L'uva puttanellaFu uno scrittore impegnato, morto il 15 dicembre 1953, a soli trent’anni, per l’occlusione di una vena del cuore. Era figlio di un calzolaio e di una levatrice. Eletto sindaco del suo paese, Tricarico, a soli 23 anni, nel 1946, nelle file del partito socialista di unità proletaria, si liberò presto dei vincoli ideologici per difendere coi fatti la sua gente, immiserita dalla guerra e da una atavica umiliazione.

Divideva i suoi pasti e i suoi proventi con chi stava peggio di lui, prestava aiuto ai contadini in maggiore difficoltà, subì persecuzioni e calunnie dalla vecchia classe dirigente che non tollerava il suo nuovo modo di amministrare.

Contadini del sudFu anche in carcere per false accuse di truffa, rinchiuso a Matera per 45 giorni, fino al 25 marzo 1950, quando Carlo Levi con una robusta campagna in favore dell’innocenza del sindaco-poeta, riuscirà ad avere una sentenza dalla Corte di Appello di Potenza che riconoscerà l’infondatezza delle accuse e il motivo esclusivamente politico del suo arresto. La dura esperienza causerà una forte amarezza in Scotellaro che deciderà di abbandonare la carica di sindaco e l’impegno diretto in politica, e trasferendosi infine a Napoli deciderà di continuare la sua battaglia con la letteratura.
Toccherà, infatti, alle sue opere, pubblicate postume, lasciare la sua importante eredità di pensiero e di passione, così bistrattata da uomini della sua stessa fede politica come Giorgio Napolitano, Mario Alicata e Giorgio Amendola, il quale si ricrederà, ma troppo tardi. Nel 1954, un anno dopo la sua morte, esce, con la prefazione di Carlo Levi, il suo libro di poesie “È fatto giorno” (Premio Viareggio), nello stesso anno “Contadini del Sud”, con la prefazione di Manlio Rossi-Doria, opera incompiuta che prefigura un progetto ambizioso di analisi delle condizioni dei contadini meridionali delle regioni di Puglia, Campania, Calabria e Basilicata; nel 1955, anch’essa incompiuta, e ancora con la prefazione di Carlo Levi, esce “L’uva puttanella”. Più tardi, nel 1978, uscirà un altro libro di poesie, “Margherite e rosolacci”, a cura di Franco Vitelli.
Ci occuperemo qui delle due opere in prosa, che sono una rara testimonianza di letteratura legata all’agire concreto. Nella bella introduzione di Nicola Tranfaglia, “L’eredità di Rocco Scotellaro”, si legge: “È nato, possiamo dirlo con certezza, un mito di quest’uomo straordinario che ha interpretato dall’interno un mondo incominciando una storia autentica dei sentimenti e delle lotte di quei contadini che dopo il 1945 vollero tentare esperimenti di autonomia e di crescita politica e culturale.”
Iniziamo con “L’uva puttanella”, opera autobiografica che ripercorre la vita dell’autore. L’uva puttanella è un’uva che si caratterizza per i suoi acini “maturi ma piccoli“, come “non pari agli altri con i quali sono costretti a lottare per la sopravvivenza nel più vasto mondo.” sono gli uomini del Sud (dalla introduzione di Nicola Tranfaglia).
La prima cosa che colpisce è la scrittura: semplice, elementare, sapientemente costruita sulla parlata della gente: “a destra che si affacciano sulla piazza sono gli uffici statali delle Imposte e della Pretura.” Minuta nelle annotazioni, puntigliosa. È l’autore che ricorda. L’occhio, la osservazione, il pensiero compensano la malinconia e la delusione patite. L’asciuttezza lirica scolpisce i sentimenti e si carica di molto dolore: “Doveva essere stata la stalla del palazzo, cui si accedeva dall’arco romanico dalle pietre unte, solo quante mani tu solo ci avrai messe.”
