Tre bocci di rosa

(LEGGENDA)

di
Arrigo Fugassa

tempo di lettura: 17 minuti


I.

Mesti quella mattina avevano le tre sorelle i visetti, che così apparivano anche più perlati e fini del solito. Il loro padre doveva partire, per un viaggio lungo. E la mamma non c’era più, adesso: la mamma che quando il babbo, come stavolta, partiva, prendeva lei tranquillamente il governo della famiglia e lui allora non si dava pensiero di nulla, chè più fermo e a un tempo più dolce governo non poteva egli certo desiderare in vece del suo; per cui ogni cosa, in casa e della casa, sarebbe andata avanti benissimo, come se sempre il suo occhio di padrone fosse lì aperto e pronto e severo a vigilare. La mamma non c’era più; il babbo partiva; per un bel pezzo le fanciulle sarebbero rimaste sole, senz’altra compagnia che d’una vecchia serva, nella casa appartata, alta e scura come un maniero, all’ombra dei grandi alberi carichi d’anni, dalle cortecce travagliate di chiazze e catorzoli ch’erano proprio come sui volti umani i segni miserevoli dell’età.
Pena, quella mattina.
Ma quando il padre comparve, in tenuta di viaggio, al sommo della scala dov’esse l’attendevano in silenzio accorato, il suo aspetto sereno cominciò a riconfortarle. Era d’altronde una mattinata limpidissima, e il parco che di lassù, dalla loggia, vedevano come un quadro, di prospetto, si slargava già tutto lustro e fervido di primavera. La primavera eccola, era già qui, nelle gemme di cui i cento e cento rami conserti turgevano, nelle foglioline di cui si vestivano e ventilavano, colorando vezzosamente la malinconica nudità dell’inverno; era nell’aria medesima che dava insolito lumeggiamento e frescor virgineo e incantevole spicco a ogni cosa. Ilare canzone d’acque giungeva di là da quelle piante, dov’era una fontana con la statua antica, di marmo; e a quel canto le fogliolette verdi accordavano nel dolce mattino il loro sommesso fruscio. E uccelli, uccelli trillavano qua e là per il parco, invisibili in tanta vastità, ma pieni, si sentiva bene, pieni di vita e di gioia.
— Care le mie bimbe! – disse il padre, accarezzando il visino di quella più d’accosto, ch’era anche la più piccola, e gli occhi lionati di costei, che parevano spenti, ad un tratto s’illuminarono. Dalla mestizia di prima fioriva, ora, la tenerezza. Le altre due si strinsero in concorde moto alla sorella minore e al papà. – State buone, eh! Amatevi e… venite un po’ giù con me, in giardino?
— Sì! Sì! Sì!
Egli le precedette, giovenilmente, e quelle – le gaie gonnelle nella corsa ondeggiando – sembrò che volassero.
L’uomo, giù, si fermò a un cespo di rose rosse che vigoreggiava fra un ligustro e un leandro, a pie’ della scala. E rideva. Esse l’osservarono, un poco stupite.
— Buone vi voglio, neh?
Le ragazze fecero la faccia seria, compunta, e risposero ancòra: – Sì! Sì! Sì!
— Ecco – e il padre spiccò dal cespo, di tra le spine, un bocciolo, che parve rubino ingemmato a smeraldi – questo a te. E questo a te. E questo a te. – Un boccio aguzzo, duretto, ad ognuna. – Sarà per me la prova della vostra saggezza. Al mio ritorno voglio che me li mostriate tutt’e tre freschi come ve li ho dati adesso. Va bene? Siamo intesi bene eh?… E ora addio, care, addio!
Le strinse al petto una dopo l’altra, le baciò, con uno schiocco amoroso, sulla fronte liscia dove i capelli – bruni in questa, in quella biondi e nella terza castani – si spartivano in bell’onda di qua e di là. Poi corse giù pel viale, sulla ghiaia vezzosa, fino al punto, oltre il cancello, dove un servitore, anch’esso in abito succinto, da viaggio, teneva per la cavezza due cavalli insellati, uno baio e uno bianco, che scotevano la testa e scalpitavano inquieti. Montò agilmente in groppa al baio, misurò le redini, accomodò meglio qualcosa nelle sacca, mentre il servo inforcava il cavallo bianco; fece ancòra un largo, vivace, affettuoso gesto di saluto alle figlie e, spronati, gli animali insieme si mossero, all’ambio, scomparvero di là dal muro di cinta, d’onde la strada dritta come una sciabolata tagliava la campagna a perdita d’occhio. In fondo c’era, ma non si vedeva, argentea meraviglia, il mare.
