Pubblichiamo una recensione di Alessandro Cartoni del romanzo Spiaggia libera Marcello di Igino Domanin, pubblicato da Rizzoli nel 2008.
Un barbaro in paradiso
Che succede quando tutto sembra crollare nell’esistenza individuale? Quando un piccolo incidente – un investimento sulle strisce pedonali – si trasforma nella metafora del fallimento e dell’impotenza? C’è una Punto Bianca che perseguita i sogni di Marcello, filosofo fallito e deluso dai meccanismi clientelari dell’università e costretto a sbarcare il lunario negli istituti professionali della profonda periferia milanese. Marcello ha una moglie, Annalisa, che perde progressivamente l’uso dei muscoli e della parola mentre lui assiste impotente all’affiorare della sclerosi multipla. Il romanzo d’esordio di Igino Domanin, Spiaggia libera Marcello, ci pone di fronte alla condizione del singolo, un soggetto come tanti altri, vissuto nella cultura e nei libri, che patisce interiormente una crisi intellettuale e un declassamento sociale senza precedenti. Gli sono preclusi la felicità e il benessere economico. Il destino dunque dell’esistenza intellettuale nell’epoca della globalizzazione sembra essere la solitudine e una specie di passione triste.
La sua odissea spirituale tuttavia è permeata da una profonda coscienza, forse dal vizio di una sistematica autocoscienza, che gli permette di guardare le cose, il mondo e gli altri senza perdere la propria carica di ostilità e di critica. «La singolarità infatti è il luogo della massima intensità della contraddizione; là dove la resistenza, quindi, non è motivata da appartenenze o da programmi, ma è il solo e nudo fatto di esistere in un certo modo che crea i termini dell’ostilità»
La carica filosofica e paradigmatica del romanzo di Domanin si impone da sola, come se la storia di Marcello fosse una fenomenologia dello spirito alla rovescia, come se alla fine del viaggio, un viaggio irto di pericoli, inganni, ostacoli e buio, s’imponga non la coincidenza dello spirito con se stesso ma una sorta di ritorno allo stato di natura. In questa nuova dimensione dove la carne non è più nemica e le parole diventano superflue «Io sono io, una evidenza che devo proteggere e sorvegliare. ( […]) Fissare i confini e respingere le violazioni. Per troppo tempo mi sono trascurato, ho vissuto in un mondo di marionette, nelle menzogne di una cultura sopraffatta, in mezzo a un cumulo di emozioni senza significato. Sono tornato ai miei palpiti. A silenzi che sono finalmente miei. Qui tutto è mio»
Ma come raggiungere questa sorda chiarezza?
Lo squarcio nella esistenza asfissiante e cupa del protagonista arriva con una telefonata del suo vecchio compagno di studi Roberto Panzeri che lo invita a seguirlo per un incarico a contratto nella sua nuova università svizzera nei pressi di Lugano. Panzeri, che svolge nel libro una funzione mefistofelica, è la perfetta incarnazione dell’intellettuale di successo uscito indenne dalle sbornie postmoderne, e trasformatosi in mentore e maestro del protagonista. Questa figura vincente e immorale che non smette di umiliare Marcello sembra l’esempio di colui che non si è fatto infinocchiare dall’idealismo culturale e dalle paranoie. «Panzeri non è più un inerme, conosce i veleni, emette sostanze viscide e micidiali. Sta imparando da solo a proteggersi e sopravvivere. A difendere la propria vita. A costruire le barricate della propria salute»
Dunque a Marcello sembra proporsi una rinascita fisica e intellettuale. Tutto nella nuova università ha il sapore della pienezza: dagli ambienti interni che sconfinano nell’esterno attraverso precise architetture in vetro, all’uso dei pattini, alla organizzazione efficientissima e umanistica del campus dove il rapporto tra professori e studenti è diretto e familiare.
Tuttavia catturato in situazioni equivoche che ricordano Houellebecq e vibrazioni metafisiche che sembrano emanare dal lago alpino nei presi del campus, il protagonista impara sulla sua pelle che non è tutto oro quello che luccica. Alla fine, dopo la disfatta, Marcello capirà che solo un’autentica riscoperta della «barbarie» e delle radici della natura individuale è in grado di garantire la liberazione.
Scrive Domanin nel suo saggio filosofico Apologia della barbarie – che funziona secondo noi come un utilissimo commento al romanzo- «L’incapacità di agire in cui siamo sprofondati procura il panico. Il conforto della poltrona su cui poggia lo spettatore annoiato e imbolsito non lascia tranquilli. ( […]) L’animale umano, però, si scrolla di dosso il velo, se non riesce più a vivere chiuso nel suo mutismo. L’animale umano si alza e parla. Rivela sotto la luce del mondo il fatto che siamo in presenza di un essere umano che non approva più la mortificazione della propria condizione: egli vuole la propria autenticità. Comincia così ogni cultura. Con l’atto ostile e irreparabile di una ribellione».
Con questo romanzo Domanin riflette sulla condizione attuale dell’uomo e sul declino della specie umana ponendo l’unica domanda essenziale del nostro tempo: c’è qualcosa al di là della Storia? Quando tutto sembra compiuto e già accaduto, quando il soggetto occidentale ha concluso la parabola della civiltà richiudendosi e congelandosi dentro i propri valori, che cosa rimane? Dopo che l’Occidente si è rinchiuso in se stesso, che cosa resta da fare?
Come l’anarca di Junger che si dà alla macchia, che si ritrae nel bosco per meglio colpire, Marcello di fronte al mare di Ibiza, al sole, al cielo e alla vita come festa immotivata, può cominciare finalmente a vivere.
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