Titolo: Tutta la vita davanti, di Paolo Virzì, 2008
Con: Isabella Ragonese, Massimo Ghini, Valerio Mastandrea, Micaela Ramazzotti, Elio Germano, Sabrina Ferilli, Mary Cipolla, Tatiana Farnese, Caterina Guzzanti, Valentina Carnelutti, Paola Tiziana Cruciani, Niccolò Senni, Laura Morante (voce narrante).
«È strana, è laureata». Può capitare che una tesi di filosofia, in particolare su Marin Heidegger e Hannah Arendt, possa venire premiata con il massimo dei voti, la lode e il bacio accademico e che la ragazza laureata sia costretta a tamponare le necessità quotidiane con un lavoro a tempo, 400 euro al mese, in un call-center. Si sentirà estranea e le diranno che è «strana». Il giusto contrappasso per una filosofia troppo «debole» o «leggera» (in Italia, Vattimo, Severino) per sostenere il peso della crisi postmoderna? Il tema che Virzì ha scelto per la sua nuova commedia di costume galleggia – come dire – al centro della vasca in cui sguazzano e rischiano di affogare, folle di aspiranti Fratelli (e Sorelle) della Grande Tv, in attesa che «questa società» fornisca loro una soluzione diversa. L’inferno, intanto, li brucia. Il repertorio di pene è ciò che il regista, con lo sceneggiatore Francesco Bruni, esibisce come lasciapassare, di ritorno dalla visita in azienda, la Multiple Italia (elettrodomestici). Virzì prende spunto da una satira della scrittrice Michela Murgia, esperienza di vita messa online in forma di blog, e la restituisce al cinema con il suo stile sorridente e amaro, ben collaudato nel ’94 (La bella vita), quando la Ferilli era «la Lollo degli anni ’90″, e poi felicemente sviluppato in Ovosodo, My name is Tanino e Caterina va in città. La storia di Marta (Ragonese bravissima), la «filosofa» senza raccomandazioni, che passa dall’aula tombale della seduta di laurea (ma è proprio ridotto così il pensiero accademico?) al desk delle venditrici-telefoniste, è raccontata dalla voce fuori-campo di Laura Morante – sembra che non si possa fare più un film senza l’ausilio del «narratore» (cattiva coscienza letteraria). Nella prima parte, quando vieniamo introdotti nella struttura del call-center, l’accumulo di tipicità è talmente vistoso da destare il sospetto di un’insicurezza verso la trasparenza del «messaggio», ma poi vengono fuori angoli di «umanesimo», man mano che Virzì si sofferma a «spiare» i risvolti privati dei personaggi. E non solo di Marta, la quale, nell’immersione dei turni e dei premi, degli esercizi motivazionali e delle angherie psicologiche, si salva dall’annegamento (alienazione) anche grazie all’altro lavoretto, che ha trovato, di baby-sitter. Tutti gli altri, ciascuno al suo livello, hanno comunque a che fare con una «verità» e con una «poesia» della vita, che, sia pure in negativo, configura la consistenza delle loro diverse situazioni in un destino più generale, politico. Claudio (Ghini) è il boss un po’ farabutto ma tenero con la figlia che non vede mai, Daniela (Ferilli) è la telefonista, capo implacabile ma innamorata persa del boss, Lucio (Germano) è il venditore tradito dalla propria convinzione, Giorgio (Mastandrea) è il sindacalista un po’ sfigato (non c’è più molto da fare?), Sonia (Ramazzotti) è la svampita irrecuperabile (meno male che per la sua deliziosa bambina c’è Marta). Tutti bravi, gli attori reggono bene il compito di far vivere le figure quanto basta a non restare completamente prigioniere del tracciato simbolico. Si attende un finale. C’è una trovata un po’ «pazza» e sbrigativa, che non riveliamo. C’è l’ Oxford Journal of Philosophy che finalmente si decide a pubblicare il lavoro di Marta. Ma in sostanza, la morale della favola rimane incerta, un po’ vaga e leggera. Come la filosofia della laureata?