Le tre sorelle erano rimaste lì, a mezzo il viale, con le mani levate nell’ultimo addio, che tosto ricaddero, le bianche dita ingioiellate di quei rossi e verdi boccioli.
Sorgeva il sole di là dalla cortina degli alberi e ogni cosa in un gran fremito gaudioso diventava d’oro.
Esse s’abbracciarono, mute; stettero un poco così, poi si lasciarono, ognuna mettendosi per conto proprio a pellegrinare nel parco. Il silenzio a quell’ora durava ancor grande, quasi per l’incantesimo della recente notte; ma alle ragazze sembrava di camminare come in sogno, il ritmo d’una musica fatta da sospiri lunghi, vaghi, lontani: strani.
Quella sera stessa udirono il corno. Stavano tutt’e tre sulla loggia, ancor tristi, con gli occhi al parco che trascolorava in penombra, come se una fata, la pallida Fata del Vespro, gli tendesse sopra un velo immenso; di verde pian piano si faceva viola, qua con sùbiti sprazzi d’acciaio, là con languidi riflessi di porpora; e il corno squillò d’improvviso, un po’ lontano, ma allegro, così allegro che fu per le tre sorelle come se una luce nuova, oltremodo vivida, miracolosamente s’effondesse sul paesaggio, ovunque volgevan quegli occhi pensosi. La malinconia del crepuscolo fu tosto sgombrata, soffiata via come per opera d’un invisibile mago. Si guardarono meravigliate. E intanto il corno ripetè il suo appello, alto, arguto, ben modulato, già più vicino, più vicino e festevole. Grida maschie, gioconde anch’esse, risposero di sotto le vòlte scure degli alberi. Si levaron pure guaiti e latrati. Repente un passo di galoppo sonò ai margini misteriosi del parco. Un cavaliere apparve al cancello, come sbalzando allora da un nascosto plinto di bronzo. Le vide sùbito, nel roseo lume che cingeva alla loggia un’aureola, e franco e solenne le salutò con gran cappello piumato. Era un giovine in giustacuore d’azzurro oltremarino, con alti stivali lucidi e sproni d’argento. Esse, lietamente sorprese lo inchinarono con molta grazia. Quell’apparizione inaspettata le fascinava.
Il giovine cavaliere scioltamente s’inoltrò nel viale. Era sceso d’arcione in un guizzo e con le redini avvolte alla mano manca si tirava dietro il cavallo, docile, cui nappe di schiuma intridevano il pelame falbo; nell’altra teneva il cappello e l’agitava ancòra in alto gentile, accompagnando l’atto medesimo con un sorriso aperto e nobile.
— Sono il figlio del vostro Re – annunciò, non orgoglioso, anzi reverente, con la man ritta sul cuore, tosto che giunse a pie’ della scala, proprio accanto al cespo delle rose rosse, sotto la loggia di dove le fanciulle tutt’e tre si sporgevano trepidanti e un poco rosse, anche loro, a somiglianza delle rose paterne. – La partita di caccia oggi è stata lunga assai più del solito; dalle rive del fiume presso la città, via via per le foreste, dietro la muta indefessa, son pervenuto sin qui: ormai è troppo tardi per ritornare e rientrare in tempo a palazzo. Ho scorto dianzi la vostra dimora, così serena. Sarete tanto garbate, belle mie, da accordarmi qui ospitalità per stanotte?
E il suo accento era umile, ancorchè fermo.
Quelle tutt’e tre risero, insieme; poi la maggiore, sogguardate le sorelle, con la manina perlacea e le pupille scintillanti gli accennò di salire, di restar servito, dicendo forte e spiccatamente:
— Sarà per noi grande onore, bel principe, avervi stasera a capo della nostra mensa modesta.
Era ben un modo cortese, ma non impegnativo, non disonesto, anzi lealmente limitato, d’accogliere l’ospite del sangue regio.
E gli mossero incontro, figurine chiare, con accenni quasi di danza, per la scalea che s’annerava come ogni altra cosa intorno nella molle le soavità del crepuscolo.
Disinvolto come nella sua reggia, il principe assicurò da se stesso il docile cavallo a un arpione e presto e prestigioso al tintinnar degli sproni salì a rendere omaggio alle belle.
Oltre gli alberi ormai perduti in un sol viluppo con l’ombra, la fonte cantava sempre, come la mattina, ma con voce un po’ più sommessa; intimorita forse dall’ombra; e quel suo chioccolio, a dargli retta, avrebbe rivelato allora una cadenza quasi burlevole. Ma non le badarono. O se mai le dettero un senso patetico.