Le usanze rigide e colorite dei luoghi vengono esaltate da un ricordo tenero e nostalgico. Si avverte che il cuore di Scotellaro è stato ferito e il passato è un dolce e caro rifugio: “La mamma aveva i capelli gonfi e lucenti. Suo padre era fabbro-veterinario, e sapeva suonare la chitarra. In casa i granai erano pieni per i tanti contadini abbonati per i ferri e le malattie dei muli. Ella aveva la faccia rosa che ho io ora, s’affacciava alla finestra e un giorno mio padre passò e la vide.” E ancora: “Ero ai primi banchi come tocca ai bravi e ai figli degl’impiegati e dei signori, i soli che potevano portare i capelli. Ero rasato come gli altri, portavo la borsa di pezza come gli altri, solo che io stavo ai primi posti.” Vi si legge l’orgoglio di una rivincita che viene dalla propria natura, dalla ricchezza interiore, dalla propria personale virtù, che fa del cafone un uomo che può aspirare, come gli altri, come i signori, ad una affermazione nella società.
Ogni passaggio della memoria è un richiamo al desiderio di affermazione e di libertà. In lui sono espressione di una vocazione; di un Sud insoddisfatto che si ribella. Una tale ambizione è resa dalla descrizione di un compagno di infanzia: “È un pastore oggi quel mio amico, ha fatto la guerra, adulto, cadente e sgangherato, ma egli è sempre senza macchia; se lo guarda la donna più bella del mondo non si copre la bocca vuota dei denti con le mani, ma l’apre e ride, più bello di tutti lui, cresciuto nel sole e nella pioggia.” Come lui, altri prefigurano una libertà cara all’autore e perseguita per tutta la vita: ad esempio, Padre Gregorio, che quando suona l’organo, “gli dovevamo suonare il campanello dall’altare per farlo smettere”. Ci troviamo a Sicignano degli Alburni, dai frati, dove è stato mandato per studiare, e poi a Cava dei Tirreni. Resiste due anni e mezzo a quella vita, che considera comunque proficua giacché gli ha insegnato molte cose e soprattutto a lavorare la terra. La sua felicità infatti si manifesta altrove, quando si guarda intorno e ammira la natura, le colline, il Basento, il frinire delle cicale, “la voce degli uomini, fluente dalle case e dalle terre”.
Zia Filomena è la baldracca del paese. I giovani vi fanno le prime esperienze, quando sono ubriachi si rifugiano da lei. Era stata bella da giovane, “una gallina faraona.” Innocenzo ce l’ha con il governo ed è inviato “al confino alle isole Tremiti”; Pasquale, da bravo artigiano pirotecnico, a poco a poco s’immiserisce e deve vendere la sua casetta: “Chi mi accoglie, dove vado?”. Finirà per uccidersi. L’autore era sindaco in quel tempo (“il sindaco che ero io) e non aveva potuto fare nulla per lui. Se ne sente ancora in colpa: “Dovevo fare la mia parte, gridare nelle strade, come allora gridavano i galli, l’indomani, nella polvere rimescolata.
Rocco Scotellaro se ne va dal suo paese, deluso dalla politica, ma Tricarico resta nel suo cuore, ne trasuda la scrittura: “Alla coda di un camion c’è il mercato delle castagne, cambio di castagne contro grano. Tante – come zia Filomena – stanno curve nel sole della porta a lavare i panni allo strigaturo, o alla madia per impastare. Il paese è vuoto e se alzi gli occhi, l’aria ti prende, hai voglia di goderla, di riempirla di te, quella ti prende nelle braccia sue e si sentono le nenie che hai già sentito, esclamano le stesse vacche da Serra del Cedro, ritornano i giorni passati con fatti che successero e le tinte di allora, i luoghi, la vigna.” È il mesto canto di un esiliato che invoca la sua terra. Carlo Levi deve aver sentito pulsare qui quel cuore che anche in lui fu conquistato dalla bellezza aspra e dura della Lucania. Non vi è dubbio che gli stessi echi risuonino nelle pagine dei due scrittori.
