Didattica del mondo possibile
(Breve nota al «corso di sopravvivenza» di Girolamo De Michele)
C’è qualcosa di intenso e seducente nell’ultimo libro di Girolamo De Michele: «Filosofia. Corso di sopravvivenza» (Ponte alle grazie, 2011) ed è il fatto che il testo non essendo né un manuale ufficiale, né un saggio filosofico, né tantomeno una raccolta di biografie o exempla esistenziali, alla fine finisce col riassumere tutto questo aggiungendovi una sua qualità etica che ne fa appunto una singolare proposta di «sopravvivenza».
Partendo dal fatto che il sapere filosofico non è «sopra» la vita e la realtà ma vi sta dentro creandole e creandosi continuamente, l’autoreci conduce attraverso una stratificazione a volte discontinua, a volte più omogenea, di epoche, problemi, autori e concetti nel tentativo efficace di mostrarci che il tempo del pensiero noncoincide mai con quello della storia del pensiero.
La temporalità «altra» del concetto
Il tempo filosofico è un tempo non storico, ma stratiforme. Questo vuol dire che la filosofia è una cosa molto diversa dalla storia della filosofia, nella quale i filosofi sono infilati come i grani di un rosario e la conoscenza si svolge dal più antico al più recente: col risultato di rendere inspiegabile il perché alcuni tra i più grandi (e secondo molti i due più grandi) sono stati i primi.
Questo significa che nella vita del pensiero per esempio Agostino con la sua nuova idea del tempo può convivere con Freud e l’insegnamento di Seneca può essere accostato a quello di Deleuze, così come un problema come la governance della scuola pubblica po’ essere illuminato dalla analisi delle società disciplinari di Foucault.
E quando anche il sapere diventa un oggetto su cui si allungano le mani dell’impresa, che ha per scopo non l’estensione della conoscenza pubblica, ma l’aumento dei profitti di alcuni privati; quando alcuni beni comuni come l’acqua o l’ambiente sono smontati o privatizzati, che ne è della nostra vita? Che ne è della libertà? E’ questa in fondo l’unica domanda che conta.
Di conseguenza, poiché i concetti sono delle pure possibilità in grado di mettere in causa l’esistente, in quanto ne annunciano il tramonto e il superamento, creando quindi mondi possibili, l’esistenza dei filosofi è sempre stata un’esistenza a rischio, come attesta in modo inequivocabile la tradizione filosofica italiana. De Michele in effetti rimanda in continuazione ai filosofi italiani e nel testo c’è un intero capitolo dedicato ad essi,i quali nella diversità di prospettive sono però accomunati da uno stesso destino esistenziale: quello della carcerazione. Sembra quasi che l’humus politico e sociale dell’Italia al di là dei tempi e delle stagioni sia stato quello di negare la libertà e la vitalità del possibile che si concretizzava nel pensiero dei suoi filosofi da Bruno a Machiavelli, da Leopardi a Gramsci, a Negri.
La grande evasione: creare il buco
I grandi filosofi italiani, in un modo o nell’altro, assomigliano ad Edmond Dantès, La loro condizione umana è la carcerazione: metaforicamente o alla lettera, dal punto di vista filosofico Machiavelli, Vico, Leopardi e Gramsci sono cresciuti in una galera dalla quale con l’aiuto dei maestri del passato-ciascuno di loro ha avuto un personale abate Faria- sono evasi
Tale evasione non è tanto fisica poiché molti di loro sono caduti fisicamente o socialmente sotto i colpi o le reclusioni delle autorità di questo mondo (che si sia trattato del Santo Uffizio, della polizia fascista o del «natio borgo selvaggio» le cose non cambiano) quanto piuttosto di natura concettuale e proprio per questo sempre attuale.
Non saprei dirvi con certezza perché ai filosofi italiani capita un po’ più spesso di altri di essere in esilio, in carcere, in fuga: però succede. Ancora negli anni’80 bellissimi libri di filosofia (in un’epoca in cui se ne scrivevano in Italia di pessimi) sono stati scritti da filosofi come Toni Negri e Paolo Virno che erano in carcere o in esilio, sotto l’accusa di essere i capi del terrorismo italiano. Naturalmente non era vero:non erano capi di niente, non avevano commesso o comandato alcun omicidio. Non esisteva neanche un’organizzazione di cui essere a capo.
