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(voce di Luca Grandelis)Achille Rossi, intellettuale dagli studi superiori in filosofia, teologia e scienze religiose, è il maggiore esperto del pensiero dei filosofi Raimon Panikkar e Maurice Bellet in Italia. Direttore dell’inserto culturale del mensile «l’Altrapagina», ha pubblicato tra l’altro: Pluralismo e armonia. Introduzione al pensiero di Raimon Panikkar (ed. l’Altrapagina, 1990 – riedito nel 2011 da l’Altrapagina-Cittadella); L’altro come esperienza di rivelazione (intervista a Raimon Panikkar: ed. l’Altrapagina, 2008); Insieme. Racconto ragionato di un’esperienza educativa (ed. l’Altrapagina, 1996). Il suo ultimo libro è Riflessi. L’amicizia con Raimon Panikkar (ed. l’Altrapagina, 2012). L’abbiamo intervistato.
Panikkar non amava il genere biografico, ma leggendo il Suo libro si capisce che il vissuto del filosofo è importante per la comprensione della sua filosofia.
Panikkar ha sottolineato molto questo rapporto fra teoria e prassi, spiegando che la teoria nasce dalla prassi e la prassi ritorna alla teoria, in un rapporto che dà luogo a un «circolo vitale»(come lo chiamava lui). Da questo punto di vista la vita della persona è importante per conoscerne il pensiero, perché il pensiero non nasce in vacuo ma si nutre delle esperienze articolate nella prassi. Il libro che ho scritto non è una biografia, ma il tentativo di vedere alcuni riflessi dell’opera di Panikkar che reputo significativi per mostrare proprio questo: che c’è la vita dietro il pensiero e che le due realtà si illuminano reciprocamente.
Pasolini racconta nell’Odore dell’India (era il 1961) del suo incontro con il «famoso Panikkar». Perché noi lo abbiamo conosciuto così tardi?
Credo che abbia giocato a sfavore di Panikkar anzitutto la situazione italiana: sia da un punto di vista socio-politico, sia culturale. Nel 1961 la nostra società non era ancora stata toccata dall’immigrazione, l’incontro con le altre culture era remotissimo. Ricordo di aver incontrato padre Balducci, negli anni ’80, a una sua conferenza e di avergli proposto le tematiche interculturali di Panikkar. Lui mi rispose che si trattava di realtà ancora nuove e di là da venire, non ritenne ci fosse aluna urgenza; un decennio dopo è iniziata l’immigrazione di massa. Ecco che il pensiero di Panikkar, che prima poteva essere ignorato con leggiadria, è diventato un pensiero molto significativo per la nostra nuova situazione. Dal punto di vista culturale, ricordo quanto sia stato difficile introdurre Panikkar nell’editoria italiana: fu un’impresa ardua quanto mai persuadere l’editore Cittadella – cattolico – dell’importanza di pubblicare un libro come Il dialogo intrareligioso (1988); più che di una richiesta si trattò di «supplica» di darlo alle stampe. Forse non solo la nostra società, ma anche la nostra cultura era in ritardo rispetto a certe tematiche, che adesso sono invece diventate d’attualità e che figurano perfino nei programmmi scolastici degli istituti superiori.
A pag. 55 del Suo libro Panikkar, di fronte all’Himalaya, Le dice: «ecco Dio. Dio è questo e molto di più. È trascendente ma opera continuamente nella sua creazione». Come intende Panikkar questa creatio continua?
La intende nel senso che la creazione non cessa di avvenire tuttora, perché la relazione tra Dio e il mondo è qualcosa che perservera, che continua. Quest’idea c’era già, in qualche forma, nella teologia medievale, ad esempio in Tommaso d’Aquino; quello che è significativo in Panikkar è la ripresa di questa idea per sottolinare che Dio è «trasparente» nella sua creazione: l’intenzione di Panikkar è quella di sottolineare l’immanenza di Dio al mondo, unitamente alla sua trascendenza. Come dire: la trascedenza non va assolutizzata: l’assoluta trascendenza di Dio – teorizzata dal pensiero teologico occidentale – «fa un grande danno», perché induce a credere che si possa fare a meno dell’immanenza: la conseguenza e che questo Dio assolutamente trascendente diventa una realtà sempre più distante e ininfluente nella vita degli uomini – fino a dar luogo all’ateismo moderno come sbocco ultimo. Panikkar vuol evidenziare invece che Dio è sempre ovunque presente nella sua creazione e che Dio è strutturalmente e irrinunciabilmente legato all’uomo.
In una battuta Panikkar sembra caustico nei confronti del filosofo francese Maurice Bellet, quando dice: «le venga a scrivere in India quelle cose!». In che cosa consiste questo rimprovero?
