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(voce di Luca Grandelis) Ciclo d’Izieu il Rodano dall’enorme ghiacciaio sciolto verso le franche pianure in cerca del mare si getta tra le colline che onora di verdi piogge il colle d’Izieu per i piccoli Ebrei spiati a Lione li interroga fateci vedere gli occhi di chi li interrogò bambini di sei anni fateci vedere se la notte sul mondo possa avere quello sguardo
In apertura la lirica che a pag. 54 dà titolo alla raccolta e introduce lo scenario di desolata disperazione prendere corpo davanti agli occhi di uno spettatore odierno all’ingresso di Auschwitz. Ma «spettatore» nessuno lo potrà mai essere, neanche dopo mezzo secolo di altre vicende, di una storia d’Occidente che ha cercato di saziare il gorgo spalancato dai nazisti, e Roberto Dall’Olio lo espone lucidamente in poesia, con la responsabilità morale di chi si considera eternamente coinvolto: «io sento che queste storie / le ho adottate» (p. 28).
La raccolta si presenta introdotta da un corposo apparato critico, che subito si dimostra essere tutt’altro: i testi che precedono e seguono i versi, sono testimonianze a sostegno della volontà dell’autore che impugna la sua funzione sociale; essere un intellettuale e quindi fornire altre chiavi possibili per interpretare la realtà e darle un senso. Dall’Olio lo fa egregiamente, cercando compagni di strada nella battaglia contro il terribile vuoto umano generato dai campi di sterminio tedeschi, «dedico questo ripetuto viaggio nell’industria della morte […] a coloro che arricchiranno il testo con i loro pensieri» (p. 17). Infatti non sono parole di critici, bensì quelle di due sopravvissuti, Pietro Terracina e Nedo Fiano, del Presidente della Fondazione Primo Levi, Fabio Levi, e del Presidente dell’Assemblea legislativa Regione Emilia-Romagna, Matteo Richetti, che rappresenta l’Istituzione e cioè la «buona» politica, che l’autore considera impegnata a risolvere i problemi della collettività e a soddisfarne i bisogni. Lontano dallo sfruttamento autoreferenziale della funzione pubblica. È un primo spiraglio: Dall’Olio crede, quindi, che il futuro abbia in grembo un angolo di sereno, il quale deve necessariamente essere cresciuto, alla pari di un giovane uomo, e sono proprio i suoi studenti e i suoi figli i dedicatarii più cari a cui lasciare nell’animo questo libro in modo che la società del domani non commetta – almeno non nelle stesse proporzioni – un tale errore: «[ […]] come fosse sconfitto / il virus della ripetizione / per ripetersi bastano le condizioni / lager che oggi stanno / in accordi tra le nazioni» (p. 27-28).
«Chi non ha non è»: citando Franco Basaglia nell’incipit alla prima sezione a pag. 19, l’autore rovescia l’idea di Erich Fromm e – volendo – della tradizione francescana per cui chi ha, è. Banale è l’inserimento della negazione «non» che provoca un ribaltamento del significato, banale, però, non è il male: «la sorpresa fu che il male là / era perfetto» (p. 21), nella sua dettagliata pianificazione e conseguente sviluppo. Dietro le mura del manicomio come ad Auschwitz, chi non ha più alcunché, non è più alcunché. E lo si può eliminare, rispettivamente in modo figurato e in modo fisico, senza problemi di coscienza. Per assurdo si diventa anche caritatevoli all’interno di quella nera irrealtà. Un’inconcepibile disumanizzazione diventa reale: il male si tramuta in bene ed il bene in male («dopo Auschwitz / anche Dio / è di questo mondo» a pag. 46). I prigionieri si riducono a miserabili per sopravvivere, l’istinto di sopravvivenza ha la meglio: facevano la spia, finivano sempre per rubare il tozzo di pane a qualche d’un altro, come ricorda Primo Levi. E si sentivano colpevoli del gesto compiuto, divisi e colpevoli tra loro; era il rovescio della colpa nei riguardi dei propri fratelli a sterilizzarli, trasformandoli dentro in niente: «il compagno di banco prediletto / diventi per decreto / un ignobile insetto / da schiacciare» (p. 20).
I nazisti con un’azione bieca di questa portata hanno rischiato di struggere ogni forma di umanità, poiché ne hanno dato un esempio, un modello riproducibile; in un certo modo ci sono riusciti («nemmeno i morti saranno in pace / se il loro nemico / non smette di vincere. / E quel nemico / non ha smesso di vincere // l’hai saputo vero?» a pag. 49), ma ne è cambiato l’aspetto – scrive l’autore – e a causa dell’andamento della finanza mondiale muoiono migliaia di persone di fame, a beneficio di pochi: quindi noi carnefici in giacca e cravatta? Forse no, ma di sicuro coinvolti. «Per un’Europa con più coscienza / e meno banchieri» (p. 27) Dall’Olio vuole giudicare («mi sento giudice», p. 27), vuole spingere gli altri alla palese distinzione tra bene e male, in una società i cui parametri, i solchi sicuri dell’etica vanno sbiadendosi, o peggio, perdono di spessore, in cui i filonazisti affermano la Shoah sia un’invenzione degli Ebrei, dal momento che sarebbe stato assurdo avere messo in atto una crudeltà simile: il paradosso si giustifica meschinamente in sé.