Del resto, poiché come insegnano Deleuze e Guattari, la filosofia è l’arte di creare concetti, esistono vari tipi di concetti, più o meno capaci di descrivere la realtà, esprimendo quella che è l’opinione di tutti, più o meno capaci di creare il nuovo finché il loro tempo lo consente, oppure addirittura concetti che, come il buon vino o addirittura un buon liquore con i secoli, con la stagionatura del tempo, non fanno che guadagnare nella loro capacità euristica, nel loro contenuto di verità.
In tali forme lo spessore vitale del pensiero è attualizzabile in ogni momento, dunque se il concetto è forte, non solo non muore mai, ma ci sta sempre davanti come se la sua possibilità aprisse sempre nuovi mondi. Ed è per questo che la temporalità della filosofia è discontinua rispetto alla temporalità storica.
E infine ecco i grandi filosofi i cui concetti continuano a produrre novità, conoscenza comprensione: ci sono concetti(le idee di Platone, l’intelletto produttivo di Aristotele, la gioia di Spinoza, il divenire di Eraclito, gli atomi di Lucrezio, il nichilismo di Nietzsche, la ragione riflettente di Kant, l’arido vero di Leopardi, la dignità umana di Pico della Mirandola, la sincerità di Montaigne, la merce di Marx) che sono uno scrigno del tesoro che sembra non esaurirsi mai
Utilizzando la metafora calcistica, – e De Michele come un vero raccoglitore di materiali sparsi, come il «bricoleur» di Claude Lévi-Straus non smette mai diaccostare discipline, visioni, concetti ed elementi eterogenei presi dai mondi dello sport, della canzone, del cinema e della letteratura, – appunto facendo uso della metafora calcistica ci spiega che esistono tre forme di concetto che sono equivalenti alle giocate del football o della pallacanestro. C’è il concetto chetrova il buco attraverso il passaggio che vedono anche gli spettatori, c’è quello che il buco lo costruisce là dove nessuno lo vedeva ma dove lo scopre la moviola a cose fatte e c’è infine l’ultimo, quello geniale che il buco lo crea anche laddove non c’era.
E in fondo se con la filosofia si ragiona per buchi è perché c’è la necessità di uscire e trovare un altro campo, un altro mondo, qualcosa che dia senso alla libertà scartando la prigione del reale già dato (quella dell’impero o dell’imperatore come dice Toni Negri in un’intervista, rintracciabile in rete, con De Michele alla Libreria Marco Polo di Venezia) perché le ragioni sono diverse e la realtà in fondo è possibilità.
Il potere politico della conoscenza
Il discorso filosofico di De Michele è selettivo e stratiforme, basato sulla discontinuità, pertanto i capitoli che riguardano la filosofia antica sono limitati alla figura di Socrate alla grande filosofia di Platone (con un gesto rivoluzionario e scandaloso la grande metafisica aristotelica base dell’ordinamento filosofico tradizionale è ridotta al minimo, a favore invece dell’etica e della poetica).
Se dunque nelle «idee» di Platone e in particolar modo nel mito della caverna della «Repubblica» il filosofo ateniese ci lascia una forte riflessione politica è perché la lotta contro il mondo falso che i sistemi attuali sostituiscono al mondo vero e che nessuno è più in grado di riconoscere, diventa oggi di estrema importanza. Non a caso il mito platonico torna sotto varie forme nei romanzi di Saramago e nei racconti di P.K. Dick.
Saramago (che era marxista) e Dick ponevano in modo consapevole questi interrogativi su un piano politico: cosa ne è della nostra libertà, se qualcuno ha il potere di far apparire il mondo diverso da come effettivamente è?Platone non è certo il primo filosofo che sostiene che il mondo reale non è quello che appare ai nostri sensi: ma è il primo, per quel che ne sappiamo, a cogliere l’aspetto politico di questo problema
Non contento di aver avvicinato efficacemente Platone a P.K.Dick, De Michele fa un passo in più: libera il capolavoro platonico dalle sclerotizzazioni e dai pregiudizi popperiani che ne avevano fatto l’archetipo dello stato totalitario. Rovesciando la prospettiva, la «Repubblica» diventa invece il testo fondamentale in cui la filosofia deve mettersi all’opera mostrarsi in atto e dove l’uomo trova la giustizia reale nell’ordinamento «giusto» che è quello adatto al bene comune.