Non so se questo rimprovero fosse più rivolto a me, come un monito a svincolarmi dal pensiero di Bellet, o non piuttosto a rimarcare la limitatezza della prospettiva di quest’autore (e l’inadeguatezza delle sue categorie a un contesto non occidentale come quello indiano, nel quale ci trovavamo all’epoca dell’episodio citato). Forse entrambe le cose: un invito a rimettere in discussione la mia prospettiva (allora – e tuttora – molto influenzata dal pensiero di Bellet) in favore di una visuale più ampia. D’altro canto, il rapporto tra Panikkar e Bellet è sempre stato molto strano; a partire dal fatto che – nonostante tutti i miei sforzi in tal senso – i due non si siano mai incontrati. Panikkar aveva una grande stima di Bellet e riteneva che il suo pensiero fosse adeguato ai problemi dell’Occidente e lì necessario; ma al contempo, dal suo punto di vista interculturale, la filosofia di Bellet non era sufficiente. Parimenti, ricordo che una volta Bellet, parlando di Panikkar, mi disse di condividere molto il suo metodo, ma non i contenuti. Molta stima, dunque, pur nella diversità dei percorsi. Panikkar si spinse a scrivermi, in una lettera che mi mandò per ringraziarmi di avergli donato il volume di Bellet La notte di Zaccheo, Panikkar mi scrisse: «è un capolavoro assoluto». Del resto Panikkar ha sottolineato che il suo orizzonte era più ampio di quello di Bellet, ma non ha mai tacciato quest’ultimo di insufficienza. Ritengo del resto evidente che la prospettiva del francese guadagni in profondità quello che non sviluppa in ampiezza.
Più in là con gli anni, Panikkar Le disse di condividere il pensiero di Bellet, dichiarandolo «ottimo»; contestandogli tuttavia l’intenzione di «purificare il cristianesimo». A che si riferisce?
Si riferiva all’intervento di Bellet nel libro che avevamo appena pubblicato, Il cristianesimo sta morendo? (ed. l’Altrapagina, 2001), nel quale il francese auspicava una purificazione del cristianesimo, una sua rigenerazione. Ciò che anche Panikkar evidentemente auspicava; ma in un’ottica, ancora una volta, più interculturale. Quello che Panikkar contestava a Bellet, anche in questo caso, credo fosse l’assunzione di una prospettiva troppo interna al discorso occidentale («eurocentrico», se vogliamo utilizzare questa parola che non si usa più). Anche Panikkar lavorava per questa purificazione: ma a partire dall’offerta delle tante tradizioni del mondo, mentre Bellet partiva dal crollo di quella occidentale classica. Di fronte a questi due punti di partenza tanto diversi, non posso non osservare quanto simili fossero gli esiti: al di là delle differenze, entrambi convergano su un punto di fondamentale importanza, la presenza del Mistero che si intravede anche nel buio fitto della «traversata» dell’esistenza. Pur non essendosi mai incontrati e pur nella presa di distanze cui accennavo prima, ritengo che questi due filosofi abbiano avuto delle grandi affinità.
Cosa sente di dire a chi non ha mai incontrato Panikkar ma si sente affascinato dalla sua filosofia?
Mi sentirei di incoraggiare questa ricerca, perché reputo la filosofia di Panikkar molto attuale – sia dal punto di vista filosofico, sia da quello religioso: oggi abbiamo un gran bisogno di ritrovare Dio al di là della razionalità, delle formule rituali, dei sistemi ideologici. Abbiamo bisogno di riscoprire la profondità dell’esperienza religiosa cristiana che sappia attingere alle forme e ai modi dell’Oriente. Cosa c’è di più urgente che conoscere l’altro oggi, quando l’incontro è involontario e sempre più frequente e inevitabile? In questo Panikkar è una «grande porta» verso un incontro tra le esperienza religiose che si situi in profondità. Cosa dire quindi a chi respira l’atmosfera interculturale nella quale siamo sempre più immersi e si sente perciò attratto dalla prospettiva di Panikkar? Che la scelta della filosofia di Panikkar è felice, perché questo pensiero non è solo attuale ma anche qualcosa di più: io dico spesso che «Panikkar ci aspetta nel futuro», perché è nel pensiero di un futuro possibile – mentre ci troviamo al nostro mondo d’oggi, che ogni giorno di più ci mostra di essere impossibile – che Panikkar dischiude nuove possibilità per una umanità che finalmente aspiri alla convivenza pacifica.
A. Rossi, Riflessi, ed. l’Altrapagina, 2012, pp. 100, euro 10.