Un incidente stradale nella notte tra il 17 e il 18 luglio del 2008, pone termine alla vita di Rocco Carbone, 46 anni, con al suo attivo una esperienza di critico letterario e alcune opere già significative della sua maturità artistica: Agosto è il suo primo romanzo, del 1993; nel 1996 esce Il comando; L’Assedio è del 1998; L’apparizione, del 2002 e del 2005 Libera i miei nemici. Collabora a Nuovi Argomenti; Linea d’ombra, Paragone, L’indice, L’Unità, Il Messaggero e Repubblica.
Era nato a Cosoleto, in provincia di Reggio Calabria il 20 febbraio 1962.
Subito si è colpiti dallo stile asciutto e dalla narrazione minuta degli accadimenti; ma soprattutto ci accorgiamo che essi sono i medesimi che compiamo noi. Ci chiediamo allora se Iano siamo anche noi, e se leggendo la sua storia ci riconosceremo pure noi in quel destino.
Siamo appena entrati nel romanzo che porta il titolo «L’apparizione». Si parla di una nevrosi che assilla il protagonista, in cura da un certo professor Redondo, che in un momento di crisi, una specie di raptus, uccide colpendolo alla nuca con un portacenere.
Si torna brevemente indietro, a quando Iano, quarantenne, insegnante di sostegno, ha tra i suoi allievi un bambino di nove anni, Nino, che, rimasto orfano dei genitori, è stato affidato alla sorella diciottenne Cata. Non vuole più andare a scuola, parla poco, al limite dell’autismo. Compito di Iano è quello di convincerlo a riprendere gli studi. Ne avremo altri di questi flashback, tesi ad offrirci l’evoluzione di una personalità complessa che lotta non solo con se stesso, ma, oltre che contro la società, anche contro il proprio destino. Il delitto compiuto, infatti, è avvertito da Iano come necessario, e nient’affatto una colpa.
La materia che Carbone affronta è di estrema delicatezza, riguarda le debolezze dell’uomo nel momento in cui si accorge di un destino già segnato, le sue resistenze, i suoi sconvolgimenti, le sue follie. Temi molto sentiti dall’autore, che non a caso scelse di insegnare ai detenuti del carcere di Rebibbia. Carbone si dedicava agli altri, avvertiva le minacce della modernità, la presa beffarda che essa può avere sulle insufficienze umane, anche nei confronti di chi se ne crede al riparo. La sua scrittura è ferma, decisa, mai dispersiva: come la diagnosi di uno specialista che conosce il suo campo di azione.
Scrive di Iano, prima che commetta il delitto: «avrebbe sempre dovuto fare i conti con quella presenza che avvertiva dentro di sé, con quel nemico silenzioso pronto da un momento all’altro ad avvelenargli le giornate, a rinchiuderlo in una oscurità difficilmente penetrabile.» Siamo davanti ad un male oscuro («il malessere era diventato un compagno abituale»), ad un tarlo corrosivo che mina corpo ed anima, ne intacca le parti vitali, interrompe i flussi di un circuito da cui dipende la sicurezza della nostra personalità. L’alcool in cui Iano si è rifugiato, il litigio e la separazione dalla moglie Rosa, disegnatrice in uno studio di architettura, sono solo le conseguenze di un tale insidioso malessere, le cui cause paiono inaccessibili, così come inaccessibile è il disegno che il destino ha fatto su di noi. Altrettanto inaccessibili (capiremo più tardi perché) sono il ragazzo misterioso e il suo cane incontrati per la prima volta, e subito scomparsi, nella casa degli amici Dario e Sara.
In principio crede che la sorgente di un tale malessere dipenda da una qualche attrazione che ha cominciato a provare per Sara, ma ammette: «È qualcosa che arriva da un’altra parte, forse da un altro mondo». E Sara, mentre stanno viaggiando insieme in treno, gli dice: «Io vedo su di te un’ombra, Iano. Un’ombra nera che si allunga e che ti sta avvolgendo. Non so che cosa sia, ma sento che è minacciosa, e mi fa temere il peggio.» Non è dunque tanto l’amore per Sara, come parrebbe a prima vista, al centro della storia, bensì il confuso malessere che lo ispira, di cui si ignorano le radici, il quale va ben oltre l’amore e scaturisce da una forza contro la quale ci si accorge ad un tratto di non poter combattere: l’amore è solo una componente dello smarrimento, tuttalpiù può rappresentare il germe che lo risveglia e che dà testimonianza di una ineluttabilità deflagratoria cui è destinato ad andare incontro: «Eros non è come noi lo immaginiamo. Non è un bambino alato e innocente, o tutt’al più malizioso. È un dio tremendo, il figlio di Caos, quello che rompe le membra e avvelena l’esistenza. Che rende l’uomo felice, ma che attraverso questa felicità attrae su di lui la sventura.» La scelta consapevole di una scrittura così minuta e tagliente, chirurgica, aiuta questa dissezione tanto interiore quanto corporale, tesa unicamente a registrare le tappe salienti di un percorso in cui si deve continuamente scegliere tra i molti segni che scaturiscono dai gesti e dalle azioni del protagonista. L’autore, al contrario di tanti altri, non indugerà mai, ad esempio, su che cosa bevano o mangino i suoi protagonisti, giacché le tracce che egli segue, disperse un po’ dentro e un po’ fuori di noi, sono sempre evanescenti, mai nette, mai contraddistinte da un segno irrevocabile. Anche la grande città dove la storia è ambientata, forse Roma, non è mai nominata. Quando Iano compie il viaggio per far visita al padre, l’autore lascia intuire, senza nominarla, la città di Reggio Calabria, e allorché deve citare la Sicilia, si limita a dire «l’isola di fronte», oppure «fino alla costa alta e nera dell’isola vicina.»
