Senza vederlo

di
Salvatore Di Giacomo

tempo di lettura: 10 minuti


Siccome in questo mondo chi pensa a casi suoi e mette le cose a posto è chiamato accorto, così, quando dopo la morte di Selletta, spazzino, il quale prima aveva fatto il fiaccheraio e prima ancora avea governato un negoziuccio di commestibili, la vedova Carmela ricoverò un suo maschietto all’Albergo dei Poveri, la bambinella mandò a imparare a cucire da una sartina, e si tenne in casa soltanto il marmocchio che le succhiava la vita appeso tutta la santa giornata al petto vizzo, parecchie delle vicine, e furono le più attempate, dissero che avea fatto bene a provvedere a quel modo alle cose sue, sconsolata e impoverita come Selletta l’avea lasciata. Dissero le altre, poche, e furono le mammine fresche del vicinato, le quali cominciavano con la prima maternità a raccogliere tutto l’amor loro sui figliuoli, che questi erano il riso della casa e che proprio ci voleva un cuore assai duro per allontanarli e un coraggio, via, un coraggio!

— Come fate a rimanere sola sola? – diceva alla vedova Nunziata Fusco, una bionda grassotta, con in collo un bambino biondo e grassotto come lei.

— Dite voi, – piagnucolava Carmela, – come avrei potuto fare con tre angioletti attorno? Sono tre bocche, sono. E poi Nanninella, voi sapete, torna a sera dalla sarta e la notte mi fa compagnia. Impara l’arte, oramai è grandicella. Per Peppino…. voi dite che…. lì, all’Albergo…. è brutto, non è vero?

L’altra diceva:

— Sentite, me ne sarebbe mancato il coraggio. Voi non lo vedete più, Peppino, e lui non vede più voi. E chi chiama se s’ammala?

— Come! Allora non sapete niente. Lì si trova come a casa sua e niente gli manca…. Ah! è vero, – soggiungeva con le lagrime agli occhi, – io non avevo pensato a questo, ma già, avranno medici e medicine, e se accade che lui s’ammali, lontano sia, me l’hanno da far sapere.

— Vi dico che non lo fanno sapere, – sentenziava la Fusco, carezzando il suo marmocchio, come per dire a Carmela: «Questo qui, vedete, me lo tengo io, che sono la mamma, e non uscirà mai di casa sua».

La vedova rientrò in casa e corse a baciare così forte il suo piccino, che dormiva nella culla, da farlo svegliare in un sovrassalto. Il piccino si mise a piangere.

— Bello mio! – fece lei. – Zitto, via, zitto! Oggi andiamo a trovare Peppino.

Era venuto l’inverno a un tratto, con giornate buie e rigide. La casa di Selletta stringeva il cuore, tutta occupata dall’oscurità. Appena, di sotto l’uscio, ci si vedeva il lettuccio di contro la parete ove gli strappi al parato scoprivano la grigia nudità del muro. L’umido penetrava nelle ossa; Selletta lì dentro ci aveva perso la salute.

La vedova imbacuccò alla meglio il piccino e lei si buttò addosso lo scialle nero che a quello era servito di coltre, nella culla. Cercava ora la chiave della porta. La trovò nella cenere fredda del braciere che, con quella, aveva scavata il giorno prima, per riattizzare il fuoco.

— Andiamo da Peppino, – ripeteva al marmocchio, chiudendo l’uscio.

La viuzza, trafficata dai piccoli venditori e dal vicinato in movimento, pareva allegra. Nel lontano, per un vicoletto che vi sbucava, una larga striscia di sole attirava i passanti, i quali si fermavano apposta in quel po’ di caldo a chiacchierare.

— Dove andate? – chiese alla vedova una vicina. – Avete vista la buona giornata e andate a spasso?

— Andiamo da Peppino, – disse Carmela, mettendo in tasca la chiave.

— Peppino chi?