Una societàfondata sull’uguaglianza deve eliminare ogni fonte di disuguaglianza, pensa Platone. Di più: l’anima come scopre il soldato Er nel mito della reincarnazione non si eredita dal padre. E dunque essere figlio di filosofo piuttosto che di fabbro non comporta essere filosofo o lavoratore. I figli dovranno dunque essere sottratti alle famiglie e educati in comune, a spese della polis
Infine alla accusa che anche la città ideale platonica si basi sull’economia schiavistica, De Michele rispondecosì: E gli schiavi? In realtà Platone non ne parla: ma se guardate nella sua città non c’è posto per gli schiavi, dal momento che non c’è necessità di produrre ricchezza in eccesso col lavoro schiavistico, né di arricchirsi con la compravendita di esseri umani
Da Leopardi a Gramsci, passando per Marx
Certamente il capitolo sulla filosofia italiana è uno dei più importanti del «corso di sopravvivenza» e per questo vale la pena soffermarsi sulla riabilitazione filosofica che l’autore propone del pensiero leopardiano per troppo tempo considerato piuttosto una massa di appunti e riflessioni sparse. Al contrario, secondo De Michele, la reclusione di Recanati e la doppia angustia di «casa Leopardi», spingono l’autore della «Ginestra» a cercare un buco e una strada teorica per sfuggire alla disperazione individuale e alla crisi socio-politica italiana (che è spaventosamente simile a quella che noi stiamo attraversando).
Ecco perché Leopardi è uno dei padri del nichilismo, perché porta alle sue estreme conseguenze le premesse italiane (già chiare nello scritto giovanile «Discorso sullo stato presente dei costumi degli Italiani») della scoperta dell’arido vero, senza ricorrere a inutili illusioni ma evidenziando che il soggetto non è nulla e se la natura è tutto ovviamente Dio non esiste.
Néesiste altro al di fuori della natura: non c’è un Dio, né disponiamo di alcuno strumento per affermarne l’esistenza. Perché dico questo? Perché si incontrano alcuni sedicenti lettori di Leopardi che, dalla concatenazione immaginazione-infinito, deducono che Leopardi si sarebbe aperto verso la dimensione della trascendenza. Poi certo ha avuto il cattivo gusto di morire, ma se non fosse morto […]
Dunque la dolorosa filosofia leopardiana condurrebbe ad un esito completamente negativo come dimostrerebbero le conclusioni logiche di Plotino nella nota «operetta morale». Tuttavia poiché la vita non è solo logica ma anche etica e affettività, l’amico Porfirio (en passant il tema dell’amicizia è un profondissimo tema filosofico) risponde a Plotino che se il suicidio «non può essere escluso» è la nostra dimensione etica che dovrebbe farci rinunciare ad esso. Per etica intendiamo quindi il legame che ci lega a coloro che ci amano e che come tali noi faremmo soffrire intensamente (e quindi ingiustamente) con il nostro gesto. Si fa strada fin d’ora quell’idea della «social catena» che è l’unica a poter salvare l’uomo nella sua dimensione di comunità e civiltà e che troveremo precisamente evocata nella «Ginestra».
Tra questi uomini modesti ma nobili ci sono virtù non eroiche, ma civili: ‘il verace saper, l’onesto e il retto conversar cittadino, giustizia e pietade’. Virtù fondate non sulle favole o le illusioni, ma sulla verità che rende consapevoli che solo marciando insieme attraverso le tenebre, si può immaginare l’oltre della siepe, e cercare, magari poco per volta, di raggiungerlo
E che cosa è questo sapere doloroso e però civile se non una presentificazione di quella filosofia della prassi di marxiana e gramsciana memoria?
Ecco perché senza soluzione di continuità il capitolo di Leopardi è lo stesso di Gramsci e i problemi che muove Leopardi, sono per De Michele parte di quelli che evocherà il detenuto 7047 delle carceri fasciste. Antonio Gramsci uscirà fisicamente più morto che vivo da quella reclusione ma il suo pensiero avrà già compiuto la grande evasione con la mole pressoché infinita di quella officina in opera che sono i «Quaderni dal carcere».