Rocco ha una voce inconfondibile, lo stesso timbro della terra che i contadini coltivano dopo averla liberata dai sassi; si porta con sé la fatica di una lotta che non finirà mai. Siamo agli ultimi giorni della guerra; i tedeschi stanno lasciando il paese: “Così erano umili le case del paese dietro la collina, pronte a chinare porte e finestre ai temporali. Erano solo una nube questi tedeschi o la schiera di gru che portano l’anno buono e il cattivo e fanno alzare gli occhi da terra, questo fanno.” Nella scrittura è presente la stessa ostinata fatica del bracciante, quel suo ammucchiare da una parte le pietre per liberare la terra. I ricordi affiorano e si accumulano proprio come quelle pietre. Sono anch’essi pesanti e liberatori. Se non fosse per questa scrittura sudata e aspra, leggeremmo una ordinaria storia di memoria, ed invece vediamo emergere l’intrecciarsi fisico di un uomo con la sua terra, così come s’intreccia la vite al suo tralcio. Terra e carne si fanno una cosa sola. La narrazione dei giorni del carcere trascorsi a Matera (“Il carcere era un nido nella chioma del cielo.”) altro non è, ancora un volta, che sudore. Sono pagine uscite anch’esse dalla terra. Si confronta con un camorrista che lo mette sotto la sua protezione, soprannominato Giappone; così racconta l’episodio: “Riuscii a batterlo nella discussione generale perché il mondo nuovo che si sentiva nelle parole che mi venivano da dire era nel cuore di tutti, anche nel suo.” L’autore non ha mai rinunciato al suo credo e a battersi per affermarlo: “Noi siamo le pecore e i buoi dei macellai e dei proprietari di bestiame.” Siccome è stato sindaco ed è un letterato, la sera i compagni di carcere gli chiedono di leggere loro qualcosa: “Di 170 collegianti, io ero il solo che avevo studiato.” Si radunano intorno a lui. Non si rifiuta. Un libro è importante, sempre: “Con un libro al capezzale, anche la morte è una tenera amante.”
Dell’ingiustizia patita restano i segni: “Tutti i giudici erano dei pendoloni carichi, le cui lancie segnavano il tempo, le ore e i minuti e scoppiavano all’ora voluta dal potere esecutivo.”
Scrive anche per i suoi compagni detenuti. Bartolomeo Vasco gli detta un memoriale in difesa dall’accusa di traffico di banconote false che è un esempio di scrittura attaccata con un mastice all’oralità contadina. L’autore ne fa uno strumento espressivo di notevole rilievo e di puntuale testimonianza: “Mica si tratta di un sacco di patate che si doveva cambiare. Se veramente avesse stato il Vasco a dare questi biglietti, avesse saputo bene sapere la responsabilità di questi biglietti e perciò non avesse mai andato da questo Coccia senza avere una conoscenza precisa.”
L’uva puttanella” va così configurandosi come uno scrigno colmo di tesori legati alla civiltà contadina e agli uomini che la rappresentavano in quegli anni, così che si può dire che l’autore abbia voluto con la sua scrittura fare a meno di una intermediazione letteraria, avvicinandola il più possibile all’essenza stessa della sua terra e della sua gente.
La storia del brigante Brancaccio e della vedova Maria, che incontriamo al capitolo IX, e quella dei braccianti che hanno occupato la terra dei padroni e sono menati in carcere, si consumano a poco a poco come la fame del Sud: “venivano altri occupatori di terra dai paesi più lontani.”; “Allora pensai, guardando Fiore rotolarsi e sentendolo parlare, al dolore dei contadini di Montescaglioso, chiusi da un anno, presi all’alba di una giornata eccezionale della loro fatica, gialli e malati, che erano i più stanchi di tutto il carcere, con gli occhi dilatati.” Si avvertono malinconia e dolore perché Scotellaro si sente sconfitto e tradito, proprio come quei contadini, ma non si arrende. La sua testimonianza è denuncia, lotta, grido, rivendicazione: “I compagni avvocati dicevano di resistere, e i mesi passavano uno sull’altro.” Non è facile: “E se anche la mia fede non era quella vera?” Ma: “Nel dubbio e nella fede di tutte le religioni che s’insinuavano anche in me, era l’unica religione dei poveri.” Giappone (“era corto e grigio, ma duro nella stessa pingue pancetta e nelle grosse natiche, con molto pelo pizzuto in capo e sugli occhi.”, diventa per lui l’uomo che, una volta uscito dal carcere, non si sarebbe piegato, “sarebbe andato avanti per la sua strada […] sarebbe ritornato alla sua terra, alle avventure di sempre tra i boschi e le pietre del suo paese, dove avrebbe aspettato il regno della morte, solenne, come gli si doveva”. Sarebbe diventato, ossia, un eroe.