Le due sezioni che l’autore riserva alle dediche rappresentano l’antologia dei pensatori che, legati al tragico periodo, l’hanno formato intellettualmente, o di coloro a cui è giusto rendere onore dopo la morte, per essersi distinti in luce da quel pantano di brutalità. Ritornano le figure di Theodor W. Adorno e Paul Celan; un imperativo del primo sottoscrive la seconda sezione – «Il tutto è falso», a pag. 27 – e probabilmente l’autore lo usa con finalità scaramantica, con un sottile sarcasmo, quasi negando a priori la lirica che ne seguirà. Il secondo, poeta ebreo rumeno, è antologizzato tra i grandi dedicatarii della raccolta; il quale aveva subito, poco dopo la pubblicazione della celebre poesia sulla Shoah Fuga di morte (Todesfuge), la famosa frase del filosofo tedesco: «La critica della cultura si trova dinanzi all’ultimo stadio della dialettica di cultura e barbarie. Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie e ciò avvelena la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie». Pertanto l’autore inverte le parti che la critica ha cristallizzato negli anni.
L’incipit dell’ultima sezione – «La gioia che è un’adesione totale e pura dell’anima / alla bontà del mondo è un sacramento» (p. 67) – è una citazione di Simone Weil, la quale si è sottratta al compromesso e si è tolta la vita poiché incapace di accettare la Legge della Forza che domina le logiche mondiali, e sfocia nei conflitti di massa che l’autore stesso denuncia.
La notte sul mondo è un poema civile composto da tanti frammenti, in cui prevalgono versi brevi, ma non sentenziosi, nitidi e netti; Dall’Olio resta fedele a se stesso e alla sua pregressa produzione impegnata. La sua formazione prevalentemente filosofica lo porta a non scendere a patti con la metrica. Importante, sì, la forma nello scorrimento del soliloquio, ma non essenziale. Nemmeno sacrifica una sola sfumatura: ogni locuzione, ogni parola è stata meditata e vagliata con precisione, con passione, ma soprattutto con l’esperienza del vissuto. Parole masticate e stese sul foglio bianco per essere digerite e fatte proprie.
Di continuo si avvale di ripetizioni quasi fosse una formula, un anatema, uno scongiuro gridato dentro di sé e ai lettori per allontanare l’oscuro passato, la nebbia a pag. 65, «nebbia di gas [ […]] nebbia sauna di morti» che l’autore intravede ancora all’orizzonte dei giorni nostri. Utilizza spesso suoni duri, allitterazioni di r e t , e dei nessi gr, tr, rt, mentre il nesso st tende a scarnificare il significante, quanto lo era il significato del tempo interminabile nei lager; le consonanti c e g velari, facilmente associabili alla fonetica dell’idioma tedesco. L’autore non sbava, non si concede una parola di troppo; è una poesia priva di clichés e di artifici di mestiere in qualità di riempitivi. Non c’è punteggiatura: è un corso o un decorso obbligato, la convalescenza da un malanno tenace, la conquista di una ripresa fisica ed interiore. In particolare l’assenza di punti e virgole, pone il fluire di tutti i pensieri sul medesimo piano, non gerarchizzando i contenuti, caratteristica che lo distingue dal contemporaneo Paolo Ruffilli molto più legato agli scalini dell’interpunzione per simulare dei crescendo di pathos, e all’uso della rime come pioli strutturali, rime che Dall’Olio evita.
Roberto Dall’Olio non ha la pretesa di molti che scrivono poesia di immedesimarsi nei panni altrui; di fronte ad una vicenda estrema a tal punto, si accorge che ciò non è possibile e allora procede da storico capace quale è, con la registrazione dei fatti; ma non si ferma alla fredda oggettivazione di un resoconto, si avvicina ai sommersi, li affianca da poeta, non lasciando che i loro ricordi siano trascurati, «l’illimitata speranza / per l’accesa candela / dell’uguaglianza» (p. 53). Come afferma il critico Franco Moretti nell’introduzione di Opere Mondo (Einaudi, 2003), «la letteratura segue i grandi mutamenti sociali: [ […]] arriva sempre «dopo». Venir dopo, però, non significa ripetere («rispecchiare») quel che già esiste, ma l’esatto opposto: risolvere i problemi posti dalla storia. [ […]] Ha una vocazione problem-solving: rendere l’esistente più comprensibile – più accettabile. E più accettabili, vedremo, i rapporti di potere, e persino la loro violenza ». Ecco, l’autore si oppone fortemente a questa consuetudine e, una volta finita la lettura del libro, ci pervade una sensazione di freddo rimarcare che «di fronte al niente che dilaga / a noi serve respingere / il desiderio trasversale / di essere indulgenti / con il male» (pp. 29-30).
figli miei chiederete un giorno queste poesie perché le ho scritte?
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Roberto Dall’Olio è nato a Medicina nel 1965. Laureato in filosofia, attualmente insegna Storia e Filosofia al Liceo Classico “Ariosto” di Ferrara. Ha pubblicato il saggio Entro il limite. La resistenza mite in Alex Langer (La Meridiana, 2000) e le raccolte poetiche Per questo sono rinato (Pendragon, 2005, più volte ristampato); La storia insegna (Pendragon, 2007); Il minuto di silenzio (Edizioni del Leone, 2008), che ha raccolto alcuni importanti riconoscimenti; e – sempre per la casa editrice veneziana – il recente La morte vita. Redattore della rivista “Inchiesta”, vive a Bentivoglio, nel bolognese, dove è assessore al-l’intercultura, nonché presidente della locale sezione dell’A.N.P.I.