II.

— E adesso, bambine mie, fatemi un po’ vedere quei tre bottoni di rosa… vi ricordate?… che vi lasciai e raccomandai tanto innanzi di partire – disse il padre, quando fu tornato dal suo lungo viaggio circa un anno dopo – e potè alfine sciogliersi dal triplice abbraccio, così teneramente ripetuto e protratto, con le sue ragazze.
Fu prima la più piccola di queste a rispondergli, lesta e franca:
— Ah, sì, sùbito, papalino caro, te li porteremo e mostreremo qui a una una.
E con un improvviso lampo dei grandi occhi lionati e un atto imperativo della testa leggiadra, ch’era tutta un’onda lucente e odorosa di capelli castani, ella accennò alle sorelle di seguirla di là.
Non ci volle di meno – dico d’energia – per togliere quelle due dal grave imbarazzo in cui la domanda, pur tanto prevedibile, del babbo le aveva messe subitamente.
Erano assai pallide tutt’e due, di là, e fissavano sulla sorella minore gli sguardi smarriti.
Essa, pronta e sicura, cavò da un vasetto di nitido cristallo su una mensola di palissandro coperta da un pizzo di pregio – lavoro della povera mamma, ancòra, – il suo boccio di rosa, fresco davvero come l’aveva ricevuto dalle mani paterne quella mattina, tanto tempo prima; coi suoi colori naturali e vivi, quasi ancor lucidi di rugiada; proprio un rubino ingemmato a smeraldi; e lo porse alla sorella maggiore – la bruna – spingendo poi risolutamente costei nella sala attigua, dove il padre aspettava; e intanto con un’altra occhiata molto energica le aveva imposto disinvoltura. Al ritorno, sollecito, della bruna, che sorrideva tutta, libera d’affanno, il boccio passò alla bionda, ancor trepida. Infine si presentò tranquillamente la piccola al giudizio del genitore.
Questi guardò appena il bocciolo in mano alla prediletta; ormai era rassicurato; chiamò tosto anche le altre, e appariva molto soddisfatto; sentenziò ch’erano state buone, come le aveva volute, e di ciò assai le lodava – ancorchè questo della mia piccola – soggiunse, abbracciandola di nuovo, a parte – mi sembri un po’ meno sciupacchiato degli altri due.
E rise, rumorosamente, talchè non s’accorse dei sospiri, come di sollievo, della bruna e della bionda.
Poi se n’andò di sopra a dormire. Era così stanco del viaggio. E gli faceva tanto pro’ il buon vecchio letto di casa sua, dopo tante notti dormite malamente nelle locande, in apprensioni continue, o, peggio, passate all’addiaccio o a cavallo, per strade sconosciute, insidiate da malandrini, in aperta campagna, tra forre forteti, o, peggio ancòra, vegliate in mare, in fortuna, su esili legni sbattuti come dalla mano convulsa d’un invisibile eppur formidabile persecutore.
Le figlie senz’altro profittarono della libertà in cui venivano a trovarsi per correre a confabulare assieme nel parco, che di nuovo la primavera inverdiva e rallegrava, come quel giorno lontano, quando papà era partito. Là, al sicuro, le due più grandi premurosamente ringraziarono la sorellina che con tanta scaltrezza le aveva salvate agli occhi del padre. Poi esse un poco s’immalinconirono a ricordar l’avventura.
Un anno! Un anno era passato dalla sera che il bellissimo principe era venuto come dal Reame dei Sogni a chiedere ospitalità per una notte nella loro casa solinga… Aveva parlato d’una notte e c’era stato tre. Ma se le due prime le aveva trascorse… eh, sì, diciamolo pure… abbastanza piacevolmente, la terza gli era stata assai meno propizia e da quella casa solitaria e adombrata come il Rifugio della Felicità egli se n’era andato, all’alba del giorno successivo, in modo ben diverso da come v’era giunto tre sere innanzi.
