita, coi sospiri del dormiente turbato e con gli urli del vento intorno alla tenda. Nulla sembrava paralizzare così profondamente le mie facoltà di percezione, quanto quelle macchie gemelle dal misterioso significato, palesi sul volto davanti a me.

Fu pure assai strana la rapidità e la facilità con cui il campeggio si ridispose al sonno e alla quiete, come se un sipario fosse improvvisamente calato sull’azione, nascondendola. Avevo la sensazione di essere stato spettatore di qualche dramma immaginario, ma la natura drammatica del cambiamento, nel comportamento della ragazza, mi richiamava alla realtà.

Eppure, quel cambiamento non era stato tanto improvviso e rivoluzionario come sembrava. Sotto sotto, nelle regioni più remote della coscienza, non può esservi dubbio che l’amore di Giovanna per il canadese si fosse accresciuto costantemente e irresistibilmente, in tutti quei giorni. Era affiorato soltanto ora alla superficie, cosicchè essa lo aveva riconosciuto: ecco tutto!

Mi è sempre sembrato che la presenza del <Dr. Silence, tanto potente e tranquilla nella sua efficacia, producesse l’effetto, se così si può dire, di una casa di correzione psichica, e affrettasse incalcolabilmente il congiungimento di questi due amanti «selvaggi». A quell’improvviso risveglio aveva contribuito il crescendo psicologico richiesto per la rivelazione dell’emozione appassionata, accumulata nel profondo dell’essere. La conoscenza più intima si era spostata e aveva trasferito se stessa alla coscienza ordinaria di lei. In quell’urto, le personalità si erano scosse nell’intimo, rivelandole la verità, al di là di ogni possibilità di dubbio.

«Dorme tranquilla, ora», disse il dottore, interrompendo le mie riflessioni. «Se volete vegliare un po’ da solo, andrò alla tenda di Maloney, ad aiutarlo a rimettere in sesto i suoi pensieri». Sorrise, in previsione di quella «sistemazione». «Non riuscirà mai a capire perfettamente come una ferita inferta al doppio possa trasmettersi al corpo fisico. Potrò tuttavia persuaderlo che, quanto meno domani parlerà e “spiegherà”, tanto più presto le forze si rincanaleranno nel loro corso naturale di pace e di tranquillità».

Se ne andò silenziosamente, mentre Sangree, immerso in un sonno profondo, si voltava dall’altra parte gemendo dal dolore per la testa ferita.

Fu nell’ora silenziosa, esattamente prima dell’alba, quando tutte le isole giacevano silenziose, e il vento e il mare erano ancora immersi nel sogno, e le stelle ancor visibili attraverso la bruma, che una figura strisciò silenziosa sul crinale e raggiunse la tenda in cui sonnecchia-vo accanto al paziente. Prima che mi accorgessi della sua presenza, il lembo della tenda fu cautamente sollevato di pochi pollici e qualcuno spiò dentro… Era Giovanna!

In quell’attimo Sangree si svegliò e si pose a sedere sul suo giaciglio di frasche. La riconobbe prima che potessi dire una sola parola, ed emise un lieve grido. Era pena e gioia insieme, ed era questa volta una cosa del tutto umana. Anche la ragazza non camminava più nel sonno, ma era pienamente cosciente dei suoi atti. Riuscii a mala pena a impedire che egli balzasse fuori dalle coperte.

«Giovanna, Giovanna!» gridò, e subito essa rispose: «Sono qui!… Starò sempre con te, ora!». E passandomi dinanzi, nella tenda, gli si gettò nelle braccia.

«Sapevo che saresti venuta da me, alla fine», lo udii mormorare.

«Era una cosa troppo grande perchè potessi comprendere subito», essa mormorò, «e per molto tempo fui tanto spaventata…».

«Non ora, però!» egli gridò più forte. «Non senti ora paura di… di qualche cosa che è in me?…».

«Non temo nulla!», essa gridò. «Nulla, nulla!».

La ricondussi fuori. Mi guardò fissa in volto con occhi lucenti e con tutto il suo essere trasformato. In qualche modo intuitivo, sopravvissuto probabilmente al sonnambulismo, sapeva o supponeva altrettanto quanto io ne sapevo.

«Parlerete domani col <Dr. Silence!», dissi gentilmente, riconducendola verso la sua tenda. «Egli comprende tutto!».

La lasciai davanti alla tenda, e mentre ritornavo lentamente, per riprendere il mio posto accanto al canadese, vidi i primi raggi dell’aurora illuminare il lontano limite del mare, al di là delle isole lontane.

E, come per accentuare l’eterna affinità fra commedia e tragedia, due piccoli particolari si delinearono netti nella scena e m’impressionarono con tanta vivacità, che li ricordo ancora oggi. Nella tenda in cui avevo appena lasciato Giovanna, tutta tremante nella sua nuova felicità, risuonò chiaramente alle mie orecchie il rumore grottesco della «fata della dispensa», che russava profondamente, dimentica di tutte le cose del cielo e dell’inferno. E dalla tenda di Maloney, nella notte silenziosa, mi giunse, di tra gli alberi, il ritmo monotono di una voce umana, che era senza dubbio il canto d’un uomo assorto nella preghiera al suo Dio…

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Un cane al campeggio
AUTORE: >Algernon Blackwood

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Il medico miracoloso : John Silence / Algernon Blackwood. - Milano : Bocca, 1946. - 390 p. ; 19 cm.

SOGGETTO: FIC009050 FICTION / Fantasy / Paranormale