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Nicoletta Sipos, La guerra di H, Piemme, Milano 2023, pp. 364, € 18,90, Isbn: 978885669010
La narrazione letteraria o cinematografica della seconda Guerra mondiale ci ha abituato all’ottica visuale degli Alleati o, meno frequentemente, degli oppositori interni al regime nazista. Pochissimo spazio, invece, al popolo tedesco, sottoposto a una propaganda incessante, oppresso dal timore e dalla paura delle delazioni e che forse si è reso conto tardi – o, in alcuni casi, ha preferito non vedere – l’ingiustizia e la tragedia che si stavano preparando. La guerra di Hitler, oltre che contro il mondo intero, si è rivolta contro il suo stesso popolo, che ha impiegato decenni a liberarsi da un collettivo senso di colpa.
Quest’ottica inusuale è invece quella da cui è raccontata la storia che ho tra le mani, pubblicata all’inizio di questo 2023 da Nicoletta Sipos. Un romanzo, che però si basa su una storia vera, raccontata all’autrice dal protagonista, Heinrich Stein, incontrato anni fa in Massachusetts. H. era nato il 24 maggio 1931, primo dei cinque figli maschi di un padre di cui portava lo stesso nome. Una famiglia felice e anche agiata: il padre era stato chiamato come direttore commerciale di uno stabilimento che la Junkers aveva aperto nell’aeroporto di Langensalza per la produzione di un nuovo tipo di veivolo militare.
E, attraverso gli occhi di H, con la progressiva consapevolezza di bambino e poi di ragazzo e di giovane precocemente adulto, ci è consentito rivivere i timori, le speranze, le contraddizioni dei tedeschi di allora. Dalle ristrettezze della prima parte della guerra, pur nella sua fase vittoriosa, e dalla diffusa paura della delazione per chi non si mostravano “buon cittadino” del Reich, alla povertà disperante degli ultimi mesi di guerra, la distruzione totale di una nazione e il suo smembramento, alla percezione della condanna di un intero popolo. «“Siamo tutti marchiati a fuoco” mormorò Jenell. “Le colpe del Reich ricadono su ogni singolo tedesco. Nessuno di noi può dirsi davvero innocente”» (p. 228).
Heinrich ha riflettuto un’intera vita sulle colpe vere o presunte dei suoi genitori e del suo popolo. «Finimmo tutti nello stesso calderone: i colpevoli attivi (relativamente pochi), i simpatizzanti (molti di più) e la gran massa dei quasi innocenti (silenziosi e passivi). Perché, negli anni me ne sono reso conto, nessuno di noi era del tutto innocente. La maggioranza aveva sbagliato rifiutando di vedere, di capire, di reagire» (p. 164).
Nicoletta Sipos conosce a fondo quella terra e quel popolo, ha trascorso parte della sua vita in Ungheria e in Germania, da anni affianca alla sua attività giornalistica e letteraria quella di traduttrice dal tedesco. Una conoscenza esperienziale che le permette di non cadere nelle trappole dei luoghi comuni…
La storia tragica della popolazione si intreccia a quella, altrettanto dolorosa, della famiglia: un primo arresto del padre da parte dei nazisti e una detenzione di quattro mesi, gli ultimi della guerra, la decisione di restare nella zona che sarebbe entrata nell’orbita sovietica, il secondo arresto del padre, questa volta ad opera dei sovietici; e poi la fuga nella parte occidentale della Germania, la povertà estrema e quasi paralizzante. «Un incubo senza fine». Eppure accade il miracolo di un padre che riesce a tenere unita una famiglia con la sua assenza, attraverso l’amore assoluto di sua moglie.
La guerra perduta, che aveva causato la morte di più di sette milioni di tedeschi, ne aveva consegnati altri tre in mano ai sovietici. La tenacia di Konrad Adenauer ottenne infine il rilascio di molti di loro nel corso del 1950, ma altri diecimila vennero liberati solo tra il 1955 e il 1956. All’appello però mancò più di un milione di prigionieri, che non fecero ritorno…
Suonava davvero beffarda, allora, la motivazione che la propaganda aveva sempre ripetuto in occasione della prima fase espansiva del Reich: «Correva voce che lì ci fossero migliaia di tedeschi maltrattati, affamati, torturati e perfino uccisi che invocavano il nostro aiuto. Tedeschi cui i polacchi vietavano di parlare la nostra lingua, di studiarla, e di apprezzare la cultura germanica. Avevamo il sacro dovere di difendere anche loro come avevamo fatto con gli austriaci e con i tedeschi dei Sudeti» (p. 87).
Al termine della Nota conclusiva, l’autrice rivela la motivazione decisiva a scrivere una storia che pur conservava da tempo dentro di sé: «Ho iniziato questo romanzo all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina, colpita dalle assonanze tra le giustificazioni addotte da Putin e quelle scelte quasi novant’anni fa da Hitler. Ho continuato a scrivere con crescente emozione e assoluta fiducia nel dovere della memoria. Dobbiamo ricordare i soprusi, le violenze e le sofferenze del passato perché, come disse un saggio, chi dimentica la Storia è condannato a ripeterla. Le vicende del piccolo Heinrich sono una lezione preziosa. Purtroppo, la guerra di Hitler contro milioni di nemici – e contro il suo stesso popolo – non è un esempio isolato. Basta aprire i giornali per averne conferma» (p. 362).