— Peppino mio figlio, che ho messo a scuola all’Albergo dei Poveri quando Selletta è morto, buon’anima sua. È stato lui che me l’ha raccomandato. Diceva: Mettilo lì perchè impara l’arte e porterà pane alla casa.

— E voi l’andate a trovare?

— Sono tre settimane che non lo vedo, e questo gli farà piacere. Lasciatemi andare, bella mia, buongiorno.

E tirò via col bambino in collo, trascinando per la mota della viuzza un lembo della gonna lacera.

In quel pezzo della via soleggiata, lì dove il gruppetto di femmine s’era raccolto a ciarlare, trovò Nanninella che guardava curiosamente, con le manine sotto il grembiale, il panchetto d’un venditore di caramelle il quale si godeva il sole fumando la pipa, con gli occhi socchiusi.

— Nannina! – fece la vedova. – Come ti trovi qui? Che fai?

La bambina le corse incontro, allegramente.

— Non si lavora oggi, la maestra ci dà vacanza; ce ne ha mandate via tutte, perchè lo sposo la conduce in campagna.

— Andiamo da Peppino, – disse la vedova pigliandosela per mano.

Faceva un gran freddo, ma il tempo era sereno e la via asciutta. La bambina batteva ogni tanto i piedi a terra, per riscaldarsi, afferrata con una mano alla sottana della madre che le covriva il pugno. L’altra mano aveva ficcata nella piega dello scialletto, alla cintola. A volte, chinando la testa, passava il gomito sulla fronte per trarne indietro un ricciolo di capelli che le veniva sugli occhi. Non voleva metter fuori la mano dallo scialletto.

— È molto lontano? – chiese, a un tratto, quando furono nella via di Foria.

— Lì, in fondo, – disse la vedova. – Vedi quegli alberi? Lì, guarda, dirimpetto a noi.

— Com’è lontano! – mormorò la bambina.

Allo sbocco di via del Duomo, sul marciapiedi, incontrarono la rivendugliola che teneva bottega accosto alla loro. La vedova non la vide; in quel momento rincappucciava il piccolo. La vide Nanninella. E come la rivendugliola le sorrideva, le gridò, passando:

— Noi andiamo da Peppino. Torniamo più tardi!

— Chi è? – fece la vedova, voltandosi.

— Marianna, – disse la bambina.

— Cammina! – disse la vedova.

Arrivarono stanche; la bambina non ne poteva più. Cercarono il sole, presso alla grande scala dell’Albergo, ove quello batteva tutto sulla facciata. Sui gradini erano seduti tre ricoverati, tre vecchietti dell’Albergo, in chiacchiere con una venditrice di mele.

La vedova s’accostò, guardando nella cesta.

— Me ne comprate, bella figlia? – le fece la venditrice. – Guardate, ve ne do tre, di quelle grosse, per due soldi, guardate.

— Dite, – fece la vedova, – le posso portare su a mio figlio? Lo permettono, sapete niente?

— Come no? Vi pare? Son mele, non sono cannoni. Pigliatele. Dove le volete mettere?

— Qui, – disse la bambina, aprendo il grembiale. – Mettetele qui, le porto io.

La vedova pagò i due soldi e si mise a salire la scala dell’Albergo, con dietro la bambina, tutta felice delle mele. Sul largo pianerottolo non sapeva dove più andare, le porte erano molte, la scala continuava.

— È qui? – chiese la bambina.

— Ancora più su. Non so. Aspettiamo qualcuno che ce lo dica.

Sentivano zufolare su per la scala. Una voce d’uomo s’avvicinava canticchiando:

M’hanno detto che Beppe va soldato, e che vi han vista pianger di nascosto….

Spuntò subitamente un giovanotto, con le mani in saccoccia e uno scartafaccio sotto l’ascella. Quando fu sul pianerottolo dette una occhiata alla donna e alla bambina e tirò innanzi, continuando:

Far pianger sì begli occhi è gran peccato….

— Signore, signore! – fece la vedova.

— Che c’è? – disse lui, mettendo il piede sul primo gradino dell’altra tesa, e voltandosi.