Mentre le altre due sospiravano ancòra, e senza infingimenti, al riparo come si sentivano da ogni sguardo indiscreto, la piccola nei grandi occhi lionati aveva un irreprimibile riso. Oh! l’amante della bruna e della bionda lei l’aveva conciato per le feste: proprio!
Stasera a te. Tocca a te, sai. Con che aria di monello, spavaldo, mi diceva così, la terza sera. Voi eravate fuori, qui in giardino. Lui, su nella sala, s’era levato impetuosamente da tavola e voleva a ogni costo stringermi nelle sue braccia. Un momento! Un momento, signorino mio! io gli gridavo, sfuggendo e proteggendomi con le sedie, che gli cacciavo davanti. Ci vuole un patto, prima. Si fermò e stette a guardarmi un poco, stupito. Un patto? Che patto? Voi non gliene avevate mica posto, di patti. La cosa gli riusciva nuova. Ma io sùbito risposi: Dovete promettermi, Altezza, di far tre salti… appena entrerete di là, nella mia camera. – Tre salti? Oh, se non vuoi altro!… E ridendo sciocco e inebriato mi disse di sì, che li avrebbe fatti volentieri. E li fece, poi: oh, li fece bene davvero… Al terzo, più forte degli altri, le tavole dell’impiantito, come io avevo disposto, ribaltarono con un colpo secco, lui cadde, precipitò giù a capofitto, e lo sentii tosto diguazzare e annaspare e bestemmiare là sotto, in quella broda.
E la fanciulla non potè proseguire, soffocandole le parole in gola un nuovo scoppio d’ilarità, più violenta.
Le altre due non potevano far eco a quelle risa. Pensavano ai loro bambini, nati tre mesi prima, e che esse, al colmo della vergogna e della disperazione, avevano portato alla Regina, perchè pensasse lei ad allevarli.
Riprendendosi dopo qualche istante, la piccola aggiunse: – In quell’arnese, e con quel profumo, chi sa se l’avranno riconosciuto e come l’avranno accolto le guardie al portone della reggia!…
— E se ce n’andassimo a riposare anche noi come papà? – propose a questo punto la grande, non riuscendo più a dissimulare un certo fastidio.
— Sì, andiamo. – Andiamo pure.
Risalirono prestamente, in fila indiana, ultima la più piccola; e dietro a loro il parco anch’esso sembrava voler addormentarsi sotto la lieve ed effusa coltre dorata del sole meridiano.
Inaspettato, e più aitante e baldanzoso che mai, il principe ricomparve il giorno dopo al cancello, nel giustacuore d’azzurro oltremarino di quella sera lontana, piena di così molle incanto. Aveva stavolta una scorta in corazza ed elmo lampeggianti e un araldo, vestito di velluto cremisi, al cancello sonò, no, non il corno da caccia che le tre sorelle aveva udito quella sera e ch’era stato il primo, subdolo incantatore, per esse, ma una lunga e sottile tromba d’argento. Parve che tutte le foglie degli alberi e dei cespugli vibrassero deste e concordi a quello squillo come quando s’è levato il vento e scorre la prima raffica.
Il padre delle tre ragazze non aveva avuto mai la ventura di parlare a un principe reale e ci si può bene figurare con che orgasmo di letizia ricevette quello nella sua casa.
Ma letizia e orgasmo crebbero a dismisura quando nel colloquio che volle aver sùbito e da solo con lui il principe gli chiese graziosamente la mano della più giovine delle sue figliole. Disse d’averla veduta un giorno che lui passava a caccia da quelle parti, e che gli era piaciuta assai, che voleva farla sua, prepararla a salire al trono con lui, poichè suo padre, sebben contro il parere dei consiglieri della Corona, l’aveva lasciato del tutto libero di scegliersi una sposa secondo il cuor suo, non a norma delle fredde ragioni dinastiche.
