Di solito l’ultimo dell’anno si fanno e si ricevono auguri a iosa. Neanche ci facciamo più caso. Neanche ci riflettiamo. È una consuetudine, una prassi ormai consolidata, come vuole e comanda la tradizione. È un automatismo convenzionale e sociale. Ma quanti auguri riceviamo e facciamo veramente con il cuore? Per saperlo davvero dovremmo guardare nel profondo di noi stessi e degli altri, avere una grande conoscenza di noi stessi e dell’umanità che ci circonda e molto probabilmente non ci conviene saperlo, così come non ci conviene fare quest’analisi approfondita e dettagliata. Comunque io faccio gli auguri con il contagocce, sono molto selettivo, anzi esclusivo nel fare gli auguri: non faccio mai gli auguri “urbi et orbi”, ironicamente parlando. Anche quando si scrive qualcosa per l’anno nuovo si fanno dediche, si riempiono le lettere di buoni propositi, di speranze; molti descrivono progetti e fanno la lista delle cose da fare sul lavoro, nel tempo libero; puntualmente nell’anno nuovo tanti buoni propositi non verranno realizzati. Giunto a 51 anni ormai per l’anno nuovo penso più alle cose da non fare che alle cose da fare, come non prendermela, né arrabbiarmi troppo con o per le persone, cercare di non pensare solo ai loro lati negativi, non crucciarmi per le persone che mi mancano di rispetto o sono un poco ingrate. Per i progetti ne ho piccolissimi, che non voglio svelare, perché sono piccole cose insignificanti e poi porta male dichiararli esplicitamente. Per il resto lo sappiamo bene. Ogni volta si fa sempre il bilancio del vecchio anno, cerchiamo di ricordarci gli eventi nefasti, le negatività ma anche le buone cose; ma non bisogna pensare troppo al dare e all’avere, a budget e consuntivi; i più realisti/pessimisti aggiungono anche dubbi, perplessità, talvolta profezie apocalittiche.

 

Sono andato alla stazione stamattina presto. Sono andato lì perché c’era l’unico bar aperto. Ho attraversato la mia zona, avvolta dalla nebbia. Non pioveva, ma c’era molta umidità. La luna faceva capolino tra le nuvole. Tutto sommato non era freddo; non avevo bisogno di guanti o berretto; stavo bene nel mio cappotto. Ho fatto un km e mezzo a passo svelto e ho incrociato solo due o tre persone nel tragitto. Pochissime macchine sfrecciavano davanti all’ospedale e poi ho trovato solo l’auto dei carabinieri che transitava nella via dove c’è l’ingresso della Piaggio. Camminavo ed ero totalmente immerso nei miei pensieri. Al bar mi sono imbattuto in una comitiva di ragazzi, che faceva colazione per poi prendere il treno. Molto probabilmente avrebbero preso il treno per Milano, Napoli, Roma, insomma per una città lontana. Ridevano e scherzavano. Erano spensierati e pieni di sogni, gravidi di futuro. Ho fatto finta di niente e mi sono rivisto mentalmente quando avevo la loro età. Ho pensato a quei tempi quando l’ultimo dell’anno era un evento clou, un giorno da incorniciare nella memoria, un momento sempre caricato di troppe aspettative, molto spesso deluse. Allora anche per me il 31 dicembre era un obbligo sociale e al contempo anche un imperativo categorico divertirmi. Io quest’anno non ho in programma niente. Non andrò in nessun locale. La sera starò con i miei genitori, mia sorella e il mio cane, a cui farò compagnia sul divano perché avrà paura dei petardi. Per me ora l’ultimo dell’anno è un giorno come un altro e mi ritengo molto fortunato ad avere ancora vivi i miei genitori. Appena passata la mezzanotte andrò a letto e appena mi sveglierò accenderò la televisione per sentire al Tg quanti feriti ci sono stati per i botti di fine anno: purtroppo ogni capodanno si fa questa triste conta. Ritorniamo ai giovani. Spesso va detto che i ragazzi eccedono troppo, si sballano per il 31. So bene che la mattina del primo gennaio 2024 avrei trovato allo stesso bar della stazione diversi ragazzi ubriachi e/o drogati, reduci dallo sballo della notte. Ho pensato a quando ero giovane e avevo, come si suol dire, una vita davanti. Ma mi sono detto tra me e me che essere maturi significa accettare il tempo che passa, senza mai guardarsi indietro con troppa nostalgia, con troppe malinconie, anche se del tempo vissuto restano ricordi sbiaditi e anche se gli amici di ieri non ci sono più, perché hanno una loro vita o perché sono scomparsi prematuramente. Eppure bisogna guardare al futuro, anche se il tempo che ci resta è minore del tempo vissuto e anche se il meglio è già stato vissuto. Bisogna fare dei piccoli progetti per il futuro. Bisogna fare delle piccole promesse a sé stessi e anche agli altri. Come scriveva Leopardi nel Dialogo del venditore di almanacchi e un passeggere nessuno vorrebbe rivivere la vita passata e la migliore vita è sempre quella non conosciuta, quella futura. Insomma sognare di avere un futuro migliore del passato è un autoinganno fisiologico e necessario, come tutte le illusioni umane (scriveva sempre il Leopardi). Bisogna pensare di costruire il futuro, anche se, come scriveva un poeta, la vita ha leggi tutte sue, che sfuggono alla nostra comprensione, e anche se proprio per questo motivo la vita ci porta sempre in un’altra direzione da quella prevista, ci scombina sempre tutti i nostri piani. La speranza più grande è che per noi ci sia ancora un futuro, che la vita continui a essere uno work in progress o come dicono i tedeschi un baustelle (come il grande gruppo musicale), che significa appunto cantiere aperto. Così l’unico modo saggio per pensare all’anno è avere un poco di curiosità mista a un certo fatalismo per quel che ci riserverà il futuro, per quello che ci porterà il futuro, essendo consapevoli che non tutto dipende da noi, che il destino per le cose veramente importanti della vita ci trascende, ci supera sempre, decide sempre per noi, anche se spesso siamo così illusi da credere l’esatto contrario.