I Quaderni -lo Zibaldone del detenuto 7047- sono un’officina di concetti che viene fondata molto tempo prima . Officina in senso lato, ma anche in senso letterale: Gramsci è il pensatore politico che con più profondità ha cercato di comprendere il mondo delle fabbriche
Nella considerazione del ruolo degli intellettuali nella storia di Italia Gramsci va approfondendo l’idea che il ruolo del lavoro intellettuale sia decisivo «perché crea una visione del mondo che ha la capacità di imporsi alle masse»
In questa prospettiva il fascismo più che una rivoluzione reazionaria si configura come una rivoluzione fatta dagli ignoranti vale a dire da coloro che disprezzano la cultura e la considerano del tutto inutile, di conseguenza reputano l’uomo stesso un essere governato dalla sua pancia. Dunque chiosa De Michele ci troviamo di fronte non ad un fatto singolo o singolarmente temporale, come pensava Croce, considerando il fascismo una parentesi nella storia della libertà dello Spirito, quanto piuttosto a un fenomeno endogeno – e quindi sempre pronto a risorgere – della dimensione socio-politica italiana :
Il fascismo non nasce dal nulla: nasce dalla storia d’Italia, dal carattere passivo della rivoluzione risorgimentale, che non ha saputo coinvolgere né durante le guerre del Risorgimento, né dopo, le masse popolari. Il fascismo è l’autobiografia della nazione italiana (come scriveva Gobetti prima di essere assassinato da una squadraccia fascista), di una nazione che aspetta l’uomo della Provvidenza come ieri aspettava (rimanendo alla finestra) Garibaldi o D’Annunzio, di una nazione che vuole sentirsi raccontare che i conflitti finiranno e ci sarà la pacificazione nazionale – e poco importa se il pacificatore sarà una delle parti in causa del conflitto. E questa passività degli italiani ha bisogno di essere nutrita dall’ignoranza
E non c’è bisogno di sottolineare quanto siano attuali e urgenti queste parole.
Per una vita non fascista
Ma dicevamo che la caratteristica più singolare e seducente del testo di De Michele è il fatto di valere come proposta di sopravvivenza, vale a dire di porsi anche come una specie di manuale etico. E allora ecco l’ultimo capitolo del corso, «Prepararsi a vivere bene» dove la lezione di Bergson e Spinoza trova il suo inveramento nella lettura deleuziana e nella filosofia di Foucault, che, è inutile dire, De Michele considera i suoi maestri. Intanto le due figure di Bergson e Deleuze sono accomunate da una morte dignitosa che è una scelta di libertà: l’uno quella di non abbandonare i fratelli ebrei, le vittime dell’Europa nazista e l’altro quella di abbandonare la vita perché, malato terminale, «non è la vita che muore, muoiono solo gli organismi», ma dopo aver consegnato il suo ultimo testo. Quindi sembra dirci l’autore del «corso di sopravvivenza» esiste la possibilità di una «vita filosofica» che è anche, evidentemente, l’esempio, di una esistenza «non fascista».
Del resto l’evidenza più forte del capitolo è sicuramente l’analisi del potere che prima Foucault e poi Deleuze hanno portato avanti indicando anche la strada di una riappropriazione della vita nell’epoca della sua irreggimentazione e delle passioni tristi che con essa si producono. Il dato di fatto è che siamo passati oramai dalle società disciplinari di epoca «classica» (il qualificativo è foucaultiano) alle società di controllo contemporanee. Quello che si dispiega non è un potere indeterminato ma un biopotereche si esprime nel controllo dei singoli processi vitali.
La vita sta diventando una specie di reality show nel quale in ogni momento siamo chiamati a nominare, valutare, giudicare, classificare. Dov’è il problema? Nel fatto che tutto ciò che non è valutabile con un numero viene escluso dal governo della quotidianità. Ci stiamo abituando a una vita espressa in percentuali e stiamo perdendo di vista la qualità
Evitare di condividere col potere la sua tristezza e le sue passioni tristi significa da ultimo sconfiggere il microfascismo che c’è in ognuno di noi, vale a dire il desiderio di potere e l’assoggettamento alle passioni servili che il potere riproduce in noi. Perché il potere non è astratto da noi ma noi stessi lo condividiamo nel momento stesso in cui esso ci abita e ci seduce. In questa direzione vanno allora le sette regole per una vita non fascista che De Michele riprende da Foucault il quale a sua volta le aveva redatte commentando «L’anti-Edipo» di Deleuze e Guattari.
Tre queste almeno vanno ricordate: Liberate l’azione politica da ogni forma di paranoia unitaria e totalizzante. Fate crescere l’azione, il pensiero e i desideri per proliferazione(…) Liberatevi delle vecchie categorie del Negativo. Preferite ciò che è positivo e molteplice, la differenza all’uniformità. L’individuo è il prodotto del potere, ciò che bisogna fare è disindividualizzare. Il gruppo non deve essere un legame organico che unisce gli individuigerarchizzati ma un costante generatore di disindividualità . Infine non innamoratevi del potere.