Il pover’uomo, a un discorso come quello, aveva la testa in fiamme, e forse balbettava, sentendosi addirittura presso a mancare. Un onore, una felicità simile non l’avrebbe immaginata mai più. Sua figlia, proprio una e la più piccola di quelle sue tre care creature, andare in moglie a un Re di corona, diventar Regina del loro paese!
La prescelta, appena lo seppe, non si turbò.
— Ho visto anch’io il principe, tempo fa – disse ferma e spedita al padre che gliene parlava, confuso, – mi piace; acconsento.
Le sue sorelle scoppiarono a piangere, come furono sole con lei e lei ebbe svelato loro ogni cosa, e in mezzo ad acute strida la chiamavano traditora.
Ma le nozze si fecero, e abbastanza presto, giacchè il fidanzato manifestava un’amorosa impazienza, e in tutto il reame, a memoria d’uomo, non si rammentava un fasto eguale.
Per tutta la durata della cerimonia, la Regina, madre del principe, covò con gli occhi la sposa cui l’eccezionale solennità non dava che di tempo in tempo qualche lieve tremito di colombella spaurita, conferendole per altro in quei momenti una grazia nuova, un fascino anche più delicato. E tutte le volte che il suo sguardo sollecito incontrava quello della giovine velata ch’era ormai sua nuora, raggiava una commossa tenerezza. Il principe al contrario quel giorno aveva un aspetto più fiero e chiuso del solito.
Venne così la sera della fausta giornata e la folla corrusca e garrula degli invitati – dame in diadema luccicante e frusciante strascico, generali in pennacchio e sproni tinnuli, dignitari in marsina a larghi ricami d’oro – sgombrò alfine le scale infiorate e fulgide del palazzo. Anche il popolo clamoroso sciamò dalla piazza. Tutte le luci ad una ad una si spensero, mentre la fragranza straordinaria dei fiori impregnava l’aria maliosamente. Gli sposi, accompagnati dalla Sovrana, mossero verso le loro stanze.
Sulla soglia di queste, d’improvviso la madre trattenne il figlio con un gesto autoritario:
— Scendi a pregare un poco nella cappella. Devo parlare a mia nuora. Ti farò chiamare prestissimo. Va.
Alla Regina il principe sapeva di non poter ostare e discese, sebbene in cuor suo malcontento.
Fu chiamato da una damigella di Corte in cuffia di raso giallo, pochi minuti dopo, mentre, anzi che pregare, s’aggirava indispettito per la cappella in penombra, col pugno nervoso sull’elsa della spada, e ogni poco svolgeva il capo all’entrata, pensando se non era proprio il caso, una volta tanto, di disobbedire alla madre.
Corse su, fremebondo come nel punto culminante delle sue partite di caccia. La Regina era scomparsa. Nessuno si mostrava al suo passaggio. Tutto era quieto, propizio. La porta della camera nuziale era socchiusa e la carnera oscura. Questo poteva parergli strano e invece gli piacque. Vi balzò dentro come un felino, cautissimo. Si chiuse in fretta la porla alle spalle, e sguainò la spada, si buttò sul letto abbassandola con un colpo di taglio, violento e netto.
— Così la paghi per tutte – ringhiò sinistramente. – Paghi la vile caduta che m’hai fatto fare in casa tua e anche il perfido consiglio che hai dato alle tue sorelle di portar qui a mia madre i due marmocchi…
Qualcosa di molle s’era fenduto, spaccato alla cruda botta, e come un gorgoglio lieve lieve s’udiva, che vuotava d’odio il tumido cuore del principe.
Egli si protese sul letto, brancicando le coltri: un rivolo tepido venne al tocco delle sue dita: sussultò, poi si chinò in quel punto: tepido e denso era il liquido che le sue dita convulse sentivano. – Che sangue odoroso! – Ora ne aveva intrisa la mano e inconsciamente se la portò alle labbra. – Oh, che dolcezza!… Che dolcezza strana! Possibile che il sangue di lei fosse dolce così?