La trascuratezza con cui, lasciata la moglie e vagabondo per la città, Iano cura il suo corpo è il simbolo esteriore di ciò che dentro e fuori di lui lo sta isolando dalla realtà che conosceva, e lo sta trascinando con forza tirannica altrove. Intuiamo che sarà un lungo viaggio nel dolore quello che è cominciato per Iano.
La rivisitazione del passato (il ritorno alla cameretta dove aveva dormito per cinque anni ai tempi dell’università, come pure alla biblioteca nazionale, dove andava a studiare) – confusa in un primo tempo agli occhi del protagonista – altro non è che il tentativo disperato di recuperare un’identità perduta, pur sapendo di non potervi riuscire. Come non ricordare il romanzo di Heinrich Mann, «Professor Unrat», del 1905, più conosciuto come l’»Angelo azzurro» dal titolo del bel film che il regista Josef von Sternberg ne trasse nel 1930? Il romanzo di Carbone è impregnato della stessa ossessione fatalista e distruttrice.
Quando si illude che quello sconosciuto incontrato qualche giorno prima altro non è che Eros che lo aveva fatto innamorare di Sara, ossia della donna sbagliata, il delirio che ne consegue è ancora una volta opera di quel male oscuro che maschera e altera i sentimenti in un gioco crudele e perverso in cui la posta messa in gioco è la nostra libera volontà, e quindi la nostra vita.
Alla moglie dirà: «quello che è successo non sarebbe accaduto, se non ci fosse stata una forza più grande di me che mi ha spinto a fare delle azioni di cui non mi sarei mai creduto capace.» E ancora: «Ciò che io e te chiamiamo male, per questa forza è invece gioia, felicità senza misura.»; «Una gioia così grande non può non attrarre il dolore e la sventura.»
L’apparizione dello sconosciuto ha la stessa forza di quelle molte visitazioni bibliche che sconvolgono l’uomo e ne tracciano il destino: «Si chiese qual era stata la sua colpa, perché un dio aveva scelto proprio lui per renderlo vittima e testimone della sua potenza.» Nel romanzo di Carbone, una tale visitazione mette in moto un processo che è solo apparentemente di agnizione; in realtà è l’avvio di un percorso che conduce alla resa di sé e quindi alla propria distruzione.
Dalla scrittura minimale, quasi di una pignoleria ossessiva, esce una potenza figurativa di rara efficacia, in grado di trasferire al lettore le stesse sensazione dolorose impresse dalle ferite che si aprono di volta in volta sulla carne del protagonista: «Sapeva di essere preda di qualcosa che si era insidiato dentro di lui e che causava una nuova condizione di angoscia e di paura.»
L’incontro con l’anziano padre che, si noti, ha al guinzaglio un cane come lo sconosciuto apparsogli all’improvviso, potrebbe rappresentare, questa volta, una via d’uscita, se si confidasse con lui, «ma non c’era più tempo per i consigli.» La resa è già avvenuta. La polizia lo sta braccando, la fuga ha le ore contate, ormai. Ma non è solo la polizia che lo sta cercando. Anche quello sconosciuto, quel ragazzo dai «capelli chiari», lo sta cercando. E sarà lui a dargli la risposta definitiva. Avverte il fiato caldo del suo cane, «che lo stava leccando.», poi lo vede, e ha una sola domanda da rivolgergli: «Perché io?».
La tragedia che segue è la conferma di un destino segnato sin dal principio. L’amore, il delitto, il rimorso, l’amicizia, il dolore, la gioia non sono che appendici, marginali tappe di una corsa già tracciata e che riguarda ciascuno di noi, una sola volta e per sempre.