Contadini del Sud” è un’indagine, rimasta incompiuta, sulla condizione dei contadini meridionali. È ispirata ancora una volta dal desiderio di concretezza e di verità. Sono intervistati alcuni di essi e ne vengono trascritte le vicende.
Gli episodi si snodano felicemente e dei personaggi apprendiamo i tratti salienti della loro vita sia intima che sociale. Il conflitto è sempre lo stesso: tra la loro miseria e lo Stato, nelle sue varie manifestazioni, che è sordo e infido. Per sopravvivere si dedicano a più di un lavoro, sempre ai campi (“mi sono sempre disteso nell’agricoltura che è il pane più sicuro”) e poi ad un mestiere artigiano, in modo da compensare le crisi che si abbattono via via su questo o quel settore. Michele Mulieri “ha piantato filari di piante e ogni filare è dedicato agli infami, ai ladri, ai barbari, e ogni pianta a un personaggio politico governativo.” I testi così trascritti: lettere di protesta, petizioni, poesie, diventano espressione di una cultura arcaica, affranta, ma non vinta: “Al Maresciallo allora li levai i gradi in pubblica piazza perché loro mi avevano violato la sistemazione di lavoro. Fui trasportato in caserma e tutti uniti i carabinieri mi hanno massacrato di botte riportandomi uno sfregio permanente al capo col mio medesimo bastone in possesso perché sono grande invalido e riempiendo il mio fazzoletto, ancora presente, di sangue.” Sono questi documenti a legarsi più strettamente a “L’uva puttanella”, per una provenienza comune dal basso, dalla sorgente spontanea di una civiltà contadina millenaria: “risposi che i dolori miei c’era nessuno che li poteva chierire.”
Di Grazia Andrea è del 1906, è un contadino di Tricarico: “il povero padre lavorava il giorno con la zappa e la sera ci portava la fascia di legna addosso, o qualche ceppo, per farci riscaldare a noi, che eravamo 4 figli, e la povera Mamma più di qualche sera lo andava incontro per aiutarlo, e nella casa si viveva molto povero. O quando mi viene impresso che qualche giorno ci mancava il proprio pane, e noi che ci crescevamo tutti lacerati, povera Mamma ci rattoppava i nostri indumenti la notte, che la santa giornata ci andava in campagna.” La sua è una vita di sacrifici per farsi una casa e far studiare i figli. Non è un protestatario, come Michele Mulieri; fatica e sopporta. Di uno dei figli, Mauro, scrive: “Vorrei che si sposasse con una Signorina di famiglia di nobile e anche studiosa, perché io gli do un titolo di studio e così sarei ancora più contento.” Crede in Dio e nei Santi, meno nella magia: “ma però riusciva a qualcheduno la magia o per la volontà di Dio che dovevano stare bene o per opera della fattura”. Sono gli anni in cui si parla di riforma agraria. Andrea dice la sua e andrà a Roma con i coltivatori diretti di tutta Italia per presentare le comuni proposte al governo. La popolazione aumenta – scrive – e le terre diminuiscono, non bastano più per vivere: “Il rimedio è che quel poco terreno che si fa la riforma bisogna saperla mettere in buono stato fisico di coltivazione per farlo rendere la terra all’utilità familiare.” Si vede come, pur analfabeti (i più fortunati facevano sì e no le prime tre, quattro classi elementari), i contadini stanno cambiando; non si rassegnano, si muovono, hanno delle idee che desiderano far conoscere.