E uno spavento allora lo prese dell’atto furioso commesso, un terrore subitaneo, un rimpianto folle di colei che aveva uccisa, così tenera e dolce, che poteva essere per sempre la sua cara sposa e renderlo per sempre felice.
Cacciò un urlo disperato. L’intese la Regina sua madre che accorse lesta alla porta e bussò concitata. Egli aperse, frenetico, le si gittò ai piedi, rompendo in lacrime e confessandole tutto.
Ella vide, lesse sul viso stravolto del figlio l’angoscia atroce e il pentimento sconsolato: gli pose la mano fresca e leggera sulla fronte madida.
— Torna giù, a pregare – gli sussurrò, china, come sul suo bimbo d’un tempo. – Prega fervidamente Iddio che risusciti la tua sposa. Vuoi? Vuoi ch’ella torni in vita? L’amerai davvero dopo?
Egli, fuori di sè dalla sùbita, grande speranza ch’ella gli faceva balenare, non potè nemmeno esprimere quel che aveva come un fuoco nel cuore e si precipitò giù, come forsennato, nella cappella, dove stavolta s’inginocchiò e implorò sul serio, con tutta l’anima a fiore delle labbra sbiancate e tremanti.
La madre stessa discese pianamente a prenderlo, poco di poi, e a quel riflesso blando, che a tutte le cose intorno metteva un cerchio con un luminoso sorriso gli accennò di tornare di sopra.
Volò per le scale. Ora nella camera avevano acceso la lampada e magico, egli scorse sua moglie, con la testa bendata, che gli sorrideva dolcemente, dolcissimamente, sebbene in fondo ai suoi occhi lionati si potesse sorprendere ancòra in quell’attimo un velo di fuggitiva tristezza.
Il principe, da allora, fu veramente, durevolmente felice. E non seppe mai che sua madre, intuiti col presago cuor delle mamme i neri propositi con cui egli aveva contratto le nozze, s’era adoprata destramente a sventarli, avvertendo in tempo la nuora e al posto di lei, nel letto nuziale, mettendo per il primo incontro da soli, la sera, una zucca piena di miele: quella che la spada del sanguinario figliolo aveva colpito con tanto impeto.
Seppe invece riparare al male che poco più d’un anno innanzi aveva fatto alle due sorelle della sposa: alle quali détte per mariti due dei suoi gentiluomini fra i più valenti; ed esse, con i nuovi, riebbero i figli primogeniti, anche più cari al loro cuore che per essi aveva tanto patito.
Lui e sua moglie regnavano da un pezzo, ormai, ed erano carichi d’anni, di figli, di gloria, che lei conservava sempre nel libro delle preghiere quel famoso boccio di rosa e di tratto in tratto l’odorava nascostamente, aspirando da quelle fogliette insecchite e smorte qualcosa di tanto acuto che la lasciava ogni volta e per gran tempo smemorata, assorta e come in estasi.

Arrigo Fugassa

Fine.


Troverai tanti altri racconti da leggere nella Mediateca di Pagina Tre (clicca qui!)


Liber Liber

Scopri sul sito Internet di Liber Liber ciò che stiamo realizzando: migliaia di ebook gratuiti in edizione integrale, audiolibri, brani musicali con licenza libera, video e tanto altro: https://www.liberliber.it/.

Fai una donazione

Se questo libro ti è piaciuto, aiutaci a realizzarne altri. Fai una donazione: https://www.liberliber.it/online/aiuta/.


QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Tre bocci di rosa
AUTORE: Fugassa, Arrigo

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: Tre bocci di rosa (leggenda) / Arrigo Fugassa. - in: Le opere e i giorni - Rassegna mensile di politica-lettere-arti-etc. diretta da Mario Maria Martini. - anno XVI n. 1 - 1° gennaio 1937. - p.36-46, 24 cm.

SOGGETTO: FIC019000 FICTION / Letterario