— Dove si va per vedere…. per parlare con un bambino? Io ho qui mio figlio….

— Vi levate presto voi la mattina? Questa non è ora di parlatorio. Ma, via, può accadere che vi facciano vedere il bambino. Andate su, dal segretario.

— Dov’è? – chiese timidamente la vedova.

— Su, al secondo piano, prima porta a destra, ultima camera.

Parlando saliva; a un tratto la vedova non lo vide più. Ma udì la sua voce, dall’alto, mentre saliva anche lei:

— Ultima camera, avete capito?

— Sissignore! – gridò la vedova. – Grazie, signore, Dio ve lo renda!

Il segretario era un uomo assai maturo, molto per bene, con occhiali d’oro, con un bell’anello al dito indice. Sedeva presso la sua scrivania, firmando certe carte che un impiegato gli metteva innanzi una dopo l’altra, asciugando le firme sopra un gran foglio di carta rossa.

Nella camera c’era la stufa, che vi spandeva un lieve tepore.

— Chi siete? Che volete? – fece il vecchio, levando gli occhi dalle sue carte ed esaminando la vedova e la bambinella.

La vedova non sapeva che dire.

— Sono Carmela Selletta, eccellenza, volevo vedere, se è possibile…. io ho qui mio figlio…. ha sette anni…. Giuseppe Selletta….

— Ma, Dio mio! Non dovete venire qui! – fece il vecchio, con la penna levata. – Questo non è parlatorio, Dio mio! Ah! santa pazienza!

— Così m’hanno detto, eccellenza, – mormorò la vedova, mortificata. – Ho incontrato per le scale un giovane e m’ha insegnata la porta.

— Ma non è qui, non è qui! – insisteva il vecchietto. – E poi, bella mia, non è ora questa di parlatorio.

La vedova rimase muta.

— Come avete detto che si chiama vostro figlio? – soggiunse, dopo un momento, il vecchietto.

— Peppino…. Giuseppe Selletta.

— Mazzia, fatemi il piacere, guardate un po’ dentro, in archivio, se c’è Larissa, e parlatene a lui di questo ragazzo. Anzi fatelo venire qui, che sarà meglio.

— Come si chiama? – chiese l’impiegato alla vedova.

— Giuseppe Selletta.

Mazzia sparì dietro una portiera. Il vecchietto raggiustò sul naso gli occhiali, soffiò nelle mani e mise sulla scrivania una tabacchiera di argento. Nannina aveva riguadagnato coraggio e s’accostava alla scrivania, guardandovi curiosamente il gran calamaio dorato, sul quale due pupazzetti reggevano a fatica un vasetto per le penne. Lo sguardo della piccina incantata passava dal calamaio a un fermacarte di cristallo, sotto il quale si vedeva la chiesa di San Pietro, col cupolone, la piazza e la gente in cammino, tutto colorato.

— Sedete…. – disse a un tratto il vecchietto,. dopo una rumorosa soffiata di naso. – Pigliatevi lì, una sedia, quella dell’angolo…. brava, sedete pure.

Aprì la tabacchiera, tirò su una gran presa di rapè e allungò le braccia sulla scrivania.

— Ah, buon Dio di pace e d’amore! – sospirò.

Poi, voltandosi:

— Che cosa avete in braccio? – dimandò, aguzzando lo sguardo di sotto agli occhiali.

La vedova alzò un lembo dello scialle e scoverse il piccino che dormiva tranquillamente con una mano sul petto.

— Figlio vostro?

— Sissignore.

Nanninella s’era avvicinata a guardare il fratellino, togliendosi alle contemplazioni del calamaio. Stese la mano per carezzarlo.

— Pssst! – fece il vecchio, sottovoce. – Lascialo stare, tu. Si sveglierà. Ricopritelo….

Appariva Mazzia sotto la portiera, impassibile.

— Dunque? – fece il vecchietto.

— Se il signor segretario – disse Mazzia – vuol favorire un momento….