Laurenzana Antonio ha trovato una ragazza, una “zita”, in un paese vicino a Tricarico, S. Chirico, e di sera va a trovarla attraversando campagna e boschi: “una volta mi partii a un orario tardi e c’era tempesta tuoni e lampi, allora si vedeva la strada quando faceva il lampo, distrussi una scatola di cerini perché mi trovavo sempre nelle frasche, allora abbaiò un cane, dopo il vallone, e c’era uno di guardia alla sua vigna che mi sparò un colpo di pistola, sentii proprio il fischio della palla, me ne scappai indietro per non tornare più a S. Chirico.” Quando si sposavano era già tanto se riuscivano a trovare una stanza in affitto: “Presi una casa, una sola stanza con 200 lire di affitto, non avevo neanche sedia per sedermi perché non mi feci niente prima, e andai a comprare a credenza 4 sedie.” La sposa, di solito, si dedica ad aiutare il marito nei campi e nel tempo libero “cuciva camicie alle creature, a me mutande e camicie.” In questa condizione di precarietà e di miseria, l’uomo difficilmente resiste alla superstizione, si fanno decine e decine di chilometri a piedi per interrogare una fattucchiera o un “masciaro”. Le malattie sono credute quasi sempre opera del malocchio. A Laurenzana muore la moglie, dopo aver litigato con una vicina. Non ha dubbi che è stata una fattura della donna. Si è segnato alla Confraternita della Madonna del Carmine e guadagna qualcosa ogni volta che c’è un funerale. Nel tempo di guerra si dà al mercato nero e riesce ad accumulare un po’ di soldi che gli serviranno per affittare nuovi campi, ma “Molti contadini andarono in galera”. Non i grossi proprietari terrieri, però, poiché “erano accordati a tutte le autorità e caricavano perfino i camion”. Avvengono i primi scioperi nel 1942, le prime ribellioni contro le autorità: “La notte appresso venne l’arresto di 150 persone, che uscirono dopo molti mesi.” Tra i testimoni scelti da Scotellaro, Laurenzana è quello che si esprime meglio e tocca più a fondo i temi sociali, della superstizione e della religione: “è la massa del popolo che crede per la debolezza e perché ci fanno credere che è così. Ma quando più di uno comincia a risvegliarsi, dà poco importanza e pensa diverso e non c’è più quell’influenza della chiesa.” Dalla sua testimonianza esce un quadro pressoché completo della condizione contadina nel Sud di quegli anni: “Si lavora sempre e non si vive mai.” Da lui, che fu consigliere comunale, apprendiamo delle lotte contadine e del giovane sindaco, “pelo rosso come me, che era stato con noi dal primo giorno e ci difendeva.” Quel sindaco è Rocco Scotellaro. Continua Laurenzana: “Le elezioni di gennaio 1953 furono vinte dai democristiani perché il nostro sindaco pelo rosso si era allontanato e ci aveva lasciato per andare a guadagnare scrivendo poesie e racconti.” In realtà, proprio con la varietà e ricchezza di queste testimonianze, Scotellaro non ha mai lasciato di accompagnare con il suo lavoro di narratore le lotte dei suoi contadini.
Quando qualche parente li manda a chiamare dall’estero, è la fortuna che bussa alla porta e non si può rifiutare. Si mandano i figli nella speranza che abbiano una vita migliore. Chi resta a casa diventa, però, sempre più solo: “Se veramente cambiassero le leggi come penso io, non farei emigrare i miei figli. Se prendessero il potere i contadini la riforma sarebbe attuata come desiderano i contadini.”
Francesco Chironna è il più vecchio degli intervistati, è infatti del 1897, nato ad Altamura in provincia di Bari, ora però è innestatore e mezzadro a Calle, in provincia di Matera. Quella di trascrivere fedelmente quanto i vari protagonisti raccontano è una scelta felicissima che contribuisce a documentare realisticamente la condizione di analfabetismo e di miseria in cui si trovava le gente contadina del Sud negli anni Cinquanta del secolo scorso. Francesco ha fatto la prima elementare, poi, all’inizio del secondo anno, la scuola fu sospesa per due anni a causa di un’epidemia: “Mentre da due anni prima incominciò mio padre a fare un mal raccolto e quell’anno finì di rimetterci ancora un po’ di risparmio che aveva. I tempi si presentavano difficili e si incominciò ad affacciarsi la miseria!! Allora mio padre decise che per me non più scuole per mancanza di denaro. Ecco come sudi me svanirono le speranze, speranze dei miei, che mi volevano preparare una strada nell’avvenire.”
Attraverso il suo racconto conosciamo il dramma dell’emigrazione. Ancora bambino parte con il padre e gli zii in cerca di fortuna, giacché in paese la campagna non rende per nutrire la famiglia e si è costretti ad indebitarsi per tirare avanti, con rischio di perdere anche il poco che si possiede. La nave è carica di emigranti, la traversata è disastrosa con il mare agitato che solleva onde più alte della nave: “Tutta la gente che vi era dentro la maggior parte svenirono chi vomitava da una parte chi dall’altra erano tutti accasciati sul pavimento, non si sentiva più tutta l’armonia che cera prima ma si era mutata in urli, lamenti, implorazioni.” Racconta anche le difficoltà di un lavoro, laggiù in America, che lo espone a pericoli continui, ad esempio il ritorno a casa da solo, di notte, attraversando boschi abitati da animali feroci: “Mi trovavo a mezza strada quando in un momento sentii urlare i caiuzzi che sono come lupi ma feroci.” Torna in Italia e impara a fare l’innestatore, un lavoro che gli consente un guadagno migliore; purtroppo arriva la guerra del 1915 – ’18 e parte per il fronte, “indusiasmato per difendere i sacrosanti diritti italiani”; ma una volta in trincea si rende conto di cosa è la guerra e di quanto i soldati dissentano con i loro superiori, che li mandano a morire come fossero carne da macello. La sua testimonianza abbraccia anche la seconda guerra mondiale e il fascismo. Mente sicura e lucida, Francesco Chironna percorre mezzo secolo con una storia personale che riesce a darci l’idea dei travagli, dei sospetti e dei timori patiti dalla povera gente, sbattuta da una parte all’altra, contrastata e offesa negli ideali a causa della propria ignoranza e della propria miseria: “quella lotta secolare tra ricco e povero si accaniva sempre più forte.”
Poiché è di religione evangelica, Chironna, dopo le elezioni politiche del 1948 che videro insediarsi al governo la Democrazia Cristiana, subirà dell’ostracismo.
Di Cosimo Montefusco, analfabeta (“Nessuno dei fratelli è andato a scuola, io non so mettere la firma mia”), che ha 17 anni ed è guardiano di bufali, “bufalaro”, Scotellaro, prima di darci la sua testimonianza, e dopo aver fatto un puntiglioso quadro dell’imprenditoria agricola nel Cilento, così ce ne disegna il ritratto: “Cosimo è un pezzo di ragazzo con gli stivali di gomma, alto, bruno, con le carni cotte e sode, e così pare pittato perché non parla e se parla e dice i versetti è come se non capisse il significato delle parole: è una creatura che deve ancora parlare.”
Attraverso di lui conosciamo il lavoro del bufalaro. Curiosi sono i nomi che vengono dati alle bufale, vere e proprie frasi cantilenanti, che compongono nome e cognome: “nun ce sta mai che fa” è un esempio tra i tanti che sono indicati. Il mestiere è faticoso, meglio fare lo zappatore: è un suo sogno (“voglio andare a zappare, a fare i fossi, ma non più appresso agli animali.”): “Quando muore un vitello, conserviamo la pelle e la mettiamo addosso a un altro e solo così la mamma, annusa la pelle sente il figlio e si fa mungere.”; “Il toro, quando gli viene «u vulio» (la voglia) piglia e «zompe ncuollo» (salta addosso alla bufala), ma la bufala può calare la coda, come la femmina: quando vuol fare sta zitta, se no allucca (grida) e se ne va.”
Francesca Armento ha 68 anni, vive a Tricarico, e aiuta il prossimo. Fa anche la scrivana, per quel poco di istruzione che ha. Racconta, in una lettera scritta al figlio, le traversie della comare Nunziata, subite prima con la morte dei figli appena nati, poi con la vicenda del figlio Antonio, morto anche lui di malattia, sposato con una donna che subito dopo essere rimasta vedova prende a litigare con lei, finché sono costretti a dividersi la roba e a vivere ciascuno per conto suo: “così la suocera è lasciata nella stessa casa dove sempre stava, la nuora è andata a stare nella casa che era magazzino”.
Le testimonianze si rivelano, dunque, una rappresentazione stratificata della società contadina e finiscono per costituire un’indagine preziosa, che ancora oggi mantiene la sua attualità, ben condotta e selezionata, che ritrae un Sud vero, il quale ha bisogno non solo di sopravvivere e di migliorare, ma di vedere accolta la propria umanità forte, calda, volitiva, che non ha colpa della propria miseria. Più che faticare, dice uno dei testimoni, Francesco Chironna, che possiamo fare?: “non è mica colpa del povero se è povero”.

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