— Che c’è?

Si levò poggiando le mani sui bracciuoli della sua seggiola, cercando in saccoccia il moccichino di seta rossa.

Ripeteva, camminando:

— Che c’è, Mazzia?

Quando il segretario gli fu vicino Mazzia lasciò ricadere la portiera e questa li nascose.

— Ora viene Peppino, – disse la vedova a Nanninella.

— Ora viene? – ripetette la piccina, sottovoce.

La vedova col capo fece cenno di sì. I due parlottavano ancora dietro la portiera, ma non si capiva nulla di quel che dicessero.

A un tratto riapparve il vecchietto. Pareva molto turbato e veniva innanzi lentamente, con lo sguardo sulla vedova Si fermò presso alla scrivania, aggiustò un quaderno sotto un libro e tossì due o tre volte.

— Sentite, bella mia…

La vedova s’era levata, traendo indietro la seggiola.

— Sentite, non si può parlare a quest’ora coi ragazzi…. Io ve lo avevo detto, siete venuta troppo presto! Gli è che a quest’ora il ragazzo….

S’interruppe. La vedova lo guardava.

— Mazzia…. – e il vecchietto si volse bruscamente all’impiegato. – Aiutami a dire….

— Il ragazzo è alla lezione, – disse Mazzia secco secco.

E si rimise a guardare di fuori, per la vetrata.

— Ecco, – disse il vecchietto risollevato, – è alla lezione. Qui si è molto severi….

La vedova ebbe un moto di dispiacere. Strinse meglio sul petto il bambino, e rimase lì impiedi, aspettando ancora, sperando ancora.

— È proprio impossibile? – mormorò timidamente.

— Eh? – fece il vecchio. – Sicuro, impossibile! Voi siete sua madre, non è vero?

— Sissignore, sua madre.

— Impossibile, bella mia…. – borbottò. – Come si fa? Dovreste tornare. Tornate…. tornate lunedì, che c’è udienza, non è vero, Mazzia?

Mazzia guardava difuori. Non udì e non rispose.

La vedova arrossiva. Cacciò lentamente la mano nel grembiale di Nannina.

— Perdonatemi. – balbettò, – io gli avevo portato…. gli volevo lasciare…. queste mele…

— Date qua. – disse il vecchio.

La bambina già ne avea posto due sulla scrivania, accanto al bel calamaio. Lui prese la terza e la mise presso alle altre.

— Torno lunedì? – disse Carmela

— Sì, sì, lunedì…. più tardi. Non venite da me, chiedete del direttore, egli saprà dirvi….

La vedova gli prese la mano ch’egli stendeva per carezzar la bambina, e fece per baciargliela.

— Oh! – esclamò lui, come spaventato. – Macchè! Macchè!….Addio, addio…. buona giornata….

Erano uscite. Il vecchietto rimase impiedi presso la porta. Ascoltava il romore delle ciabatte della vedova su per la scala, la vocetta della bambina che interrogava.

Mazzia si ricollocò di faccia a lui e gli mise innanzi le carte.

— Piano, – disse il vecchietto, – non c’è fretta….

Vi fu un silenzio.

Il segretario scoteva malinconicamente la testa.

— Glie lo dirà il direttore, lunedì, – mormorò, – io no, di certo. Non voglio ricominciare la giornata a questo modo.

Asciugati gli occhiali se li piantò sul naso, tossì, soffiò nelle mani e riprese la penna.

— Ah! Signore Iddio! – sospirò. – Buon Dio di pace e d’amore!… Date qua, Mazzia….

Fine.


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TITOLO: Senza vederlo
AUTORE: Salvatore Di Giacomo

DIRITTI D'AUTORE: no

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TRATTO DA: Novelle napolitane / di Salvatore Di Giacomo ; prefazione di Benedetto Croce - Milano : F.lli Treves, 1919 - XI, 324 p. ; 19 cm.

SOGGETTO: FIC004000 FICTION / Classici